• Non ci sono risultati.

L’ ONORE DELLE ARMI AL NEMICO VALOROSO

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 163-177)

Yaqob Beyene

In questo breve lavoro saranno passate in rassegna, come in una visione cinematografica, le vicende storiche relative all’arrivo dell’Italia in Africa in qualità di potenza coloniale, la creazione della Colonia Eritrea, l’educazione tradizionale dei combattenti etiopi, gli eroi italiani caduti in battaglia nella tradizione culturale etiopica, il trattamento di ospitalità offerto ai prigionieri italiani della battaglia di cAdwā e la terribile punizione inflitta ai prigionieri ascari eritrei ed etiopici.

Come è ben noto, l’Italia è stata l’ultima potenza coloniale ad arrivare in Africa. La sua storia coloniale, infatti, ebbe inizio nel 1869, allorché la Società Rubattino, col beneplacito del governo, acquistò lo stabilimento di cAssab sulla costa occidentale del Mar Rosso. Le sue prime pratiche per allacciare relazioni con l’Etiopia, invece, risalgono al 1857 giacché era proprio il 15 gennaio di quell’anno che il direttore capo divisione del Ministero sardo degli Affari Esteri, Cristoforo Negri, aveva scritto a Guglielmo Massaja, vicario apostolico dei Gāllā-Oromo, proponendogli di negoziare col principe più potente dell’Etiopia un trattato di

amicizia e di commercio.1 Massaja, che si trovava nell’attuale Etiopia meridionale,

incaricò il missionario Leone De Avanchers, che svolgeva la sua attività missionaria nell’Etiopia settentrionale, di condurre le trattative con il dağāč Negusē, governatore del Tĭgrāy (gli attuali Tĭgrāy ed Eritrea) e pretendente al trono imperiale d’Etiopia. Questi accettò la proposta e inviò una lettera a Vittorio Emanuele II.2 Ma la morte di Cavour troncò sul nascere ogni ulteriore trattativa.

Ma, come abbiamo già detto, la vera storia coloniale dell’Italia iniziò nel 1869, con l’acquisto, da parte della Società Rubattino, dello stabilimento di cAssab. Tale decisione era stata presa perché la Società di navigazione Rubattino, che dirigeva i suoi piroscafi nelle Indie attraverso Bab el Mandeb, voleva creare nel Mar Rosso una stazione di rifornimento di carbone. Il 15 maggio 1880, Sapeto condusse felicemente a termine le trattative formalizzando il contratto di acquisto, a nome della Società Rubattino, delle isole di Sanabor e di una striscia profonda sei miglia del territorio compreso fra Rās Dāmāh e Rās Lumā a nord di cAssab. La Società pagò 13.000 talleri di Maria Teresa per questi acquisti.

Il 10 marzo 1882 fu firmata a Roma una convenzione tra la Società Rubattino ed il governo italiano per la cessione del possedimento di cAssab.3 Nel 1884 fu ucciso l’esploratore Cecchi con i suoi compagni. Il governo italiano, spinto dall’opinione

pubblica, mandò un piccolo distaccamento ad cAssab, apparentemente per punire i

colpevoli, in realtà per occupare Massawa. L’Italia era stata spinta a questo dalla Gran Bretagna la quale, già padrona dell’Egitto, vedeva questo suo possedimento

1 Ministero della Guerra, 1935, p. 13.

2 Ufficio storico della Marina Militare, 1929, p. 4.

YAQOB BEYENE

132

minacciato dalla ribellione dei Mahdisti.4

Il 25 gennaio 1885 l’Italia occupò Baylul facendovi sbarcare un centinaio di marinai e dichiarandola territorio italiano. Anche Massawa fu occupata il 5 febbraio dello stesso anno e la sua occupazione coincise con l’arrivo in Italia della notizia della caduta di Khārtum nelle mani dei Mahdisti, avvenuta il 26 gennaio. Andò quindi in fumo il progetto di una collaborazione anglo-italiana in quella regione in quanto si venne a sapere che l’Inghilterra aveva già deciso di sospendere ogni azione contro il Sudan.

Roma, volendo mantenere buone relazioni con l’Etiopia, inviò Ferrari e Nerazzini per informare l’imperatore Giovanni IV del fatto che il commercio del suo regno era completamente aperto sia nel porto di Massawa che nelle zone adiacenti. Nonostante la benevola accoglienza del negus e le profferte d’amicizia, Ferrari e Nerazzini non riuscirono a tranquillizzare l’imperatore circa i reali intendimenti degli Italiani. Com’era prevedibile, l’atteggiamento dell’Italia non tardò ad irritare l’Etiopia. Così, il 14 gennaio 1887, il generale Gene ricevette una lettera da rās Alulā, governatore dello Hòamāsēn, con la quale quest’ultimo intimava di far sgomberare le località occupate dalle truppe italiane irregolari. Essendo molto allarmato dalle attività italiane sulle coste del Mar Rosso, rās Alulā fece anche imprigionare tutti i partecipanti alla spedizione Salimbeni minacciando di metterli a morte se gli Italiani non avessero sgomberato Sacatòi. Il 26 gennaio rās Alulā sterminò a Dogali la colonna del tenente colonnello De Cristoforis che accorreva in soccorso dei suoi connazionali a Sacatòi.5 Il governo italiano, a quel punto, pensò di ricorrere alle trattative diplomatiche. Menelik, allora re dello Šawā, dietro consiglio del conte Antonelli si offrì come mediatore. Ma l’imperatore Giovanni IV rifiutò di dare all’Italia qualunque soddisfazione circa gli avvenimenti di Dogali.6

Menelik, che in quel momento aveva come unico scopo di arrivare al trono imperiale, sfruttando a suo vantaggio la situazione creatasi tra Giovanni IV ed il governo italiano, il 20 ottobre 1887 firmò con l’Italia una convenzione nella quale egli assicurava la sua assoluta neutralità in caso di azione militare italiana contro Giovanni IV. L’Italia, in cambio di questo formale impegno gli inviò cinquemila

fucili Remington.7 Così l’imperatore Giovanni IV si trovò in una situazione molto

delicata in quanto il suo impero era minacciato a nord dagli italiani; a sud dalla ribellione del negus Menelik sostenuto dall’Italia che si teneva pronta ad intervenire appena il ribelle fosse sceso decisamente in campo contro l’imperatore Giovanni IV; ad ovest era minacciato da altri alleati di Menelik, i Mahdisti che, penetrati in Etiopia, avevano già incendiato la città di Gondar. Allora Giovanni IV, fiero difensore

4 Ministero della Guerra, 1935, p. 60. Ciasca, 1940, p. 132.

5 Dei cinquecento italiani che componevano la colonna, quattrocento uomini di truppa morirono e ottantacinque furono mutilati in modo più o meno grave, mentre gli ufficiali caduti furono ventidue. Si salvò solamente il capitano Michelini. Cfr. Ministero della Guerra, 1935, p. 113. Tra le truppe etiopiche, invece, ci furono circa duemila uomini tra morti e feriti. Cfr. Zaghi, 1934, p. 129.

6 Ministero della Guerra, 1935, pp. 134-137; Ciasca, 1940, pp. 164-165; Nicoletti, 1895, pp. 19-28.

7 Ministero degli Affari Esteri, 1906, p. 186; Ministero della Guerra, 1935, p. 138; Gabrakidān, 1998 (calendario etiopico), pp. 45-48.

L’onore delle armi al nemico valoroso 133 dell’integrità territoriale del suo impero, decise di lasciare gli Italiani per andare ad affrontare quelli che egli considerava nemici non solo dell’Etiopia ma anche della religione dello Stato, il Cristianesimo, cioè i Mahdisti. Così, il 10 marzo 1889, Giovanni IV morì a Matammā, sul confine centro occidentale etiopico-sudanese, sacrificando la propria vita per quello in cui credeva fermamente, la sua patria e la sua fede cristiana.8

Che gli etiopi amino profondamente la loro origine, la loro religione, la loro patria e la loro libertà e che essi, per difendere tutto ciò, siano sempre stati pronti ad affrontare qualsiasi guerra, è cosa ben nota. Una tale determinazione è dovuta certamente ad uno straordinario orgoglio nazionale che fonda la propria origine su un grande passato, su una indipendenza gelosamente difesa dai più possenti e terribili nemici.9 Una tale determinazione si fonda su una storia gloriosa ed è inculcata dagli anziani nella mente dei giovani sin dalla più tenera età con uno scopo ben preciso, cioè creare e formare dei guerrieri, aumentare e consolidare la potenza della stirpe e della famiglia che non deve estinguersi. Non a caso, infatti, tra i giochi tradizionali etiopici ancora oggi è molto praticata una sorta di guerra combattuta tra due gruppi di ragazzi che osservano fedelmente le stesse regole di correttezza e lealtà presenti nelle guerre “vere”, pena l’esclusione dal gioco.10 Si tratta certamente di un divertimento, ma è l’occasione per una specie di esercitazione militare, ed appare evidente che lo scopo di tale gioco è quello di forgiare persone coraggiose e leali, veri guerrieri insomma, che, vincendo la paura, vincono la morte.11 Così gli etiopi, essendo cresciuti in un ambiente simile, vincendo la paura hanno sempre vinto la morte e, quindi, hanno sempre vinto la guerra.

D’altro canto, nel corso della sua lunga storia il popolo etiope ha combattuto numerose guerre, sia per difendere l’indipendenza della propria patria che per sostenere i capi locali alla ricerca di supremazia.12 E, come nei giochi della loro infanzia vige la regola di non maltrattare gli avversari sconfitti che non si siano macchiati di tradimento della famiglia oppure della patria, così gli etiopi non infieriscono sul nemico che si arrende per aver perso la guerra.13 E, ancora, così

8 Riola, 1889, pp. 69-72; Capucci, 1889, p. 90-92. 9 Piccinini, (s.n.t.), p. 102.

10 Per avere le idee chiare sull’educazione tradizionale etiopica, è necessario tenere presente che l’etiope, proprio in virtù dell’educazione ricevuta, è sprezzante del pericolo, appassionato del fucile, che la guerra corretta è il suo ideale e che ha un concetto altissimo della propria dignità che lo rende estremamente orgoglioso. Dato il profondo sentimento di rispetto delle genti abissine verso gli uomini d’armi, questi possono essere affrontati solamente in una onesta azione di guerra. Per meglio capire quanto affermato, basta tenere presente che nella società tradizionale abissina, ed in particolare in quella tigrina, chi colpisce di sorpresa l’avversario ricorrendo ad un agguato per pusillanimità, è definito “vigliacco” e, come tale, è disprezzato da tutta la società. Cfr. Mantegazza, 1896, p. 482; Gana, 1941, p. 183; Vitale, 1962, p. 61; Beyene, 2003, pp. 136, 152.

11 Asrāt, 1992, pp. 58-61.

12 Infatti non è errato affermare che in Etiopia, almeno fino alla fine del secolo XIX, nessuno è salito al potere se non sconfiggendo in battaglia gli altri pretendenti.

13 Con questa affermazione non si intende, naturalmente, negare che nel corso della storia etiopica ci siano state delle eccezioni.

YAQOB BEYENE

134

come esaltano la figura dei propri eroi nazionali, allo stesso modo non esitano ad esaltare la figura di quei nemici stranieri che, pur combattendo contro di loro, si siano distinti per coraggio e lealtà secondo le regole del buon combattente.14

La letteratura storica etiopica, specialmente quella orale, è ricca di testimonianze di questo tipo che vengono integralmente tramandate di generazione in generazione. In questa occasione ci limiteremo a portare pochi esempi di quanto sopra accennato, esempi relativi al periodo di Menelik II, alla guerra tra l’Italia e l’Etiopia, ed ai prigionieri italiani della battaglia di cAdwā. Ma ora ritorniamo ai rapporti tra l’Italia e Menelik II alla vigilia della stessa battaglia di cAdwā.

Menelik II, che pur di diventare imperatore d’Etiopia si era alleato non solo con l’Italia ma anche con i Mahdisti tradendo così Giovanni IV, all’annuncio certo della morte di quest’ultimo si proclamò imperatore. Egli, ormai completamente accecato dal desiderio di diventare imperatore d’Etiopia, il 2 maggio 1889 accettò perfino il trattato di Wučòāli, trattato che, dietro l’apparenza di un normale patto di amicizia e di commercio,15 poneva di fatto l’Etiopia sotto il protettorato dell’Italia. L’11 ottobre 1889 il primo ministro Crispi notificò ai rappresentanti dell’Italia presso le

varie potenze la avvenuta conclusione del trattato in questione.16 Da quel momento

le relazioni tra l’Italia e l’Etiopia di Menelik II divennero progressivamente sempre più tese, preannunciando in tal modo la guerra di cAdwā. Le relazioni tra i due paesi vennero ulteriormente aggravate dai protocolli stipulati dall’Italia con l’Inghilterra il 25 marzo e il 15 aprile 1891, protocolli che assicuravano all’Italia l’esclusiva interferenza sull’Etiopia.17 La situazione fu resa ancora più difficile dal comportamento di Menelik II che, ignorando le disposizioni dell’art. XVII del tanto discusso trattato di Wučòāli,18 non solo si affrettò a presentare le sue formali proteste direttamente alle potenze occidentali ma, inoltre, il 10 aprile 1891, comunicò loro i confini del suo impero.19 Questa fu certamente la prova del fatto che egli aveva ormai deciso di ignorare il protettorato dell’Italia sull’Etiopia.

La morte di Giovanni IV e l’avvento di Menelik al trono imperiale, cosa alla

quale quest’ultimo ambiva sin dalla sua fanciullezza,20 apportarono un mutamento

radicale sia nella situazione interna etiopica che nelle relazioni tra la stessa Etiopia e l’Italia. Infatti, il governo italiano non volle comprendere che l’imperatore Menelik II, godendo dell’appoggio della maggior parte dei capi etiopici e sentendosi di conseguenza forte e sufficientemente armato dalla stessa Italia, che lo

14 Per la regola del buon combattente vedi la nota 10.

15 A ratificare questo trattato Menelik II inviò in Italia il proprio nipote di rās Makonnan (1853-1905), padre di quello che sarà l’ultimo imperatore d’Etiopia, Hayla Sellāsē. Circa i particolari riguardanti la missione in questione, vedi Zaghi, 1935.

16 Rossetti, 1910, pp. 60-61; Ministero della Guerra, 1935, p. 207.

17 Ministero degli Affari Esteri, 1906, pp. 340-342; Rossetti, 1910, pp. 119-120.

18 Nell’articolo in questione si affermava: “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di S. M. il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o Governi” (Rossetti, 1910, pp. 44, 75-76).

19 Ivi, p. 95.

L’onore delle armi al nemico valoroso 135 aveva sostenuto quando si opponeva a Giovanni IV, non aveva affatto intenzione di sottomettersi ad alcun protettorato.

L’illusione che Menelik II potesse essere amico e alleato così come aveva promesso quando era solamente re dello Šawā e del Kaffā, condusse l’Italia, in un susseguirsi precipitoso di eventi, alla battaglia di cAdwā. Difatti, proprio mentre i capi del Tĭgrāy (Etiopia settentrionale) per combattersi fra loro avevano lasciato la regione nella più completa anarchia, l’Italia ritenne che fosse giunto il momento

giusto per la sua avanzata verso sud, ed occupò dapprima lo Akkalaguzāy21 ed il

Sarāya22 e, poi, nel 1895, proprio alla vigilia della battaglia di cAdwā, occupò anche

il Tigrāy sconfiggendo rās Mangašā.23

Il 7 dicembre 1895 l’esercito italiano e quello etiopico si scontrarono ad Embā Alāğa24 e Menelik II ottenne la prima vittoria sull’Italia e lo sgombero di quasi tutto il Tiğrāy.

Fu proprio in seguito al massacro dell’Embā Alāğa che gli etiopi appresero del maggiore Pietro Toselli,25 un italiano, un nemico quindi, ma che per il suo eroico comportamento fu considerato un uomo straordinario e un vero soldato (Fig. 1). Questi, pur trovandosi con solo milleottocento uomini e irrimediabilmente tagliato fuori dallo schieramento italiano, aveva rifiutato la resa propostagli da rās Makonnan. Quest’ultimo, con un gesto distensivo aveva restituito al maggiore Toselli una spia alla quale era stato risparmiato il taglio della mano e del piede,26 ma aveva ricevuto come eloquente risposta un caricatore con sei pallottole del nuovo fucile italiano modello ’91. Il coraggioso militare italiano era riuscito a resistere per ben sei ore all’attacco etiopico prima di perdere eroicamente la propria vita.

Per ordine di rās Makonnan il corpo di Toselli fu sepolto con tutti gli onori militari nel recinto sacro della chiesa di Bēta Māryām, e tale fatto è molto significativo se si considera che solo i cristiani etiopici vengono per tradizione sepolti all’interno del recinto di una chiesa.

A conferma dell’enorme impressione che aveva destato negli etiopi l’eroico comportamento del maggiore Toselli, riportiamo tre poesie popolari tigrine che esaltano la figura del militare italiano e, all’uso etiopico, quella di sua madre, e che testimoniano come questo personaggio sia entrato nella letteratura popolare etiopica circondato da un alone leggendario.

21 Regione sud-est dell’attuale Eritrea. 22 Regione sud-ovest dell’attuale Eritrea.

23 Mangašā, rās (1865-1906), era creduto figlio del dagazmāč Gugsā Merčòā, quindi nipote dell’imperatore Giovanni IV ma è stato da questi riconosciuto quale proprio figlio naturale e nominato suo erede al trono nel 1889.

24 Embā Alāğa è nel sud-est del Tigrāy.

25 Per una breve biografia di Pietro Toselli (2/12/1856), vedi Puglisi, 1952, pp. 286-287. 26 Questa terribile punizione è quella che viene inflitta a chi è accusato di alto tradimento.

YAQOB BEYENE

136

27

O calzature traditrici, o calzature traditrici! Il 4o Battaglione è la mia rovina.

Cosa posso dire di quelli del 4o Battaglione?

Che sono le spine del cardo che non si sa come afferrare. Quando andava ad Alāğa schierato in ordine di battaglia, pur essendo di numero limitato, non ha lasciato niente. La mia rovina è il tuo esercito, o Toselli,

che ingaggia battaglia rivestendosi di erba,

L’onore delle armi al nemico valoroso 137 tu sei rimasto ucciso sul limite della frontiera.

Quando vennero gli Amhòarā schierati in ordine di battaglia, trascorresti la giornata sterminandoli a Asòalā

li donasti alle iene, agli sciacalli; li donasti ai falchi, agli avvoltoi.

Trascorresti la giornata sterminandoli coi Wetterly, per me il peccato, per i saccheggiatori il bottino. Il tuo coraggio è deposito di cartucce;

sia per chi è coraggioso che per chi è pauroso la morte è la stessa. Che sventura il mezzodì di sabato, ad Alāğa!

Trascorresti la giornata sterminandoli senza limiti di tempo. La mia rovina sei tu, signor Toselli.

Quando ti accampasti ad Alāğa, ai limiti della frontiera, quelli che cingevano una baionetta di fattura egiziana provocarono meraviglia prima di subire la inevitabile morte. Il signore dei soldati, il signor tuo, o Chelani!

Dove è andato il 4o Battaglione?

Giacché la morte era inevitabile, agirono bene. Quelli che sono rimasti di quelli che stavano ad Alāğa, li ha presi cAdwā che supera [in gravità Alāğa]. Nel giorno di mercato di Sancafa,

desti loro dei muli senza chiedere nulla in cambio.

Il signore dei sudanesi (= artiglieri), il mio signore Manfredini! O capo dei fucili Wetterly e dei cannoni!

In che modo li trattasti a Kocatit! Facesti piangere donne e uomini tu, uccisore di Bāhòtā di Saganayti; quando egli tradì in principio gli italiani, lo desti al cannone per bersaglio.

In questo canto popolare, composto senza alcun dubbio dopo la battaglia di

cAdwā, l’autore comincia accusando esplicitamente le forniture dell’esercito

italiano, in quanto rileva che erano state fornite delle calzature che egli definisce

tòallām “traditrici”,28 e prosegue dichiarando ripetutamente che il 4o Battaglione e il

suo comandante sono stati la sua rovina. Poi, sottolineando che gli uomini del 4o Battaglione erano numericamente pochi ma inafferrabili come spine di cardo, esalta il comportamento eroico del maggiore Toselli e dei suoi uomini nella battaglia di Embā Alāğa e conclude ricordando anche le battaglie da essi affrontate in precedenza, come quella di Hòalāy del 18 dicembre 1894 contro Bāhtā Hòagos, governatore dello Akkalaguzāy, e quella del 15 gennaio 1895 contro il rās Mangašā, figlio naturale di Giovanni IV.

28 A questo proposito, A. Del Boca riporta quanto segue: “[…] i soldati camminano a fatica con grosse, dure, scomode scarpe di fanteria e Baratieri pensa di aver sollecitato invano da mesi l’invio dei più adatti stivaletti da alpini”. Cfr. Del Boca, 1976, pp. 612-613, 653.

YAQOB BEYENE

138

29

Se il maggiore Toselli si muoverà rapidamente avanzerà rivestito di un nembo di polvere. Se sarò ucciso, il mio uccisore sarà lui.

30

O madre di Toselli, sii superba verso le altre donne; madre dell’uomo valente, che sfida il nemico;

maggiore, ma che può decidere di fare ciò che desidera il suo cuore; che non ha oppositori come un torrente devastante;

creatura forte, soldato autentico;

indossatore di fiamme che fanno tremare il nemico; eri amato da soldati forti e valorosi

29 Conti Rossini, 1942, pp. 305-306.

L’onore delle armi al nemico valoroso 139 che hanno atteso con te la vittoria o la morte;

benedetto cavaliere che attira l’attenzione di chi guarda; simile a Giorgio, vincitore del drago;

come la spada di Michele, capo dell’esercito celeste; dalla forma perfetta come il quadro di un pittore;

signore di quel 4o Battaglione, quello che non sarà creato di nuovo; tu che suscitasti meraviglia sull’altopiano di Hòalāy;

o leone superbo sempre padrone di prede; privo di tentennamenti, di rapida decisione; che tentazione! Oh, che mondo violento!

Che peccato che tu sia stato sopraffatto ad Alāğa perché rimasto senza soldati.

In questo canto l’autore, così come secondo il gusto etiopico, immagina di rivolgersi alla madre del maggiore Toselli per esaltare suo figlio paragonandolo, tra l’altro, a San Giorgio e all’arcangelo Michele, e ricordando anche una battaglia da lui combattuta in precedenza sull’altopiano di Hòalāy contro Bāhtā Hòagos.

Il massacro dell’Embā Alāğa non era servito ad aprire gli occhi né del generale Baratieri né del governo italiano. Questi si rifiutavano di accettare il fatto che

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 163-177)