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L'azione revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE... 4

CAPITOLO I CARATTERI GENERALI DELL’AZIONE REVOCATORIA DELLE RIMESSE IN CONTO CORRENTE... 9

1.1 Azione revocatoria fallimentare: premessa... 9

1.1.1 Tutela dei creditori... 9

1.1.2 Azione revocatoria fallimentare... 10

1.1.3 Il danno... 12

1.2 Revocatoria fallimentare e rimesse in conto corrente bancario: inquadramento generale... 15

1.3 Conto corrente bancario e rimesse: cenni... 20

CAPITOLO II EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE DALLA DISCIPLINA ORGINARIA FINO ALL’INTERVENTO DEL LEGISLATORE... 24

2.1 Disciplina originaria e primi orientamenti giurisprudenziali... 24

2.2 1982, Svolta giurisprudenziale... 35

2.3 Problemi lasciati aperti dalla sentenza della Cassazione 5413 del 1982 e soluzioni della giurisprudenza... 41

2.3.1 Rimesse ripristinatorie e solutorie... 42

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2.3.3 Apertura di credito e fidi di fatto... 51

2.3.4 Le operazioni bilanciate... 60

2.3.5 Compensazione e giroconto... 65

2.3.6 Superamento della tesi del massimo scoperto e calcolo dell’importo revocabile... 68

2.4 Panoramica riassuntiva della disciplina prima del d.l. 14 marzo 2005 n.35... 72

CAPITOLO III DISCIPLINA ATTUALE... 76

3.1 La Riforma Della Legge Fallimentare... 76

3.1.1 Nascita della riforma... 76

3.1.2 Impressioni e critiche alla riforma... 86

3.1.3 Disciplina Transitoria... 92

3.2 La Nuova Revocatoria Delle Rimesse in Conto Corrente... 96

3.2.1 Periodo Sospetto... 96

3.2.2 Conoscenza dello stato di insolvenza... 101

3.2.3 Conto Corrente, rimesse e esposizione debitoria... 107

3.3 Consistenza e Durevolezza... 115

3.3.1 Consistenza... 116

3.3.2 Durevolezza... 120

3.3.3 Rapporto tra consistenza e durevolezza... 125

3.3.4 Onere della prova della consistenza e durevolezza... 128

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3.4 Rapporto tra l art 67 ,3° comma L.F. e l’art 70,3° comma

L.F... 134

3.5 Operazioni tipiche in conto corrente (cenni)... 145

CONCLUSIONI... 150

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INTRODUZIONE

L’elaborato si pone l’obiettivo di analizzare la disciplina dell’azione revocatoria fallimentare applicata ai versamenti (le rimesse) effettuati nel periodo sospetto sul conto corrente bancario del fallito, il quale si può infatti prestare a essere, nel periodo precedente alla dichiarazione di fallimento, scenario di atti che integrano dei veri e propri pagamenti di debiti liquidi ed esigili che l’imprenditore vanta nei confronti della banca, andando così a ledere il principio della par condicio creditorum. L’interesse di chi vi scrive per il tema risiede non solo nel fatto che è proprio in merito ai rapporti banca-fallito che il sistema revocatorio ha ricoperto, e vedremo in che misura ricopre ancora alla luce dei recenti interventi legislativi, una delle sue funzioni primarie e storiche, ma soprattutto perché in questo ambito risulta come non mai centrale l’importanza del ruolo della dottrina e della giurisprudenza nell’elaborazione di indirizzi applicativi qualora il legislatore non sia in grado di esprimere concetti chiari e definiti.

Nel primo capitolo della tesi si forniranno le coordinate generali per inquadrare i presupposti dell’azione revocatoria e per cogliere le particolarità del tema del conto corrente bancario, al fine di poter poi, nel secondo capitolo esporre l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in merito: infatti a seguito dell’emanazione del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare) non vi erano riferimenti normativi alla revocatoria delle rimesse in conto corrente e toccò alla dottrina e soprattutto alla giurisprudenza elaborare criteri e regole applicative per dirimere le controversie ponendosi come stella polare la ricerca

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di un bilanciamento tra gli interessi, tutti meritevoli di tutela, delle varie parti in gioco: da un lato quello dell’imprenditore di potersi servire del conto corrente e del correlato servizio di cassa per lo svolgimento della propria attività d’impresa; dall’altro quello delle banche di non essere gravate, come per un lungo periodo è accaduto, di azioni revocatorie per cifre spropositate rispetto al rientro effettivamente percepito; e infine quello del concorso, a che siano dichiarati inefficaci atti che vadano a ledere il principio della par condicio creditorum.

Vedremo come i primi decenni successivi all’entrata in vigore della legge si susseguirono di soluzioni diverse, dall’irrilevanza del fenomeno, fino alle revocatorie “selvagge” di tutte le singole rimesse intervenute sul conto del fallito, passando per un tentativo, sostenuto da una giurisprudenza minoritaria, di limitare gli importi revocabili al cd “massimo scoperto” ovvero alla differenza tra l’esposizione massima raggiunta dal correntista nel periodo sospetto e il saldo alla data del fallimento (o della chiusura del conto, se precedente).

Il dibattitto in materia ha trovato terra ferma a seguito della sentenza della Cassazione n. 5413 del 1982 la quale stabilì che allorquando una rimessa sia eseguita su un conto oltre i limiti dell’affidamento (o semplicemente con saldo negativo qualora non sia stipulato un contratto di apertura di credito) essa integri un vero e proprio pagamento di un debito liquido ed esigibile e dunque debba essere dichiarata inefficace, mentre assume natura meramente ripristinatoria, e perciò non revocabile, qualora sia intervenuta su un conto passivo, ma nei limiti della disponibilità concessa a titolo di fido.

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Questa sentenza segnò quella che definiremo nell’elaborato “una svolta” in quanto la Cassazione pose le basi per un orientamento che sarà non solo consolidato dagli interventi della giurisprudenza successiva, ma anche affinato, data la necessità di sciogliere i dubbi e le incertezze che la sentenza in questione non era riuscita a dipanare e che verranno analizzati alla luce proprio di quelle pronunce.

Nel terzo capitolo affronteremo quello che è l’assetto dell’attuale revocatoria fallimentare. Partiremo da un excursus sull’iter legislativo che ha portato al nuovo assetto normativo, inaugurato dal d.l. 14 marzo 2005, n.35 (poi convertito il l. 80 del 2005) il quale rappresenta lo spartiacque in materia avendo introdotto, all’art 67,3°comma l.f., per la prima volta un riferimento espresso alla revocatoria delle rimesse bancarie. Questa riforma fu chiesta a gran voce dal ceto bancario al fine di rispondere a delle criticità che la giurisprudenza, nonostante i suoi interventi non era riuscita a sbrogliare, tra cui soprattutto il “dramma” del sistema di calcolo delle rimesse revocabili, il quale, basandosi sulla revocabilità della somma algebrica delle singole rimesse effettuate su conto scoperto, portava le banche a dover restituire importi anche decine di volte superiori allo scoperto effettivamente creato, con la conseguenza di portare le curatele a vedere in questo strumento il mezzo più agevole per impinguare le casse della procedura.

Analizzeremo le impressioni della dottrina in merito alla riforma le quali furono piuttosto critiche, specialmente in riferimento alla tecnica legislativa utilizzata (ovvero il decreto legge) e al linguaggio normativo, ritenuto fortemente atecnico e controvertibile, per poi prendere in considerazione il rapporto

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tra la disciplina previgente e le novità introdotte, interrogandoci sulla natura innovativa o interpretativa delle stesse e la conseguente possibile (o non possibile) applicazione retroattiva. Preso atto delle novità istituite dal Legislatore, passeremo dunque alla descrizione, alla luce della dottrina e giurisprudenza più recente, dei presupposti applicativi del tema in esame, esaminando il presupposto soggettivo della scientia

decoctionis (la conoscenza dello stato di insolvenza) della banca

(che, seppur non modificato dalla riforma, verrà approfondito alla luce delle recenti pronunce), l’aspetto temporale del periodo sospetto (per il quale verrà in particolare analizzato il dies a quo, anche alla luce della consecuzione di procedure) e il riferimento al nuovo concetto di “esposizione debitoria”, tenuto conto soprattutto del non recepimento (vedremo se solo apparente o sostanziale) della differenza tra conto affidato e conto scoperto. Particolare attenzione verrà poi dedicata ai nuovi criteri oggettivi inseriti all’art 67,3°comma il quale prevede espressamente la revocabilità delle rimesse a patto che non abbiano ridotto “l’esposizione debitoria in maniera consistente e

durevole”. L’utilizzo di questi termini, dai contorni incerti ed

equivoci, è tutt’oggi fonte di discussione, che peraltro si complica dal momento che la riforma ha anche recepito all’art. 70, 3° comma il criterio che definiremo “del massimo scoperto”, ovvero il limite restitutorio pari alla differenza tra l'ammontare massimo raggiunto dell’esposizione debitoria per il periodo in cui è provata la conoscenza dello stato d'insolvenza, e il saldo residuo alla chiusura del conto. Senza anticipare quanto poi verrà nel proseguo delineato, il punto fondamentale sarà, alla luce delle opinioni dottrinali e della giurisprudenza fino a ora

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espressa, da un lato, quello di riempire di significato i termini consistente e durevole e, dall’altro, quello di cercare di operare un coordinamento tra l’art. 67,3°comma e l’art. 70,3°comma, norme che apparentemente sembrano inconciliabili.

Alla luce di questa ricostruzione tireremo le fila del discorso per capire il ruolo che ad oggi il sistema fallimentare riserva ancora a questa fattispecie.

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CAPITOLO 1

CARATTERI GENERALI DELL’AZIONE REVOCATORIA DELLE RIMESSE IN CONTO CORRENTE

1.1 AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE: PREMESSA 1.1.1 Tutela dei creditori

Per capire cosa si intende con “azione revocatoria fallimentare” e poter poi analizzare il tema dell’elaborato con i giusti strumenti è necessario partire da una considerazione sommaria delle tutele concesse ai creditori e cogliere quella che è la specialità delle regole fallimentari.

Nell’ambito del diritto comune, la tutela del creditore, che si esprime attraverso la garanzia patrimoniale, è abbandonata alla sua singola iniziativa: è quest’ultimo che, dopo aver ottenuto la condanna al pagamento, deve attivarsi e aggredire il patrimonio del debitore per vedere soddisfatto il proprio credito1.

Invece nel momento in cui vi è la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore, emerge la specialità del diritto fallimentare in quanto viene attuato il concorso dal lato passivo, a tutela del principio della par condicio creditorum.

Tale principio è espresso in via generale all’art 2741 cc2 e non deve considerarsi come statico, in quanto cambia di significato a

1 Mediante: a) misure cautelari conservative (sequestro conservativo); b)

misure cautelari successive all’atto di disposizione volte a annullare gli effetti pregiudizievoli prodotti (azione revocatoria) o a rispondere all’inerzia del debitore nell’esercizio dei diritti (azione surrogatoria); c) tutela di condanna esecutiva, attraverso il pignoramento e l’espropriazione del patrimonio.

2 “I creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le

cause legittime di prelazione.

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seconda del sistema in cui si deve realizzare; e, intersecandosi con il regime del concorso – proprio della procedura fallimentare – ne è garantita la tutela nella misura in cui tutti i creditori devono insinuarsi all’interno della procedura per veder soddisfatti i propri crediti, concorrendo in base a quello che è il diritto di prelazione che accompagna la loro pretesa, garantendo dunque che alcuni non si avvantaggino ingiustamente a scapito degli altri.

1.1.2 Azione revocatoria fallimentare

Questo regime si riflette anche in merito all’azione revocatoria fallimentare: con questa espressione si fa riferimento a una serie di fattispecie previste agli articoli da 64 a 70 del R.D. 16 marzo 1942, n. 2673, che hanno come obiettivo quello di rendere inefficaci, nei confronti dei creditori concorrenti del fallimento, una serie di atti che, altrimenti, andrebbero a ledere il principio della par condicio creditorum.

Questa va tenuta distinta dall’azione revocatoria ordinaria, la quale ha come scopo non quello di tutela della par condicio

creditorum, bensì quello di reintegrare la garanzia patrimoniale

a seguito di atti di disposizione del debitore che arrechino pregiudizio al creditore.

Inoltre differisce anche in merito agli elementi costituitivi dell’azione: nella revocatoria fallimentare è irrilevante il pregiudizio alla garanzia patrimoniale, essendo invece necessario che l’atto sia compiuto in un periodo, variamente stabilito dalla legge a seconda del tipo di atto da revocare,

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antecedente alla dichiarazione del fallimento, – il cd “periodo sospetto” - e inoltre è irrilevante uno stato soggettivo del debitore e del terzo contraente, essendo invece elemento costitutivo della fattispecie la conoscenza, in capo al creditore, dello stato di insolvenza4 del fallito – la cd. scientia decoctionis. In merito a quest’ultima si deve sottolineare che, dopo un lungo dibattito sul come verificare tale conoscenza da parte del soggetto, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che essa debba essere “effettiva”, non rilevando dunque la mera conoscibilità. Ciò non comporta un accertamento concreto della situazione psicologica del convenuto, ma “questa prova può essere raggiunta mediante presunzioni semplici – che siano gravi precise e concordanti - evincibili da oggettive circostanze esterne, tali da indurre ragionevolmente un soggetto di normale prudenza ed avvedutezza al convincimento di una situazione di dissesto del debitore”.5

Si è notato inoltre altri due aspetti. Il primo è che si prescinde da una valutazione psicologica del fallito: ciò perché quest’ultimo conosce perfettamente il suo stato di insolvenza tenuto nascosto nonostante il quale, eseguendo l’atto, risulta manifesta la sua volontà di recare pregiudizio agli altri creditori. Il secondo riguarda il fatto che la revocatoria colpisce gli atti effettuati in un periodo antecedente alla sentenza dichiarativa fallimento, rientrando invece in un'altra disciplina – quella prevista dall’art

4 L’insolvenza costituisce il presupposto oggettivo del fallimento e l’art 5, 2°

c. l. fall. afferma che “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali

dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”: dottrina e giurisprudenza sono univoche nel definire questo

presupposto oggettivo come una crisi di liquidità a carattere irreversibile.

5 Tra le prime sentenze della Suprema Corte in questo senso si segnala: Cass.

civ. 29-05-1986 n. 3630, in Repertorio Foro It. 1986, n. 422; Cass. civ. 03-04-1987 n. 3227, in Fallimento, 03-04-1987, 1053.

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44 L.F. – gli atti di disposizione e i pagamenti effettuati successivamente a tale sentenza, per i quali la norma prevede un inefficacia ex lege6.

1.1.3 Il danno

Sebbene la ratio dell’istituto della revocatoria fallimentare sia quella sopra descritta, risulta singolare constatare che nelle disposizioni in merito non vi sia nessun riferimento al concetto di danno. Questo ha comportato il consolidarsi in dottrina e in giurisprudenza di due teorie, indennitaria e antindennitaria, con lo scopo di capire se il danno costituisca o meno un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare. I sostenitori della tesi indennitaria, partendo dall’assunto che la revocatoria fallimentare e ordinaria hanno la stessa natura, sostengono che, sebbene non vi sia nessun riferimento testuale, il danno causato al patrimonio del debitore dagli atti di disposizione del fallito costituisce un presupposto oggettivo della fattispecie e dunque sarebbe necessario prevedere una presunzione di danno juris

tantum, superabile dunque dal convenuto dimostrando che in

concreto non vi è stata nessuna lesione. Coloro che aderiscono alla tesi antindennitaria, invece, appigliandosi al dato testuale e alla diversità di fondamento tra la revocatoria ordinaria e quella fallimentare, sostengono che il danno non sia un requisito oggettivo della fattispecie, in quanto, in ossequio a quanto detto sopra, il fondamento dell’azione revocatoria fallimentare risiede nella violazione della par condicio creditorum.

6 La ratio di tale norma risiede nell’art 42 L.F il quale prevede che “La sentenza

che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”

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In particolare, l’istituto fallimentare “dà una connotazione di tipo solidaristico al principio della par condicio, in quanto tale azione - in tutte le sue fattispecie - assume lo scopo di ripartire la perdita normalmente derivante dall’insolvenza- accertata dalla sentenza dichiarativa di fallimento - non solo tra i creditori esistenti al momento della stessa, ma tra una collettività più vasta, comprensiva anche di coloro che hanno avuto causa dal fallito prima del fallimento, quale rimedio rivolto a ripristinare la parità di trattamento tra tutti i creditori”7.

La giurisprudenza, da sempre altalenante tra queste due tesi8, ha recentemente messo fine al dibattito affermando la natura redistributiva della revocatoria fallimentare e che “l’eventus

damni è in re ipsa e consiste nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale ed

assoluta, all’uscita del bene dalla massa conseguente all’atto di disposizione”9.

Tuttavia “la parità di trattamento tra i creditori non costituisce un valore autonomo, da perseguire come bene in sé, ma assolve ad una funzione, per certi versi, strumentale rispetto allo scopo di una gestione ottimale dell’impresa in difficoltà; se ne deve dedurre che la par condicio non può ricevere dall’ordinamento una protezione assoluta, ma può essere attuata solo tenendo

7 Così Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970, p. 151 ss. 8 Nel senso indennitario: Cass. civ. 16-10-1987, n. 7649 in Foro it., 1988, I, c.

823; Cass. civ. 28-10-1988, n. 5857 in Foro it., 1989, I, c. 408; Cass. civ. 08-03-1993 n. 2751 in Giur. it. 1994, I, 1, 32; Cass. civ., sez. I, 28-04-2004, n. 8096 in Rep. Foro It. 2004, n. 382; Cass. civ. 6-03-2005, n. 5713 in Rep. Foro It. 2005, n. 420; Cass. civ. 14-10-2005 n. 20005, in Fallimento 2006, 10, 1176.

Nel senso antindennitario: Cass. civ. 20-09-1991 n. 9853 in Fallimento 1992, 48; Cass. civ. 16-09-1992 n. 10570, in Foro it., 1994, I, c. 178; Cass. civ. 2-11-1996 n. 9908, in Foro it., 1997, I, c. 1460; Cass. civ. 12-01-2001 n. 403, in Fallimento, 2001, 1324; Cass. civ. 14-11-2003 n. 17189, in Giust. civ. Mass. 2003, 11

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conto del significato che la fattispecie impugnata assume. Dunque il parametro al quale commisurare l’uguaglianza di trattamento non è solo quello quantitativo, costituito dall’ammontare delle singole pretese, ma è anche quello qualitativo costituito dalla funzione concretamente svolta dal singolo atto o dal singolo rapporto nella gestione dell’impresa”10.

Questa considerazione è frutto di una evoluzione del fallimento, concepito alla sua nascita come strumento volto a eliminare dal mercato le imprese “malate” e a preservare a ogni costo la par condicio, e oggi invece, a seguito dell’evoluzione socio-economica, divenuto strumento finalizzato – revocatoria compresa – alla conservazione delle componenti dell’impresa e alla garanzia di una soluzione soddisfacente sia per i creditori, sia per l’imprenditore stesso.11 In particolare, alla nascita delle revocatorie, si riteneva che l’insolvenza dell’imprenditore fosse causata, in parte, anche dagli atti pregiudizievoli ai creditori effettuati da quest’ultimo; in realtà ci si è resi conto che il motivo di una crisi dell’impresa non è tanto da ricercare in comportamenti singoli dell’imprenditore, bensì in una situazione economica generale risultando invece questi atti

10 Così G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori,

tomo III, Parte speciale, in Commentario al c.c. Scialoja - Branca, Legge

fallimentare, a cura di Bricola - F. Galgano - G. Santini, Bologna - Roma, 2002,

pag 188

11 Questo lo si coglie dalla Relazione Illustrativa al D. Lgs. n. 5 del 2006 nella

quale si afferma che “…ogni tentativo di riforma della materia deve ispirarsi a una

nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, ma confluiscono interessi economici più ampi che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale…”

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molto spesso fondamentali per evitare che l’impresa entri in uno stato di crisi irreversibile.12

Ecco che in virtù della presa d’atto del legislatore che certi atti consentono di sopperire a esigenze vitali dell’impresa in modo tale da preservarne le componenti positive della stessa e evitarne un sacrificio che altrimenti andrebbe a provocare un maggior pregiudizio alla massa, il legislatore è intervenuto con una serie di riforme succedutesi a inizi anni 200013, le quali hanno introdotto un catalogo corposo di esenzioni alla revocatoria, volte a rendere meno rigido quel sistema revocatorio che altrimenti rischiava di minare la certezza del sistema dei pagamenti e la stabilità degli acquisti, rendendo il nostro sistema economico incapace di concorrere con gli altri paesi. Questa riforma ha coinvolto anche la revocatoria delle rimesse in conto corrente, oggetto di questo elaborato.

1.2 REVOCATORIA FALLIMENTARE E RIMESSE IN CONTO CORRENTE: INQUADRAMENTO GENERALE

Tra queste fattispecie a cui si fa riferimento sopra, l’art. 67,2 c. L.F. stabilisce che sono soggetti a revocatoria

“se il curatore prova che l'altra parte conosceva lo stato d'insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, (…) se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento”.

12 G. Terranova, Par condicio e danno nelle revocatorie fallimentari, in Dir. fall.,

2010, I, 20.

13 Intervenute nel 2005, 2006 e 2007; verranno poi citate specificatamente nella

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Si tratta di adempimenti di obbligazioni giuridicamente vincolanti e la ratio di tale regime risiede nella volontà di impedire la ricerca del soddisfacimento individuale e disordinato da parte di ogni singolo creditore, in funzione della realizzazione di un procedimento esecutivo collettivo più efficace e più idoneo alla realizzazione della par condicio

creditorum14.

Proprio in virtù del fatto che questi pagamenti soggetti a revocatoria non sono indebiti, ma, anzi, originariamente leciti ed effettuati in adempimento di un obbligo giuridicamente valido, l’orientamento maggioritario15 ritiene che tale sentenza abbia natura costitutiva - in quanto produttiva di un effetto modificativo ex post di una situazione giuridica preesistente - ma tale effetto va a inficiare il solo pagamento e non il rapporto da cui esso trae causa: questo è il motivo per il quale vengono sottoposti a revocatoria – ovviamente sussistendo tutti i requisiti previsti dalla norma – anche i pagamenti che derivano da una sentenza di condanna.

Ecco che tra i rapporti che l’imprenditore contrae nell’esercizio della propria attività vi è generalmente anche quello con un istituto bancario, intrattenuto mediante il conto corrente bancario e le conseguenti rimesse e prelievi effettuati sullo stesso16, al quale poi spesso si accompagnano altri contratti accessori. In particolare, essendo tali rimesse, suscettibili di essere lo strumento con il quale l’imprenditore estingue debiti

14 A. Jorio, B. Sassani (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, vol. II,

Milano, Giuffrè Editore, 2014, 199.

15 Cass. civ. 30-07-2012, n. 13560 in Rep. Foro It., 2012, Fallimento [2880], n.

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nei confronti della banca, il dibattito dottrinario e giurisprudenziale a seguito dell’approvazione della L.F. si è ampiamente concentrato nell’analizzare quando e in che limiti siano tali versamenti da considerarsi pagamenti di un debito che il cliente ha verso la banca – ledendo dunque il principio della

par condicio creditorum - oppure siano essi solo uno strumento per

reintegrare la riserva di denaro allo scopo di proseguire nell’esercizio della propria attività d’impresa, venendosi dunque a realizzare, da parte della banca, un mero servizio di cassa – per lo svolgimento di operazioni di versamento e riscossione - non implicante un intervento finanziario.

Tale dibattito non ha mai ottenuto dei risultati soddisfacenti – causati anche dall’assenza di una previsione legislativa che regolasse specificamente la fattispecie - e, al contrario, portò alla creazione di un sistema, specialmente in merito al calcolo dell’ammontare delle somme da restituire, per il quale le banche subivano revocatorie che talvolta superavano anche di decine di volte l’importo effettivamente erogato con la conseguenza che, per scongiurare il timore di subire revocatorie e di veder gravare su loro stesse tutto il peso dell’insolvenza delle imprese, evitavano di chiedere il fallimento delle ultime, senza però concedere nuova finanza necessaria per il loro risanamento, creando delle “sacche di inefficienza” di imprese che né fallivano né si risanavano17.

È in questo contesto che si sentì la necessità di un intervento del legislatore al fine di correggere tali storture18: tale intervento ha

17 G. Terranova, Par condicio e danno nelle revocatorie fallimentari, in Dir. fall.,

2010, I 15

18 C’è da sottolineare come le banche siano dei creditori sui generis, dotati di

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portato all’introduzione di una norma che regolamenta espressamente le rimesse in conto corrente, cioè l’art 67,3°c. lett. b) L.F.19 l., il quale prevede che non sono soggette all’azione revocatoria fallimentare “le rimesse effettuate su un conto corrente

bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”.

Inoltre la riforma precisa anche il criterio di calcolo di tali rimesse revocabili recependo all’art 70,3°c. L.F.20 il criterio del “massimo scoperto”, prevedendo che “qualora la revoca abbia ad

oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l'ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d'insolvenza, e l'ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso”.

C’è da aggiungere che il percorso riformatore, in attuazione a quanto previsto nella Relazione illustrativa21, ha reso il fallimento una sorta di strumento “sussidiario” per il soddisfacimento dei creditori, dando la possibilità di

stessa: sottolinea infatti G. Scognamiglio, La revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure

concorsuali, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Vol. III, Torino, Giappichelli,

2014, pag. 654 che l’attività di lobbismo delle banche ha permesso di accelerare l’intervento di riforma del 2005.

19 L’art 67,3° c lett. b) è stato introdotto con d.l. 35/2005, convertito in L.

80/2005; tale provvedimento ha più in generale inserito all’interno dell’art 67 L.F. un ampio ventaglio di esenzioni, al punto tale che (tenendo anche conto del dimezzamento del periodo sospetto) ha fatto pensare a una “devitalizzazione” dell’azione revocatoria (ma lo affronteremo meglio nella trattazione).

20 Comma inserito dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e poi modificato dal D.Lgs.

12 settembre 2007, n. 169 (decreto correttivo del provvedimento precedente)

21 Così G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori,

tomo III, Parte speciale, in Commentario al c.c. Scialoja - Branca, Legge fallimentare, a cura di Bricola - F. Galgano - G. Santini, Bologna - Roma, 2002, pg 188

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predisporre un piano attestato di risanamento (art 67, 3°c. lett. d L.F.), un accordo di ristrutturazione dei debiti (art 182 bis L.F.), un concordato preventivo – al quale la riforma ha modificato i presupposti, rendendolo uno strumento molto meno rigido - o anche un concordato stragiudiziale.

A questo si somma anche il dimezzamento del periodo sospetto, il quale, in merito alla revocatoria di pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, passa da un anno a sei mesi, decorrenti a ritroso dalla dichiarazione di fallimento. Specialmente questo ultimo aspetto ha suscitato i dubbi di parte della dottrina in merito alla portata applicativa che oggi ricopre la revocatoria fallimentare, in quanto tale riduzione impedirebbe al curatore, a causa dell’assorbimento dei tempi da parte dell’istruttoria prefallimentare, la possibilità di impugnare tutta una serie di atti lesivi22. In realtà non si deve pensare a un tramonto definitivo delle revocatorie, infatti nella prassi si nota che sebbene sia visibile una diminuzione delle cause in merito – dovuta sia a questo aspetto, ma anche all’introduzione delle soluzioni alternative al fallimento sopra elencate - la revocabilità è comunque presente e la conseguenza maggiore di questa diminuzione del periodo sospetto è costituita dalla riduzione dell’ammontare delle rimesse revocabili23.

Inoltre la riforma, introducendo dei criteri di riferimento – sia in merito all’identificazione delle rimesse sottoponibili a revocatoria, sia in merito alla determinazione dell’ammontare delle stesse - attraverso una terminologia ambigua, ha dato

22 Terranova, G., Par condicio e danno nelle revocatorie fallimentari, in Dir. fall.,

2010, I, 11;

23 G. Rebecca, G. Sperotti, La "nuova" revocatoria delle rimesse bancarie, Giuffrè

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origine a un nuovo dibattito non ancora sopito in merito all’interpretazione di tali requisiti. Tali problematiche verranno poi analizzate nel terzo capitolo in merito alla disciplina attuale. Intanto, proseguendo nell’intento di fornire una panoramica di tutti gli elementi utili per un’analisi della fattispecie, risulta allora necessario fare dei brevi cenni al conto corrente bancario e ai rapporti che si intrecciano con tale contratto.

1.3. CONTO CORRENTE BANCARIO E RIMESSE, CENNI Il conto corrente bancario (o di corrispondenza) è un contratto con cui la banca si impegna verso il cliente, nel presupposto dell’esistenza di una disponibilità presso di sé, a prestare un servizio di cassa, ovvero a provvedere per conto del cliente correntista, su ordine diretto e indiretto, ai pagamenti ed alle riscossioni. Questo si ritiene essere un contratto innominato misto, con prevalente funzione di mandato: innominato perché non trova specifica menzione all’interno del codice e misto nella misura in cui convivono cause diverse, una causa creditizia e una causa gestoria di un servizio di cassa, che si mescolano tra loro.

Con causa creditizia si fa riferimento al fatto che il conto corrente bancario si intreccia con una serie di altri contratti i quali hanno la funzione o di andare a creare quella disponibilità monetaria al fine di poter espletare il servizio di cassa tipico del conto stesso – operazioni passive per la banca – oppure di andare a

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concedere finanza al correntista stesso –operazioni attive per la banca.

L’altro termine rilevante è quello di “rimessa”: essa rappresenta l’annotazione in conto a credito del cliente, eseguita dallo stesso o con denaro dello stesso24.

Per quanto a noi attiene, il contratto che ci interessa è quello di apertura di credito, che rientra nelle operazioni attive ed è regolato all’art 1852 cc il quale lo definisce come “il contratto col

quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro (il cd. fido) per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato”. Nell’apertura in conto corrente il cliente può

alternare prelevamenti e versamenti ed emettere anche assegni ordinando alla banca di pagare a terzi nei limiti del credito concesso. Tale contratto è a titolo oneroso in quanto il cliente dovrà corrispondere gli interessi ma solo sulle somme effettivamente prelevate e non su tutto il credito concessogli. Il fido è dunque una “facilitazione che viene concessa dall’istituto bancario a un operatore che possa e voglia disporre di fondi da utilizzare, una o più volte, rispettando precisi limiti di tempo e per gli scopi risultanti dalla pratica di fido istruita ed acquisita dalla banca a mezzo dei suoi organi tecnicamente preparati”25. Viene dunque in rilievo un programma di versamenti e rientri che il correntista approva insieme alla banca e sul cui rispetto si basa il suo rapporto con il correntista.

24 Questa è una precisazione doverosa perché vedremo nel proseguo della

trattazione come sono suscettibili di revocatoria anche le rimesse effettuate dal terzo sul conto del fallito, ma a delle condizioni particolari.

25 Bronzini, Revocatoria fallimentare e conti correnti coperti da fido bancario (nota

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L’aperura di credito dunque non integra un prestito e non deve essere utilizzata attraverso un prelievo unico e un unico rimborso altrimenti vi sarebbe una confusione tra tale contratto e il mutuo e tale modalità esecutiva renderebbe difficile da parte della banca il mantenimento di tale rapporto.

Ecco che, in sostanza, la disponibilità che si viene così a creare all’interno del conto è chiaramente diversa rispetto a quella create attraverso un mutuo, ma ancor di più diversa rispetta a quella costituita attraverso un contratto di deposito, in quanto in quest’ultimo caso si tratta di una vera e propria liquidità di cui il correntista è titolare e pertanto essa è nella sua piena disponibilità ed è anche aggredibile dai terzi (attraverso pignoramenti o misure cautelari); invece il fido si tratta di una somma sulla quale il correntista non vanta alcun diritto patrimoniale, essendo essa solo suscettibile di essere utilizzata nei limiti del fido.

Nel momento in cui il correntista va a utilizzare le somme affidate il conto diviene passivo e se invece egli fuoriesce dai limiti del conto corrente esso si dice scoperto26. Tenendo conto che – sebbene molto più negli anni passati che oggi – la maggior parte degli imprenditori opera al di fuori dell’affidamento ecco che risulta chiaro il motivo di menzione di tale contratto: essendo il versamento, cioè la rimessa, lo strumento attraverso il quale non solo si rende operativo il servizio di cassa tipico del contratto di conto corrente, ma allo stesso tempo anche la modalità con la quale si rientra da uno scoperto – una situazione dunque in cui la banca svolge un vero e proprio ruolo creditizio

26 Vedremo poi come i termini di passivo e di scoperto sono stati introdotti

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rispetto al correntista – tale meccanismo, se non regolamentato rischia di andare a pregiudicare gli altri creditori.

La rimessa dunque può avere due nature: una natura ripristinatoria della disponibilità delle somme di denaro concesse dalla banca al correntista, oppure una vera e propria natura solutoria, caratterizzante un pagamento di un debito liquido ed esigibile – in quanto la banca può chiedere il rientro dallo scoperto in qualsiasi momento.

Dati questi punti vediamo come si è evoluta la giurisprudenza in merito al tema dell’elaborato.

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CAPITOLO II

EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE DALLA DISCIPLINA ORGINARIA FINO ALL’INTERVENTO DEL

LEGISLATORE

2.1. DISCIPLINA ORIGINARIA

All’indomani della introduzione della legge fallimentare l’art 67 recitava:

“Sono revocati, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato d'insolvenza del debitore: 1) gli atti a titolo oneroso compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso; 2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento; 3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti; 4) I pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro l'anno anteriore alla

dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.

Sono altresì revocati, se il curatore prova che l'altra parte conosceva lo stato d'insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati, se compiuti entro l'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Le disposizioni di questo articolo non si applicano all'istituto di emissione, agli istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su

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pegno, limitatamente a queste operazioni, e agli istituti di credito fondiario. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali.”27.

Come si può notare il tema della revocatoria fallimentare applicata alle rimesse in conto corrente non trovava esplicito riferimento normativo: di conseguenza gravò su dottrina e giurisprudenza il compito di sciogliere i nodi in merito.

Inizialmente il nodo primario era capire se lo strumento delle rimessa effettuata sul conto del fallito potesse rappresentare un atto suscettibile di essere revocato, in quanto avente natura di pagamento e dunque pregiudizievole della par condicio

creditorum; dilemma peraltro di non così automatica soluzione,

specialmente in virtù della, seppur tacita, accettazione della cd.

teoria classica del conto corrente. Questa tesi accomunava il conto

corrente ordinario al conto corrente bancario basandosi su due elementi che sosteneva essere comuni. Il primo era dato dal fatto che i versamenti, una volta effettuati sul conto corrente davano origine a una novazione, cioè all'estinzione del rapporto di obbligazione tra due parti (creditrice e debitrice) con conseguente nascita di una semplice variazione contabile, rilevante dal punto di vista giuridico solo nel momento di determinazione del saldo; il secondo era costituito dal principio di indivisibilità del conto, secondo il quale non vi è una differenziazione delle singole poste con la conseguenza che il rapporto di debito credito nascerà solo al momento della chiusura del conto.28

27 Questa norma rimarrà immutata fino all’emanazione del d.l. 35/2005 con

la quale verrà dimezzato il periodo sospetto e disposta tutta una serie di esenzioni individuate al comma 3°.

28 M. Arato, Operazioni bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare della

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Ecco che le prime sentenze di merito decretavano le rimesse in conto corrente non suscettibili di avere un effetto estintivo di obbligazioni preesistenti, e dunque non passibili di revocatoria29.

In particolare, la giurisprudenza, applicando l’art 56 l.f., riteneva che nel rapporto tra correntista e banca opera il meccanismo della compensazione legale ex art 1853 cc, che interviene automaticamente al momento di determinazione del saldo e che non costituisce una compensazione in senso tecnico, ma semplicemente l’espressione del diritto del cliente di variare la disponibilità del proprio conto attraverso poste di dare e avere; la banca dunque veniva considerata come un semplice cassiere ovvero uno strumento nelle mani del correntista il quale se ne serve per svolgere quel servizio di cassa, funzionale all’esercizio della propria attività di impresa, determinando così un’inconciliabilità con i presupposti della revocatoria fallimentare30.

Soprattutto le corti, per non entrare troppo nel nodo sostanziale del problema adducevano molto spesso un profilo di natura processuale, in quanto si riteneva che una volta ammesso al passivo fallimentare il credito della banca per il saldo del conto, le singole operazioni non erano più sottoponibili a revocatoria: questa impostazione fu poi smentita dalla Suprema Corte, la quale evidenziò come la pronuncia di ammissione di un credito

percorso che la dottrina italiana fece sul solco della dottrina tedesca e olandese che si procedette a superare tale teoria.

29 Terranova Giuseppe, Conti correnti bancari e revocatoria fallimentare,

Quaderni di banca, borsa, titoli di credito, Giuffrè editore, Milano, 1982; l’autore sottolinea inoltre come la giurisprudenza, seguendo questa teoria aveva anche negato la possibilità ai creditori di avvalersi di misure conservative o di pignorare il saldo provvisorio del conto del debitore.

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al passivo pur estendendosi anche al titolo da cui il credito deriva, alla sua validità e all’efficacia nei confronti dei creditori, precludendone ogni azione, anche revocatoria, tuttavia non preclude l’azione revocatoria dei pagamenti parziali eseguiti dal fallito prima della sentenza di fallimento, essendo questi ultimi autonomi rispetto al negozio da cui il credito deriva31; nella stessa occasione affermò anche che non grava sul curatore alcun onere di proporre espressa riserva di impugnazione dei pagamenti anteriori alla sentenza di fallimento:32

In realtà non si deve pensare che già nei primi decenni dopo l’introduzione della legge fallimentare dottrina e giurisprudenza non si resero conto di possibili utilizzi illeciti da parte delle banche del meccanismo del conto corrente: infatti alcune sentenze di merito33, sebbene ribadendo il concetto della irrevocabilità delle rimesse in conto corrente, condannavano gli istituti bancari, quando per esempio, operando fittizi movimenti del conto, facevano di sì di farlo movimentare solo a senso unico al fine di arrivare a un rimborso delle somme anticipate dalla banca al correntista34.

Questo ci fa capire come stesse maturando la necessità di un cambio di direzione, in virtù anche del fatto che le banche rappresentano soggetti notoriamente solventi, nei cui confronti

31 Cass. civ. 25-05-1966, n. 1338, in Banca, borsa, tit. cred,, 1967, II, pg. 362. 32 Quest’ultimo aspetto rimase per alcuni anni di oscillante recepimento

prima di essere condiviso dalla Suprema Corte: sono infatti alcune sentenze nella quali ancora tale riserva viene ritenuta necessaria ai fini di poter esperire la successiva azione revocatoria, tra cui Cass. civ. 451/1972 in Foro it. 1972, I, 1247. In seguito la giurisprudenza, tutt’oggi pacifica, si stabilizzò sul ritenerla non necessaria: Cass. 1333/1976 in Foro it. 1976, I, 1501; Cass. 4194/1987 in Fallimento, 1987, p. 1144.

33 Per es: App. Catania, 15-07-1955 in Banca Borsa, 1955, II, 483

34 G. Terranova, Conti correnti bancari e revocatoria fallimentare, Quaderni di

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è più facilmente provabile la scientia decoctionis - poiché informati meglio di ogni altro creditore della situazione patrimoniale del proprio correntista – e come nessuno capaci di realizzare quella “collettivizzazione delle perdite”35 derivanti dalla crisi dell’impresa in modo da salvaguardare il risanamento dell’azienda e i livelli occupazionali, realizzando dunque una ricollocazione delle risorse dai detentori di rendite finanziarie ai fornitori delle imprese ed eventualmente anche ai lavoratori. Ecco che il lavoro di dottrina e giurisprudenza si mosse per risolvere questo dilemma: “da una parte l’esigenza di non lasciare sguarnita la massa creditoria di fronte al meccanismo del conto corrente che, se ritenuto sempre e comunque inattaccabile, si presterebbe a divenire facile strumento di frode; dall’altra quella non meno sentita di non determinare, con un agevole accesso alle revocatorie fallimentari, un irrigidimento nella condotta delle banche che porterebbe seri intralci all’ordinato sviluppo del sistema economico”36.

Tuttavia questa necessità di bilanciamento non trovò ancora realizzazione da parte della giurisprudenza in quanto, a partire

35 Espressione riportata in P. Pajardi, A. Paluchowski, Manuale di diritto

fallimentare, Milano, Giuffrè editore, 2008, 383

36 G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, tomo

III, Parte speciale, in Commentario al c.c. Scialoja - Branca, Legge fallimentare, a cura di Bricola - F. Galgano - G. Santini, Bologna - Roma, 2002, pg.208; l’autore nota infatti che da un lato, si avrebbe la conseguenza di permettere alle banche di rivalersi, nel caso di fallimento del cliente-imprenditore, prima degli altri e fuori dal concorso – in quanto non sarebbero dichiarabili inefficaci nessuna delle rimesse effettuate nel periodo sospetto; dall’altro, invece, poiché l’imprenditore, prima di maturare uno stato di insolvenza - cioè una crisi di liquidità a carattere irreversibile - generalmente viene a trovarsi in uno stato di temporanea difficoltà ad adempiere, spesso risolvibile attraverso il ricorso al credito e un regime troppo severo dell’istituto della revocatoria avrebbe la conseguenza di irrigidire le banche dal concedere nuova finanza essendo reale il rischio di veder gravare su loro stesse il peso della ricostituzione del patrimonio del debitore.

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dagli anni 70, si formò un orientamento che riteneva revocabili indistintamente tutte le rimesse effettuate sul conto corrente passivo dell’imprenditore fallito, senza nemmeno tener conto di eventuali successivi prelievi – cioè senza considerare se il correntista avesse effettivamente utilizzato quelle somme da lui versate. Secondo questo indirizzo sarebbero suscettibili di essere sottoposte a revocatoria non solo le rimesse effettuate su un conto scoperto, ma anche le rimesse effettuate su un conto passivo, ovvero quelle effettuate ai fini di ristabilire la disponibilità consentita dalla banca tramite contratto di apertura di credito: questo in quanto l’effetto solutorio non è escluso dall’esistenza di un tale contratto poiché “gli atti di utilizzazione del credito danno luogo ad un obbligo di restituzione a carico del correntista, e, correlativamente, i versamenti in conto determinano la riduzione o l’estinzione, del (futuro) debito di restituzione. Non può quindi negarsi che ai versamenti medesimi consegua quantomeno anche un effetto solutorio e quindi di estinzione, in tutto o in parte, di un obbligo”37

Questo orientamento fu sostenuto da un abbandono della teoria classica del conto corrente, il quale passa ad essere considerato un contratto che, pur costituendo un unico rapporto di durata, si ridurrebbe ad una sequenza indefinita di poste di dare e avere che si susseguono per tutto l’arco temporale del rapporto: il conto corrente viene dunque scomposto in una serie di

37 Cass. civ. 18-03-1975, n.1043 in Giust. Civ. 1975, I, p.823, riportata da M.

Arato in Operazioni bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare delle

rimesse, Milano, Giuffrè editore, 1995, p. 134. Infatti qualunque disposizione

patrimoniale dell’imprenditore in stato di decozione, anche se effettuata sul proprio conto corrente, non può far altro che, andando a incidere sul proprio stato economico, sostanziarsi in una diminuzione della garanzia patrimoniale generica a discapito degli altri creditori (Cass. civ 20-10-1975 n. 3415, in Dir. fall., 1976, II, 33).

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operazioni non più considerate mere variazioni contabili, ma vere e proprie operazioni ciascuna avente propria rilevanza giuridica precedentemente alla determinazione del saldo finale e come tali suscettibili di essere valutate singolarmente ai fini della revocatoria – visione atomistica del conto corrente bancario. Questa necessità infatti è collegabile anche all’adesione, specialmente in dottrina, di quella che, nei paragrafi precedenti abbiamo definito come “teoria redistributiva (o antindennitaria)” della revocatoria la quale, sancendo che l’inefficacia dell’atto si basa su un vincolo d’indisponibilità del patrimonio del fallito da parte dello stesso e l’irrilevanza dell’elemento del danno ai fini dell’applicazione della revocatoria stessa, fa sì che non sia più possibile escludere le rimesse dall’applicazione dell’art 67, 2° c L.f 38.

Tale teoria considerava gli atti pregiudizievoli ai creditori revocabili ex se poiché il danno sussisterebbe in re ipsa: tutto ciò con il fine di creare un “cordone sanitario”39 intorno all’impresa, disincentivando i terzi a continuare a intrattenere rapporti

38 Tesi redatta da Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970,

passim. L’autore sosteneva che, da un punto di vista economico, il tema del

danno nell’azione revocatoria non andasse valutato nell’ottica di un imprenditore che fraudolentemente mette in atto comportamenti fraudolenti in pregiudizio dei creditori, in quanto non è in questo che si può individuare una causa di stato di insolvenza: essa infatti dipende soprattutto da una gestione sbagliata dell’imprenditore che può portarlo a effettuare scelte economiche rischiose e che sfociano in uno stato di decozione irreversibile non potendo dunque indicare dettagliatamente quali siano gli atti pregiudizievoli.

39 Espressione coniata da Libertini in Sulla funzione della revocatoria

fallimentare, Giur. Comm 1977, I, 84 ss poi ripresa anche da altri autori, tra cui

infatti G. Scognamiglio, La revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Vol. III, Torino, Giappichelli, 2014, pag. 665

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commerciali con un soggetto che ormai si trova in una situazione di crisi irreversibile40.

Il “dramma” di questo indirizzo della giurisprudenza41 riguardava soprattutto il calcolo dell’ammontare delle rimesse revocabili poiché veniva sottoposta a revocatoria la sommatoria delle singole rimesse provocando degli evidenti effetti distorsivi: infatti qualora un conto avesse funzionato regolarmente e intensamente alternando rimesse e prelievi, la banca rischierebbe di vedersi addossare una responsabilità di molte volte superiore rispetto alla somma a titolo di fido concessa al correntista42. Questa soluzione però non andava a realizzare quell’esigenza di socializzazione delle perdite, ma semplicemente a collocare le stesse presso un unico soggetto, ovvero le banche, in quanto tale meccanismo, che consentiva la

40 In realtà, secondo Mafferi Alberti, La Funzione della Revocatoria fallimentare

in Giur. Comm. 1976, I, pag. 364 questo atteggiamento di isolamento, non comporta necessariamente l’apertura di una procedura fallimentare, ma, spingerebbe l’imprenditore, nel momento in cui capisse di trovarsi in una situazione di difficoltà economica, al ricorso di un’amministrazione controllata al fine di salvare l’attività d’impresa (piuttosto che operare scelte rischiose e magari mal ponderate).

41 Indipendentemente dal criterio di calcolo delle rimesse adottato, solo una

parte della giurisprudenza accoglieva incondizionatamente la teoria antindennitaria ritenendo dunque il danno un elemento non valutabile come presupposto; infatti la giurisprudenza prevalente optava per un temperamento, nel senso che, aderendo per lo più alla tesi indennitaria, sosteneva che l’accertamento positivo dell’esistenza del danno non era necessario, dato che si riteneva presunto (in virtù del fatto che era stato compiuto un atto nel periodo sospetto nel quale l’insolvenza è presunta e dunque vi era stato un aggravamento della consistenza patrimoniale) salva prova contraria da parte dell’istituto di credito: così M. Arato, Operazioni

bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare della rimessa, Giuffrè editore,

Milano, 1995, 31, il quale cita Cass. 28-04-1981 n. 2559, in Giur. It., 1982, I, 1, c. 356; Cass. civ. 04-05-1983 n. 3050, in Dir. Fall., 1983, II, p. 628; Cass. civ. 26-05-1987 n. 4703, in Rep. Giust. civ., Fallimento, n. 267.

42 Un esempio lo possiamo vedere nella sentenza della cassazione 5413 del

1982 che esamineremo più avanti, la quale accoglie il ricorso promosso contro la sentenza di appello che, in accordo a quella di primo grado, aveva proceduto a fronte di un’apertura di credito di circa settanta milioni, alla revoca di una somma pari a 833 milioni.

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creazione di ricchezza dal nulla (la revoca di rimesse in conti intensamente movimentati, ancorché senza alcun rientro, fruttava somme anche ingenti), permetteva di raccogliere molta liquidità e garantiva di poter portare avanti procedure che altrimenti si sarebbero dovute chiudere per insufficienza dell’attivo. Inoltre si aveva un ulteriore risvolto negativo in quanto questo indirizzo entusiasmò i curatori e i giudici delegati, inducendoli a disinteressarsi della gestione dell’attivo e dunque alla conservazione dei valori ancora esistenti, al loro ottimale realizzo e alla celere chiusura della procedura, senza alcun vantaggio per il ceto creditorio e con probabili perdite a livello di efficienza del sistema (la gestione dell’attivo aumenta la ricchezza, mentre la revocatoria si limita a trasferirla)43

Ecco che il risultato pratico fu che da un lato le cause di revocatoria si chiudevano molto spesso con una soluzione transattiva al fine di evitare un eccessivo aumento dell’ammontare di quanto dovuto dagli istituti di credito, ormai rassegnati a perdere la causa, o addirittura con un accollo dell’intero passivo nel caso in cui tale somma fosse inferiore a quanto stabilito dal giudizio; dall’altro le banche cominciarono a irrigidirsi nei confronti dei propri correntisti rendendo più difficile l’accesso al credito e permettendo sempre meno lo sconfinamento44.

43 L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema dei diritti dei

creditori, in Riv. dir. comm., 2009, I p 69 e ss

44 G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, tomo

III, Parte speciale, in Commentario al c.c. Scialoja - Branca, Legge fallimentare, a cura di Bricola - F. Galgano - G. Santini, Bologna - Roma, 2002, pg.212; stesso avviso anche Bertozzi, La revocatoria fallimentare dei versamenti in conto corrente

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Conscia della necessità di dare un equilibrio tra questi due aspetti, parte della giurisprudenza – prevalentemente il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano - cominciò a elaborare un nuovo metodo di calcolo degli importi revocabili, più fedele alla effettiva situazione patrimoniale instaurata tra banca e correntista e che “contenesse in chiave indennitaria gli effetti della revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario”45: ovvero limitava la revocabilità a un ammontare pari alla differenza tra l’esposizione massima raggiunta dal correntista dal momento in cui la banca era venuta a conoscenza dello stato di insolvenza di quest’ultimo e il saldo finale debitore risultante alla chiusura del conto: si tratta della tesi del massimo scoperto, (che vedremo poi essere stata definitivamente accolta a seguito della riforma del 2005)46.

Questa tesi, che ebbe una buona adesione della dottrina47, si basa sull’assunto che il contratto di apertura di credito si fonda sul principio per il quale la rimessa effettuata dal correntista a seguito dell’utilizzo di somme affidate non ha effetto solutorio,

45 Così L. Andretto, Il massimo scoperto nella revocatoria fallimentare di pagamenti

diversi dalle rimesse bancarie, in Fallimento 2015, 8-9, pag 977. Questa è

un’affermazione peraltro non scevra di dubbi infatti è vero che si tiene conto di quanto effettivamente la banca ha percepito in pregiudizio agli altri creditori, ma è altrettanto vero non si tiene conto di tutta una movimentazione che è stata realizzata da un imprenditore con un istituto di credito che era a conoscenza dello stato di insolvenza del primo.

46 Tra le sentenze che accolsero tale orientamento: Trib Milano 11-09-1978, in

Giur. Comm. 1979, II, p 622; App. Milano 16-01-1979, in Giur. Comm. 1980, II, p 118; App. Bologna, 02-10-1981, in Foro it.; Trib. Roma 09-07-1982, in Foro it. 1982. In questo senso si è espressa anche la Cassazione in una solitaria sentenza: Cass. 15/05/1991, n. 5448, in Fallimento 1991, 1237.

47 Questa tesi fu elaborata in dottrina da V. Dotti, Revocatoria fallimentare delle

rimesse in conto corrente bancario con saldo debitore in Giur. comm., 1975, I, 516

ss.; successivamente seguita anche da E. Covi, Operazioni in conto corrente

bancario e revocatoria fallimentare in Giur. comm, 1980, I, 312 ss. . Dello stesso

parere anche R. Danovi, L’azione revocatoria degli accreditamenti e addebitamenti

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ma mira solamente a ricostituire la provvista messa a disposizione della banca, la quale è obbligata, in virtù del contratto, a mantenere disponibile quella somma di denaro per il periodo stabilito (che può essere determinato o indeterminato): si va dunque a criticare severamente coloro che paragonavano i rapporti instaurati in un’apertura di credito, con la concessioni di singoli mutui 48 sostenendo che questi sono contratti con natura fortemente diversa in quanto fanno nascere un vero e proprio credito della banca la cui estinzione ha indubbia natura di pagamento e la creazione di ogni mutuo rappresenta una nuova espressione della volontà della banca di concedere credito49.

Tuttavia tale teoria non fu accettata univocamente dalla giurisprudenza, in quanto si nota come non cessarono pronunce che invece sancivano la revoca della sommatoria delle rimesse50, soprattutto basandosi sul fatto che il criterio del massimo scoperto rende impossibile andare a individuare concretamente quelle che sono le rimesse che hanno causato il depauperamento

48 Secondo questi sostenitori (vd Bonelli, La revocatoria fallimentare delle

rimesse, Nuovi spunti giurisprudenziali e dottrinali emersi nel periodo 1977-1981, in Giur. Comm. 1982, pag. 31 e ss.) non vi sarebbe differenza tra la concessioni di singoli mutui, per la quale non sussistono dubbi in merito alla natura solutoria delle restituzioni, e le rimesse ripristinatorie a seguito di utilizzazioni del fido.

49 V. Dotti, Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario con

saldo debitore in Giur. comm., 1975, I, 526: sostiene infatti l’autore che pur

definendo le rimesse come atti estintivi del prestito concesso dalla banca, esse non rappresentano atti estintivi di rapporti diversi e autonomi, ma atti estintivi di un rapporto unico, pari all’ammontare del fido e dunque la revocatoria può essere accordata al massimo per l’ammontare dell’affidamento. Ritiene inoltre che questo orientamento vale se c’è un’apertura di credito, mentre nel caso in cui tale contratto non vi fosse saremmo di fronte a uno scoperto e dunque mancando la natura.

50 T. Torino, 10-06-1982, in Fallimento, 1982, 1516; App. Venezia 20-01-1981,

in Fallimento, 1981, 686 (che è la pronuncia contro la quale la Cassazione si è espressa con sentenza 5413 del 1982)

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del patrimonio del debitore51 e inoltre perché, per come applicata dalla giurisprudenza, non va a intaccare tutti gli atti di rientro dagli sconfinamenti effettuati dal correntista, i quali, essendo diretti a estinguere un debito liquido ed esigibile, dovrebbero essere tutti revocabili.

2.2. 1982, SVOLTA GIURISPRUDENZIALE

Per la prima volta la corte di Cassazione, pronunciandosi con la sentenza 5413 del 198252, fa una netta distinzione tra conto scoperto (ovvero con saldo debitore maggiore rispetto ai limiti

del fido o, in casi di assenza di quest’ultimo, semplicemente passivo) e passivo (ovvero con saldo debitore all’interno dei limiti dell’affidamento); precedentemente le corti spesso facevano confusione utilizzando questi termini talvolta come sinonimi.

L’orientamento delineato in questa sentenza dalla cassazione rappresenta quella che Bronzini53 nel suo commento chiama “una definitiva soluzione” a una situazione altalenante che si era creata negli ultimi anni tra l’applicazione del principio della irrevocabilità e la revocatoria indiscriminata di tutte le rimesse su conto passivo, definendo quella che è “la regola

51 Sostiene invece E. Covi, Operazioni in conto corrente bancario e revocatoria

fallimentare in Giur. comm, 1980, I, 321 che invece non vi sono particolari

difficoltà in merito infatti basta imputare a titolo di pagamento quella parte di rimessa che non è stata suscettibile di un riutilizzo successivo poiché è solo a seguito di questo che la rimessa acquista il carattere solutorio.

52 Corte di Cassazione, Sez. I civ., 18-10-1982, n. 5413, in Foro It, I, p. 2779 e ss 53 Bronzini, Revocatoria fallimentare e conti correnti coperti da fido bancario (nota

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fondamentale cui ci si deve uniformare”54. Questa sentenza rappresenta un “onorevole compromesso” tra l’interesse dei creditori a voler incrementare l’attivo patrimoniale e quello delle banche di non essere gravate di revocatorie dagli importi eccessivamente ingenti55.

La regola generale a cui si fa riferimento è quella per la quale le rimesse effettuate su un conto corrente assistito da apertura di credito si distinguono in ripristinatorie e solutorie. Nel caso cioè di un conto corrente con saldo passivo, cioè in cui il cliente utilizzi il proprio conto corrente entro i limiti del fido autorizzato dalla banca, le rimesse sono da qualificarsi come ripristinatorie, quindi destinate a reintegrare quella provvista che l’imprenditore può poi utilizzare disponendone con mandati alla banca. Nella situazione invece in cui il cliente operi al di fuori dei limiti dell’affidamento, i versamenti che quest’ultimo svolge sul proprio conto corrente costituiscono degli adempimenti estintivi di un vero e proprio obbligo verso la banca: in pratica l’istituto bancario è costretto ad anticipare somme al cliente e il versamento ha lo scopo di estinguere i crediti dalle anticipazioni extra fido operate dallo stesso. In

54 La stessa cassazione in questa pronuncia nota che alla stessa conclusione la

suprema corte era già pervenuta in altri casi e cita espressamente Cass. civ. 11-12-1978 n. 5836, in Banca borsa tit. cred. 1980, II, 270 (nella quale in particolare la corte affermava che gli addebiti e accrediti sono da considerarsi un mero effetto contabile del diritto del correntista di variare la provvista del proprio conto corrente e dunque non rappresentano il frutto di una vera e propria compensazione in senso tecnico giuridico) e Cass. civ. 30-01-1980 n. 709, in Giust. civ. Mass. 1980, fasc. 1 (la quale anch’essa fa riferimento alla differenza tra rimesse in conto scoperto e rimesse in conto passivo).

55 Così F. Bonelli, La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente

bancario: la giurisprudenza della Cassazione a partire dal 1982, in Giur. comm.,

1987, I, pag. 220. Le banche infatti vengono ad essere sottoposte alla revocatoria nel momento in cui non si limitano ad operare all’interno del fido, ma quando tollerino lo scoperto non rispettando dunque le formalità e il dovere di vigilanza.

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particolare con conto scoperto tale sentenza chiarisce che si fa riferimento non solo al caso di uno sconfinamento rispetto alle somme affidate, ma anche a un saldo passivo su un conto non assistito da apertura di credito.

Questa sentenza muove dal giudizio di appello56 nel quale la corte aveva determinato che a seguito di un apertura di credito e di un conto con saldo negativo, fossero revocabili tutte le rimesse effettuate su quel conto passivo attribuendo a tali versamenti oltre alla funzione di creare provvista, anche una vera e propria funzione solutoria. Il giudice dell’appello aveva motivato tale pronuncia sostenendo che “tutti i versamenti nel conto sarebbero nient’altro che un pagamento diretto all’estinzione del debito, la quale estinzione sembrerebbe, a sua volta, finalizzata ad ottenere una rinnovazione della stessa apertura di credito (…); a causa degli intermedi alterni prelievi operati dal correntista, si è constatato che, pur nell’unitarietà del rapporto il cliente si è avvantaggiato più volte (o comunque per entità cumulativamente maggiore) del capitale corrispondente all’importo della originaria apertura di credito, ciascuna delle quali utilizzata e poi rimborsata nel suo importo con relativa chiusura in pareggio”. In sostanza la corte di appello sosteneva che l’apertura di credito era suscettibile di essere disgregata in vari atti distinti di concessione di fido e che le rimesse avrebbero la funzione di estinguere tali crediti che la banca concede al correntista.

Qui la Suprema corte si discosta da quanto affermato in secondo grado tenendo conto di una riflessione in merito al contratto di apertura di credito: ovvero si chiarisce che una volta concesso il

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fido, i versamenti e i prelievi danno origine a addendi di una somma che altera continuamente la provvista del conto e, in particolare, le rimesse realizzano dei movimenti contabili che rappresentano il vero e proprio diritto del correntista di andare a variare la stessa disponibilità. Se quindi tale movimentazione è espressione di un diritto è difficile attribuirle allora il significato di una finalità estintiva di un debito, che peraltro dovrebbe essere liquido ed esigibile57.

Sottolinea inoltre la sentenza come, sul solco di quanto delineato sopra, non si possa nemmeno parlare di un pagamento di un debito non scaduto essendo infatti impossibile definire la rimessa come pagamento, indipendentemente da una sua esigibilità.

Per di più la suprema corte analizza che non è possibile nemmeno qualificare la rimessa su conto passivo come atto oneroso: dice infatti che “il versamento sul conto, eseguito dal correntista o da un terzo, non è in se stesso né oneroso, né gratuito: esso infatti consiste in una semplice operazione contabile di accreditamento diretto a creare il rapporto di provvista. L’onerosità (o la gratuità) può essere stabilita solo risalendo alla causa del versamento e (…) [dunque] solo ed esclusivamente dal fatto che il versamento stesso sia diretto a

57 Bronzini, Revocatoria fallimentare e conti correnti coperti da fido bancario (nota

a sentenza cass. 5413/1982), in Dir. Fall. 1982, pag. 1319. L’autore aggiunge inoltre che la movimentazione del conto in dare e avere non solo “può” avvenire, ma “deve” avvenire in quanto è su di essa che si fonda il rapporto fiduciario che sta alla base del rapporto di apertura di credito ed è il modo con il quale il correntista realizza la natura stessa del contratto che altrimenti si ridurrebbe a un solo grande prelievo e a un solo grande rimborso, perdendo dunque di senso.

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21 Cfr. Rebecca, La nuova revocatoria delle rimesse in conto corrente, profili tecnico contabili, in Il Diritto fallimentare, 2006, I, 1223; Guglielmucci, La nuova normativa

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