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Nuove suggestioni: la ragionevole durata dell’arbitrato

6. I principi di ordine pubblico processuale

6.2 Nuove suggestioni: la ragionevole durata dell’arbitrato

Oltre ai principi generali dell’arbitrato per come solitamente discussi dalla dottrina, negli ultimi anni si discute sempre più assiduamente in dottrina di ragionevole durata dell’arbitrato. Il tema è assurto a diffuso interesse grazie agli strumenti normativi sovranazionali ed, a livello domestico, è stato trattato da una recente ordinanza di un

148 Ad esempio, in Coll. Arb. Roma,7 gennaio 2014, Comune di F. contro V.M.&A. s.r.l., al lodo è

allegata una dissenting opinion dell’arbitro di una delle parti, parzialmente soccombente.

149 LUISO, loc. ult. cit. ed in particolare p. 159 usa proprio questo sintagma: “vicinanza personale ed

ideologica”.

150 LUISO, loc. ult. cit.

151 FERRUA, Nel segno del giusto processo: una seconda ondata “attuativa” dell’art. 111 Cost.? in DI

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collegio arbitrale presieduto dal professor Consolo152. Parte della dottrina ha legato anche questo particolare tema a considerazioni di politica giuridica sulla natura dell’arbitrato e, in particolare, alle teorie sulla sua “giurisdizionalità”. Perché se l’arbitrato non è processo, ogni considerazione sulla sua durata sembrerebbe non avere ragion d’essere153. Si deve dar conto del fatto che ormai da tempo la giurisprudenza sembra orientata nel considerare l’arbitrato attività pienamente ed autenticamente giurisdizionale154. In quest’ottica, tra le garanzie indefettibili di ogni procedura arbitrale, si dovrebbe necessariamente annoverare anche la massima speditezza. La quasi universalità delle fonti nazionali ed internazioni a livello comparatistico riconosce il diritto delle parti ad una definizione della lite in tempi contenuti. Se a livello internazionale gran parte della produzione sul diritto dell’arbitrato non ha mai negato la necessità della contrazione dei tempi processuali, a livello interno sembra quindi ormai essersi pienamente affermata la stessa esigenza.

Nel settore della giustizia, il principio subisce necessari adattamenti: si pensi che, nell’architettura stessa dell’arbitrato, esiste un fattore di condizionamento estremo dei tempi processuali. Si tratta del termine massimo per la pronuncia del lodo155. È evidente che, dovendo l’arbitrato concludersi nei ridotti tempi previsti dal codice, resta ben poco spazio alla dilazione. Per quanto la procedura possa congestionarsi, gli arbitri avranno sempre un interesse diretto ed immediato alla conclusione spedita della lite: se il

152 Si fa riferimento a Coll. Arb. Roma, ordinanza del 29 marzo 2015, in Giurisprudenza Italiana, 2016,

p. 671 con nota di SALVANESCHI, Arbitrato e principio di ragionevole durata del procedimento.

153 Si ricordi, ad abundatiam, che c’è pur sempre il termine per la pronuncia del lodo a “metter fretta” agli

arbitri.

154 In Cassazione, sentenza 8 aprile 1981, n. 1995, si legge che “l’arbitrato rituale si ha quando venga

attribuito agli arbitri l’esercizio della potestà giurisdizionale, da attuarsi in un processo diretto ad ottenere la decisione di una controversia”. Sempre la Suprema Corte, con la sentenza 8 febbraio 1985, n.

1028 afferma che, nell’arbitrato, “le parti hanno inteso affidare agli arbitri la funzione di veri e propri

giudici”, mentre, con la successiva sentenza n. 5205 del 29 novembre 1989, si è chiarito che la funzione

dell’arbitrato rituale sia “uno jus dicere per lo scopo in vista del quale è attuato e per il risultato al quale

conduce: il giudizio e la decisione”.

155 È la stessa SALVANESCHI, Sul termine per la pronuncia del lodo, sulla sua disponibilità e sulla

validità della previsione di un termine “mobile” in commento a Cass., 19 gennaio 2015, n. 744, in Rivista dell’arbitrato, 2015, fasc. 3, pp. 513 e ss. ad essersi a lungo interrogata proprio sul termine perentorio di

conclusione dell’arbitrato. E ad aver posto in dubbio, soprattutto, la possibilità di costruire pattiziamente un termine mobile o di slittare più volte uno originariamente fisso. In qualche misura, le parti devono accettare come realtà a loro ontologicamente preesistente, la struttura dell’arbitrato e, con essa, la rigidità intrinseca della sua parte finale. Non possono pattinare liberamente oltre questi limiti.

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termine viene valicato, infatti, può configurarsi a loro carico un’ipotesi di responsabilità. Esistono eventualità in cui detto termine può essere prorogato e, quindi, non si può in linea di principio escludere che un arbitrato possa assumere una dimensione temporale rilevante, ma tendenzialmente la durata è decisamente inferiore al processo civile ordinario. Il rischio di incorrere in un caso di irragionevole durata è quindi marginale, per quanto virtualmente possibile. Il procedimento che si prolunghi irragionevolmente frutterebbe agli arbitri le sgradite conseguenze del termine violato, in più calerebbe sul lodo l’ombra della impugnabilità del lodo. In Italia, nessuna norma disciplina il contenimento dei tempi in arbitrato all’infuori delle disposizioni sui termini di pronuncia del lodo.

Nonostante queste premesse, la dottrina ha evidenziato come esistano casi in cui, pur essendo formalmente rispettato il termine ultimo, possa configurarsi una distensione dei tempi tale da controvertere il principio di ragionevole durata. In particolare, l’illecita distensione potrebbe nuocere non tanto agli interessi delle parti, ma alla proficuità del lavoro degli arbitri. L’ordinanza arbitrale sopra citata tratta proprio uno specifico caso in cui il meccanismo della “ragionevole durata” si è attivato a beneficio del collegio arbitrale, i cui lavori erano ostacolati da continui rinvii su richiesta congiunta delle parti. Si è detto che i litiganti hanno piena disponibilità delle forme processuali e, dalla lettura del Codice: nel caso oggetto dell’ordinanza in discussione le parti avevano reiteratamente chiesto alla corte arbitrale di estendere il termine per l’espletamento di una preventiva fase conciliativa. In sostanza, la trattazione vera e propria della causa era stata procrastinata più volte su impulso congiunto, prolungando oltremisura la fase conciliativa. Il collegio si era quindi ritrovato ostaggio di una procedura la cui durata andava abnormemente accrescendosi: l’irragionevole durata, pur giovando alle parti nella ricerca di una soluzione concordata della lite, lasciava gli arbitri in una sorta di limbo per un periodo di tempo indefinitamente lungo. Con l’ordinanza, la corte ha circoscritto il perimetro della volontà pattizia: la durata ragionevole del processo è “situazione, questa, che non può ritenersi integralmente cedevole rispetto alle istruzioni

delle parti”156. Quindi, al dominio dei litiganti sulla procedura (e, di conseguenza, sui tempi processuali), si pone un limite estrinseco invalicabile. È naturale che, perché

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possa configurarsi una vera emergenza garantistica nell’ambito in questione, devono ricorrere una distensione particolarmente ampia. Inoltre almeno nel caso di specie, l’incidenza del principio era stata condizionata all’esistenza di circostanze particolari dovute al particolare oggetto dell’arbitrato157. In ogni caso, si è affermata, anche in arbitrato, una tendenza al contenimento dei tempi procedimentali come diritto tanto degli arbitri quanto dei giudicanti. La sua morfologia è però assai diversa dalla tradizionale “ragionevole durata” disegnata dalle norme della legge Pinto, in quanto manca in radice la possibilità di richiedere un risarcimento (dato che l’amministrazione pubblica non ha alcuna responsabilità nelle lungaggini del giudizio privato).

157 Sempre nell’ordinanza del 29 marzo 2015, il Collegio specifica espressamente che la necessità di

contenere i tempi processuali è dettata anche da altre circostanze estrinseche relative alla natura della causa. L’ordinanza riguarda infatti un arbitrato avente ad oggetto dell’impugnazione di una delibera societaria. Negli arbitrati societari sono coinvolti gli interessi di numerosi soggetti, alcuni dei quali non partecipano direttamente all’arbitrato: l’eccessivo prolungamento dei termini processuali recherebbe quindi un nocumento notevolmente amplificato e si proietterebbe su una pletora di terzi, potenzialmente contrari all’instaurazione del giudizio in sé.

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CAPITOLO 2

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