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Operazioni tipiche in conto corrente (cenni)

All’interno del conto corrente che l’imprenditore utilizza per l’esercizio della sua attività effettuando i classici versamenti e prelievi della sua disponibilità, possono però anche essere

299 A. Jorio, B. Sassani (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, vol. II,

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regolati altri rapporti con la banca e possono dunque inserirsi altre tipologie di operazioni, suscettibili di incidere in maniera pregiudizievole sulla par condicio creditorum e dunque suscettibili di revoca.

Un primo esempio è dato dal pagamento degli interessi.

La banca talvolta opera anche come un terzo qualsiasi cioè un soggetto che presta un servizio in cambio di un corrispettivo da parte del cliente attraverso lo strumento dell’addebito in conto corrente. Si fa riferimento agli interessi, spese, pagamento delle bollette, rate di mutuo e così via.

Tali atti sotto il regime precedente alla riforma, rappresentando pagamenti di debiti liquidi ed esigibili erano dunque sottoponibili a revocatoria, ma a condizione che il saldo fosse attivo o passivo (nei limiti dell’affidamento), avendo intaccato così la provvista del cliente (infatti in presenza di passivo tali addebitamenti andavano solo a incrementare la situazione di negativo, essendo però suscettibili di revocatoria gli eventuali successivi accrediti effettuati dal correntista)300.

A seguito della riforma, sebbene integrino ancora pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, alcuni autori hanno sostenuto come tale analisi deve fare i conti con l’art 67, 3° comma lett. a), la quale prevede che i pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio sono esenti da revocatoria301, e all’interno di tale fattispecie andrebbero inserite anche tali operazioni.

300 M. Arato, Operazioni bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare della

rimessa, Milano, Giuffrè editore, 1995, 199.

301 Cass. civ. 14-12-2016, n.25162, in sito Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 16396

afferma che “La soluzione “più appagante” per i Giudici di Legittimità è quella che privilegia “il rapporto diretto tra le parti”, dando rilievo al mutamento dei termini “da intendersi non solo come tempi, ma anche come le complessive modalità di pagamento”. Vengono dunque in rilievo i singoli rapporti tra le parti perché, se invece dovesse riconoscersi valenza dirimente

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Invece nel caso di pagamento di rate di mutuo o debiti finanziari l’esenzione prevista dalla lett. a) non opera in quanto, anche se contratti per l’esercizio dell’attività d’impresa, tali rapporti hanno alla loro base una causa creditizia e dunque i relativi addebiti rappresentano semplicemente il pagamento di un debito liquido ed esigibile.

Potrebbe inoltre capitare che l’imprenditore abbia più conti e operi dunque spostando denaro da l’uno all’altro operando un cd giroconto.

Se questi trasferimenti avvengono da conti che il fallito ha presso altre banche risulta che debbano essere suscettibili di revoca come qualsiasi altro versamento. Nel caso in cui si tratti di conti presso la stessa banca occorrerà fare un distinguo.

La Cassazione si è recentemente espressa sostenendo che “la compensazione tra i saldi attivi e passivi di più rapporti di conto corrente tra banca e cliente, prevista dall'art. 1853 c.c., presuppone non che si tratti di conti chiusi, ma solo che siano esigibili i contrapposti crediti. Ne deriva che, in caso di giroconto da un rapporto con saldo attivo e, come tale, immediatamente disponibile per il cliente (salvo patto contrario ex art. 1852 c.c.), ad uno ancora aperto ma con saldo passivo già esigibile per la banca, l'estinzione di tale debito non consegue ad un pagamento revocabile ai sensi dell'art. 67 l. fall. ma alla compensazione, ammessa dall'art. 56 l. fall., tra il credito della banca verso il cliente poi fallito ed il debito della stessa banca nei confronti di quest'ultimo”302.

alle prassi del settore economico di riferimento, secondo la Cassazione, si finirebbe per equiparare la fattispecie in esame a quella di cui al co.1, n. 2, del medesimo art. 67 L. Fall. in materia di pagamenti anormali”

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Ci sono tuttavia casi in cui tale meccanismo si presta a dare origine a operazioni revocabili. Un esempio è il caso in cui si crei un conto al fine di farvi affluire tutte le attività per poter poi far operare il meccanismo della compensazione con le passività registrate su un altro conto che, di fatto, risulterebbe congelato, e realizzare così un rientro.

Un’altra ipotesi di revocabilità riguarda i giroconti dal conto anticipi al conto di corrispondenza. Sostiene la Suprema corte303 che “sono revocabili le rimesse derivanti da operazioni di giroconto dal c.d. conto anticipi al conto corrente ordinario, se le somme anticipate ed accreditate sul conto ordinario vengono poste nella effettiva disponibilità del correntista e ciò ha la funzione di ridurre l'esposizione debitoria dello stesso nei confronti della banca”. Infatti, come già affermato nel corso della trattazione, se il terzo pagasse nelle mani del correntista e poi quest’ultimo versasse la somma sul proprio conto scoperto non si potrebbe negare la natura solutoria della rimessa: dunque non si vede perché ritenere irrevocabile la stessa identica operazione, ma effettuata per il tramite della banca che si limita ad anticipare quanto il terzo poi le renderà pagando il titolo304.

Si deve infine precisare anche il tema del pagamento del terzo: a inizio trattazione305 si è sottolineato che con rimessa si intende un versamento fatto dal “correntista” o “con denaro del correntista”.

Infatti accade spesso che le banche, nel momento in cui cominciano a fiutare una situazione di crisi dell’imprenditore richiedano una garanzia di un terzo, in fattispecie, una

303 Cass. civ. 20-06-2011 n. 13449, in Dir. Fall., 2012, 2, 2, 175 304 Cass. civ. 20-05-1997 n. 4473, in Foro It. 1997, I, p. 2089 305 Vd par. 1.3

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fideiussione. Questo intervento però non può essere aggredito dalla procedura perché, qualora il fideiussore adempiesse alla sua prestazione di garanzia e non si rivalesse sul debitore tale rapporto resterebbe dunque fuori dal rapporto debito(imprenditore)-credito(banca). Questa è la motivazione per la quale la Cassazione sostiene che “le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell'imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che, con tali pagamenti, il terzo - senza utilizzare una provvista del debitore e senza rivalersi nei suoi confronti prima del fallimento - ha solo adempiuto l'obbligazione di garanzia nei confronti della banca creditrice, che non viola la par condicio creditorum”306.

Ciò comporta che, per evitare che tale intervento esterno sia sottoposto a revoca, il convenuto banca abbia l’onere di dimostrare che sia stato un terzo fideiussore a effettuare il pagamento e che questi non si sia rivalso sul debitore.

306 Cass. civ. 09-10-2017 n. 23597, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18572 -

pubb. 01/12/2017; dello stesso avviso Cass. civ. 15-02-2016, n. 2903, in Fallimento, 2017, 2, 232

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CONCLUSIONI

Oggi, a 76 anni di distanza dall’emanazione della legge fallimentare e nonostante gli oceani di teorie e soluzioni giurisprudenziali prospettate, ma soprattutto nonostante gli interventi legislativi, il tema della revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente continua a essere ancora pieno di dubbi e incertezze. Certo è che il primo imputato in questo processo è il Legislatore, più volte chiamato a dire la sua e altrettante volte incapace di fornire scelte chiare e univoche e di reggere alle forti pressioni presentate dal ceto bancario, il quale è l’unico che qui esce vincitore.

Alla luce delle ricostruzioni effettuate si nota come tocchi ancora alla giurisprudenza tentare di sciogliere quei dubbi interpretativi che le formulazioni degli articoli 67,3° comma e 70,3° comma fanno sorgere.

Abbiamo visto varie sentenze nelle quali sono stati proposti più orientamenti, tutti meritevoli, ma siamo ancora lontani da una soluzione consolidata.

Tuttavia, a modesto parere di chi vi scrive, è possibile notare come l’interpretazione che sta prendendo maggiormente piede, cioè quella rappresentata dalla individuazione dei termini di consistenza e durevolezza nel limite del massimo scoperto, rappresenterebbe la risposta più convincente a tutta una serie di rilevanti problematiche.

Innanzitutto risponderebbe a istanze di economia processuale in quanto basterebbe operare solo il calcolo in base all’art 70, tralasciando tutte quelle laboriose (e dunque costose)

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ricostruzioni ai sensi dell’art 67: ad oggi infatti i legali sono “obbligati” a dover presentare la citazione rapportandosi a una pluralità di calcoli, che peraltro il giudice poi disporrà di fare anche al CTU, che richiedono tempo e denaro altrimenti risparmiato con la soluzione in esame. Inoltre risponderebbe anche a esigenze di certezza del diritto poiché si tratta di un calcolo obiettivo in cui la discrezionalità del giudice risulta estremamente ridotta.

Questa posizione sull’art. 70, 3° comma sebbene possa sembrare che renda inutile l’esistenza dell’art. 67,3° comma, in realtà lascerebbe comunque un’operatività, nel senso che quest’ultimo specificherebbe che il calcolo del differenziale deve essere effettuato tra l’esposizione massima e l’ammontare residuo delle pretese non al momento in cui si apre il concorso, bensì al momento in cui avviene la chiusura del conto corrente.

Sarebbe infine apprezzabile sotto un ulteriore profilo. Infatti si osserva che, oltre alla previsione dei sopra ricordati limiti quantitativi, la causa che ha soprattutto comportato la drastica diminuzione del numero delle cause presso i Tribunali trasformando, di fatto, la fattispecie in esame da protagonista delle procedure concorsuali a mera comparsa, è costituita dalla riduzione del periodo sospetto a sei mesi dalla data di dichiarazione di fallimento in quanto i tempi dell’istruttoria prefallimentare rischiano di andare a sovrapporsi con l’arco temporale della revocatoria. La soluzione che in molti si aspettavano e che avrebbe avuto il pregio di evitare l’inconveniente era quella della decorrenza del periodo sospetto dall’istanza di fallimento, anziché dalla dichiarazione di fallimento, soluzione che però non è stata adottata. Ecco che

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l’applicazione dell’art 70, 3° comma, permetterebbe teoricamente di “sfuggire” al limite dei sei mesi stabiliti dall’art 67,2° comma poiché parla generalmente di “periodo per il quale è

provata la conoscenza dello stato di insolvenza” ponendo dunque la

possibilità di andare a aggredire anche atti precedenti. Questo tipo di interpretazione, che farebbe anche giustizia rispetto a un intervento legislativo che ha sùbito posto profili di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento tra le banche e gli altri creditori (avendo garantito alle prime un regime di favor di non poco conto), potrebbe trovare una giustificazione nel fatto che gli istituti di credito rappresentano dei creditori sui generis, capaci non solo di conoscere prima di ogni altro la situazione di dissesto dell’imprenditore, ma anche di intervenire per permettere di uscirne. Per di più, in virtù del fatto che la giurisprudenza si è espressa più volte in merito al fatto che la mera situazione di temporanea difficoltà non può integrare elemento dal quale ottenere la presunzione di scientia decoctionis, per gli eventuali interventi della banca volti a sostenere l’imprenditore non, essendo essa integrata, non sarebbero revocabili.

Il riferimento a un periodo sospetto senza limite risulta però eccessivamente radicale, in quanto a quel punto le banche vedrebbero revocati atti senza limiti temporali a differenza degli altri creditori per i quali ci si fermerebbe a atti compiuti nei sei mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento, rovesciando dunque la medaglia della disparità di trattamento a loro sfavore, con la conseguenza di ulteriore dubbi di costituzionalità.

Inoltre, se è pur vero che è lo stesso legislatore che ha previsto il limite della revoca del differenziale tra l’esposizione massima e

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il saldo al momento della chiusura del conto, l’applicazione esclusiva dell’art. 70,3°comma non permetterebbe di individuare le rimesse concretamente revocabili ed essendo risaputo che l’azione revocatoria si applica agli atti e non alle somme i dubbi continuano a lievitare.

Ecco che così si torna al punto di partenza: risulta necessario un intervento legislativo, al quale però pare che bisognerà attendere ancora.

Infatti, a seguito delle pressioni svolte dalla Commissione europea agli Stati membri per una riscrittura delle procedure concorsuali, nell’ottica di favorire il risanamento delle imprese in stato di momentanea crisi così da evitarne l’insolvenza, fu istituita con decreto del Ministero della Giustizia del 28 gennaio 2015 una commissione, presieduta dal Dott. Renato Rordorf, volta alla predisposizione di un nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. Il lavoro della commissione, prima votato dal consiglio dei ministri, fu definitivamente approvato dal Parlamento con Legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza”. Verso una realizzazione di quel provvedimento, sono stati recentemente portati all’esame del governo i decreti attuativi elaborati dalla Commissione e leggendo quello che sarà un vero e proprio nuovo codice della crisi e dell’insolvenza si nota come la disciplina dell’azione revocatoria non risulta essere stata toccata. Infatti gli articoli 67 e 70 vengono riportati integralmente (con stessa rubrica) nei nuovi articoli 171 e 176.

Si può solo constatare che quest’opera di revisione delle procedure concorsuali prevede in primo piano la volontà di

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risolvere le crisi di impresa in un momento prodromico rispetto all’avvenuta insolvenza predisponendo strumenti che toglieranno molto spazio ai fallimenti e dunque anche alle conseguenti azioni revocatorie.

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