I PARTE IL PANORAMA GENERALE DELLA COMUNICAZIONE PER LO SVILUPPO
Capitolo 1. La comunicazione per lo sviluppo: definizione, storia, teorie e modell
1.1. Introduzione alla comunicazione per lo sviluppo
1.1.6. Dal nuovo concetto di sviluppo ai nuovi paradigmi della comunicazione
Le riflessioni più recenti sul concetto di sviluppo, negli anni ’80 e negli anni ’90, che abbiamo appena riportato, condussero ad un cambiamento radicale di prospettiva rispetto alle applicazioni della comunicazione, ed hanno aperto la strada a nuovi paradigmi, di cui ci occuperemo in questo paragrafo.
Secondo Servaes38, il punto di vista contemporaneo poggia su alcuni nuovi principi, provenienti tanto dalle discipline della comunicazione che dalle correnti di pensiero multiculturale sullo sviluppo, applicati nella maggior parte dei programmi di cooperazione:
-l'enfasi sul processo di comunicazione inteso sia come scambio di significato che sul significato stesso del processo, cioè sulle relazioni sociali che costruisce;
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-il superamento del modello persuasivo: quello che conta è la circolazione delle informazioni in tutte le direzioni, secondo un modello in grado di colmare i “vuoti” di conoscenza dove necessario, rispondendo alle richieste e alle esigenze dei destinatari;
-la prospettiva culturale dominante, che non riguarda solo il contesto sociale e ambientale, ma soprattutto l’universo normativo interiore degli individui che guida la costituzione di idee, decisioni e comportamenti;
-la democrazia partecipativa: onnipresente nelle dichiarazioni di principio da parte di politici, amministratori ed intellettuali, può essere trasformata da semplice proclama in una realtà grazie ai nuovi mezzi di comunicazione di massa;
-la lotta per l’accesso alle risorse della comunicazione e la riduzione del “divario digitale”39: si ribadisce il principio della libera circolazione della conoscenza e delle informazioni, e la lotta contro le licenze e i brevetti;
-l'importanza della comunicazione per la globalizzazione e l’ibridazione dei modelli culturali;
-il concetto di flusso all’interno e all’esterno delle società, che porta alla mescolanza di variabili interne ed esterne di sviluppo.
Basato sui concetti appena esposti, il modello partecipativo ha sostituito i paradigmi ormai antiquati della diffusione e del cambiamento di comportamento, su cui si sono appoggiate per anni la maggior parte delle applicazioni in ambito comunicativo. Secondo questa nuova linea teorica, la comunicazione è l’articolazione delle relazioni sociali fra esseri umani, i quali non devono essere forzati ad adottare pratiche di comportamento estranee, seppur innovatrici, anche se risultano estremamente utili dal punto di vista degli enti e dei governi che li propongono. Gli individui vanno piuttosto incoraggiati a partecipare attivamente alla definizione dei programmi e alle modifiche delle pratiche proposte per migliorare le proprie condizioni, grazie all’utilizzo della comunicazione e dell’informazione, adattate alle proprie caratteristiche culturali e sociali.
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A questo proposito, si veda www.digitaldivide.it, in cui si descrive l’entità del problema e si organizzano forme di lotta contro i brevetti in campo informatico, mettendo a disposizione strumenti informatici di libero accesso (open source).
Secondo i teorici della partecipazione, la comunicazione per lo sviluppo richiede una certa sensibilità per la diversità culturale e il contesto specifico di realizzazione degli interventi, che invece mancava totalmente nella teoria della diffusione e nei primi studi sul cambiamento di comportamento. Gli insuccessi registrati nei progetti realizzati anteriormente all’avvento del paradigma partecipativo sono stati giustamente interpretati all’insegna della mancanza di considerazione di questi aspetti.
Un autore fondamentale per la teorizzazione del paradigma della partecipazione è il brasiliano Paulo Freire40, secondo il quale uno dei motivi principali del fallimento dei programmi di educazione dei piccoli agricoltori era da ricercare nell’intenzione di convincerli dei benefici delle innovazioni che si cercava di far adottare. L’errore fondamentale risiedeva nel tentativo di inculcare concezioni e percezioni estranee, percepite come imposte, forzando le popolazioni locali ad accettare i modelli calati dall’esterno. Alla base dell’insuccesso di questi progetti era quindi l’autoritarismo di base delle strategie di comunicazione che tendevano ad imporre certi tipi di comportamento, in contrasto con un’idea di interazione con la comunità.
L’approccio proposto da Freire, detto della “pedagogia dialogica”, invece, parte dall’idea che la comunicazione debba essere funzionale alla costruzione di una percezione della partecipazione nella costruzione e nella condivisione delle innovazioni da introdurre, per cui l’educazione si trasforma da imposizione in scoperta creativa. La teoria di Freire viene detta “dialogica” perché tutti, uomini e donne, hanno il diritto di “far sentire la propria voce” e ad esporre le proprie considerazioni sul processo di sviluppo. Freire inquadrò i problemi del Terzo Mondo dal punto di vista della comunicazione, non della mancanza di informazione, e soprattutto rivalutò le pratiche agricole e sanitarie che dai teorici della modernizzazione venivano indicate come cause del sottosviluppo41.
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Freire, P., Pedagogy of the oppressed, New York, Seabury Press, 1983.
41
Un caso interessante di messa in pratica delle teorie di Paulo Freire è il paese Amayuelas de Abajo, Palencia (Spagna), dove un villaggio abbandonato è stato recuperato da nuovi “colonizzatori” che rivendicano la cultura rurale, la dimensione del piccolo paese e hanno istituito una scuola di formazione, intitolata appunto a Paulo Freire, per le tecniche tradizionali nell'agricoltura, nella costruzione e in generale per uno stile di vita più sostenibile. Vedi http://www.nodo50.org/amayuelas/.
Fondamentale nella teoria di Freire, così come nelle successive applicazioni del modello partecipativo, è l’approccio “antropocentrico” che rivaluta l’influenza dei canali di comunicazione interpersonali nei processi di decisione a livello comunitario. Diverse ricerche, come abbiamo visto anche dagli studi di Rogers descritti precedentemente, hanno dimostrato che, specie in ambito rurale, i gruppi marginali, affetti da un alto tasso di analfabetismo, preferiscono un’interazione diretta piuttosto che mediata. Questo non comporta però l’esclusione degli strumenti di comunicazione di massa. Inutili e perfino dannosi se percepiti come estranei alla propria cultura e imposti dall’esterno, se usati in modo complementare insieme ai canali interpersonali possono comunque apportare il proprio contributo.
I mass media possono perciò venire impiegati come strumenti fondamentali nei progetti di educazione e sviluppo, ma è bene che i responsabili sappiano piegarne il funzionamento alle caratteristiche del contesto di attuazione, con metodologie che la comunità possa maneggiare facilmente e con naturalità, evitando che si generino meccanismi controproducenti, come le dissonanze cognitive42, rispetto alle proprie tradizioni e alle proprie identità culturali. Per esempio, canali di mediazione come il teatro, la radio, il cinema o la televisione possono trasformarsi in occasioni per far esprimere attivamente i soggetti e allo stesso tempo coinvolgerli nell’uso degli strumenti di comunicazione di massa per identificare certi problemi, riflettere sulla propria comunità ed elaborare delle possibili soluzioni. Sono gli stessi membri del gruppo, non i professionisti della cooperazione e della comunicazione, ad assumersi la responsabilità delle decisioni che li riguardano direttamente. In questa prospettiva, i mass media diventano un elemento per la partecipazione attiva dei beneficiari stessi dei progetti, funzionali ad un processo di “creazione” più che di diffusione della comunicazione e delle informazioni.
Riassumendo, il paradigma partecipativo si basa quindi sui seguenti principi:
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La teoria della dissonanza cognitiva viene introdotta da Leon Festinger nel 1957. Per dissonanza si intende uno stato di tensione a causa della percezione di un'incoerenza logica, una tensione psicologica interiore che si crea quando il proprio comportamento, coscientemente o per imposizione, entra in conflitto con ciò che si crede/pensa. In questo caso, e negli studi sulle comunicazioni di massa, la dissonanza cognitiva indica una possibile reazione da parte dei destinatari, quando viene esposto ad un messaggio che contrasta con le proprie convinzioni o gli viene imposto un comportamento contrario alle stesse. Può essere una causa frequente degli effetti distorti o secondari della comunicazione.
-le azioni comunicative vanno intraprese come un processo integrato che utilizza tanto i canali di comunicazione di massa quanto quelli interpersonali;
-la comunicazione è un processo sociale, non riducibile al messaggio o ai canali di diffusione, in cui intervengono i destinatari tanto nella ricezione quanto nella valutazione dell’uso degli stessi mass media rispetto all’impatto sulle proprie vite;
-la comunicazione per lo sviluppo è intersettoriale, non va ristretta alle grandi agenzie e organizzazioni della cooperazione internazionale, perché è in grado di influire positivamente nei processi di sviluppo solo se si integrano e coordinano le azioni di tutti i soggetti partecipanti.
Nemmeno il modello partecipativo, comunque, è rimasto totalmente immune alle critiche. Come segnala Silvio Waisbord, in una ricerca43 effettuata nel 2001 per la Fondazione Rockefeller (uno degli enti privati più attivi nella riflessione e nelle applicazioni delle teorie comunicative ai contesti di sviluppo), non è sempre chiaro a quali e a che livello della struttura sociale si debba estendere la partecipazione.
Per esempio, in casi di emergenze come disastri naturali o carestie, un’attività decisionale all’insegna della partecipazione può essere dannosa e paralizzante. Sebbene positiva nel lungo termine, la strategia partecipativa può provocare effetti negativi e problemi nel breve periodo. Ancora, segnala l'autore, si tendono a considerare le comunità come immuni all’influenza delle comunicazioni di massa che a livello globale espongono agli stessi identici messaggi pubblici differenti, provenienti dai contesti più vari, per cui non si può totalmente prescindere dal considerare l’impatto provocato da questa esposizione, seppur passiva e occasionale. Inoltre, sembra non prendersi in considerazione la volontà dei destinatari, ammettendo fra le varie opzioni anche la possibilità che i beneficiari degli aiuti non vogliano partecipare al processo di sviluppo, decidendo quindi di non voler essere coinvolti nei progetti che propongono questo obiettivo.
Invece questo fenomeno di “rigetto” e in alcuni casi di aperta ostilità è più frequente di quanto si possa pensare, in ambito cooperativo. Spesso la resistenza alla partecipazione riguarda le fasce più deboli della società (anziani, donne e bambini), alle quali tra l'altro si dirige l'intervento in quanto più bisognose di aiuti.
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Waisbord, S., Family Tree of theories, methodologies and strategies in Development
Situate nel gradino più basso della struttura gerarchica, però, subiscono nelle azioni di cooperazione le stesse discriminazioni a cui sono sottoposte nelle reti sociali di origine, perché sono sempre quelli che stanno in cima, i leader, ad entrare in contatto con i professionisti della cooperazione, imponendo la propria visione privilegiata e, se necessario, utilizzando la propria forza di coercizione per combattere e mettere a tacere le voci discordanti, le opinioni che contraddicono l’ordine prestabilito. In questi casi, attraverso una partecipazione, per così dire, incompleta e limitata, si ottiene l'effetto indesiderato e opposto, danneggiare ulteriormente chi già si trova in una posizione svantaggiata, attraverso l’imposizione di una volontà esterna invece che dell’adesione.
Infine, è interessante notare come alcuni critici asiatici abbiano accusato la teoria partecipativa di affidarsi eccessivamente a modelli occidentali di democrazia, che non considerano come la partecipazione possa incrementare il grado di confusione e incapacità di risoluzione dei problemi, mentre affidarsi a membri della comunità più attivi e potenti è una soluzione più veloce ed efficace, che beneficia tutta la società.
Alla luce di queste ultime considerazioni, il ruolo degli enti pubblici si riafferma di nuovo, a nostro parere, come fondamentale, per tenere sotto controllo i contesti in cui si prevede la realizzazione dei progetti di comunicazione partecipativa, guidati direttamente o tramite organismi intermedi come le Ong. Attraverso gli uffici distaccati o i rappresentanti locali, i dirigenti pubblici dovrebbero poter (e sapere) monitorare costantemente la situazione ed eventualmente coordinare e mediare gli interventi; dovrebbero essere in grado di prevedere a priori, con scarso margine di errore, l’impatto dell’introduzione di certe pratiche e strumenti nella comunità, visionando i progetti attuati in precedenza ed effettuando analisi comparative sui risultati ottenuti, evidenziando punti forti e debolezze, le cause di successo e insuccesso; dovrebbero incoraggiare i mass media locali a svolgere un’azione reale di servizio per la comunità, favorendone la diffusione negli strati sociali più emarginati della popolazione e incoraggiando una programmazione dei contenuti che privilegi le tematiche di interesse per la comunità e aiutandoli a proteggersi dalla concorrenza dei giganti globali dell’informazione, che operano sempre in connivenza con le élites del potere prestabilito dove le voci alternative e le proposte di cambiamento non trovano spazio.