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Le opzioni difensive a disposizione

Nel documento N. 5 Percorsi (pagine 140-145)

La difesa di Ciro dovrà in primo luogo valutare se il fatto va giuridicamente inquadrato come lesione personale o tentato omicidio, avendo chiaro che la seconda ipotesi è inevitabilmente la più grave dal punto di vista delle possibili conseguenze penalistiche.

A questo proposito, il dato centrale “in fatto” della vicenda da valutare è la gravità (e il radi-camento) del disturbo di personalità di Ciro.

Pertanto occorrerà soffermarsi sulla imputabilità del minore, sia perché condizionata dal suo disturbo di personalità, sia perché egli potrebbe risultare incapace in quanto immaturo. Si aprirebbe tuttavia il problema dell’applicazione delle misure di sicurezza, che possono con-seguire alla ritenuta pericolosità (da accertare in concreto) del prosciolto per infermità o per immaturità.

Le attuali tendenze della giurisprudenza penale-minorile sono restrittive in ordine alle senten-ze di immaturità, ritenute deresponsabilizzanti e sostanzialmente contrarie alla funzione del processo ad imputati minorenni.

Occorrerà quindi un cenno alla messa alla prova, istituto che ha caratteristiche tali da consen-tire una penetrante osservazione sulla evoluzione della personalità del minore e la cui applica-zione, nella fattispecie in esame, sarà inevitabilmente valutata dal giudice.

Solo se non sarà possibile ricorrere alla messa alla prova (o se la prova non riuscirà) si porrà il problema della eventuale quantificazione della sanzione comminabile a Ciro.

Svolgimento del parere per esteso

Ciro, minore d’età, la notte dopo essere stato redarguito e “punito” dal padre per il suo scarso impegno scolastico, usando un’arma da taglio, ferisce gravemente il genitore e viene quindi arrestato.

Nel corso delle successive indagini si apprende che il minore è affetto da disturbo di persona-lità non altrimenti specificato ma caratterizzato da tratti che potrebbero avere avuto efficacia causale in ordine all’atto delittuoso da lui compiuto.

Si chiede al difensore di Ciro di fare una valutazione preliminare dei possibili sviluppi del procedimento penale.

Occorre, in primo luogo, soffermarsi sulla fattispecie di reato che risulta contestata al minore, ossia il tentato omicidio aggravato o, verosimilmente, pluriaggravato.

È di pacifica applicazione la circostanza aggravante prevista dagli artt. 576, n. 2, in relazione all’art. 577, n. 1, c.p., essendo il fatto commesso nei confronti dell’ascendente, ma non si può peraltro escludere che, alla luce degli elementi in atti e delle complessive risultanze delle indagini, l’addebito non venga ulteriormente aggravato per effetto della premeditazione (art. 577, n. 3, c.p.), ipotizzabile alla luce dell’apprezzabile lasso di tempo trascorso tra il litigio avvenuto tra padre e figlio (e che, ragionevolmente, va posto alla base dell’azione di Ciro), o per effetto della pur sempre rilevabile futilità dei motivi dell’atto delittuoso (art. 577, n. 4, c.p. da porre in relazione all’art. 61, n. 1, c.p.).

Le modalità dell’aggressione, avvenuta mentre la vittima dormiva, potrebbero configurare l’ulteriore aggravante della “minorata difesa”, prevista dall’art. 61, n. 5, c.p.

Elementi costitutivi del delitto tentato sono, com’è noto, l’idoneità e la non equivocità degli atti diretti alla commissione di un delitto che non giunge al suo perfezionamento per cause indipendenti dalla volontà dell’agente che, per l’appunto, sarà punibile con la pena stabilita per il reato consumato diminuita da un terzo a due terzi.

Una siffatta qualificazione giuridica del fatto attribuito a Ciro è suffragata dalla idoneità dell’atto da questi realizzato posto che l’idoneità ai fini della sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 56 c.p., consiste nella sua capacità causale e, cioè, nella sua suscettibilità a produrre l’evento che rende consumato l’evento voluto (Cass. V, 13 maggio 1998, RIML 2000, 868). Il mezzo utilizzato da Ciro (un grosso coltello da cucina), la gravità e la sede delle lesioni prodotte al genitore rendono evidentemente integrato il requisito dell’idoneità ex art. 56 c.p. tant’è che, secondo la giurisprudenza, per escludere la sussistenza del tentativo punibile, il mezzo usato dev’essere astrattamente e assolutamente inidoneo a raggiungere il fine che l’a-gente si è preposto; la semplice carenza di forza sufficiente a conseguire lo scopo nel caso con-creto, vale ad impedire la consumazione del reato, ma non esclude la punibilità del tentativo (al proposito si veda Cass. I, 22.4.1983, GP 1984, II, 112).

L’ulteriore requisito dell’univocità degli atti pare, nel caso de quo, realizzato per il contesto in cui gli stessi atti sono inseriti, per la loro natura e, utilizzando comuni regole d’esperienza, per le modalità dell’azione del minore.

Tutt’altro che irragionevole è, quindi, ritenere che il fatto attribuito a Ciro sia giuridicamente qualificato come tentato omicidio di Mevio.

Va tuttavia considerata la possibilità di una contestazione alternativa (ovvero di una derubri-cazione del reato nella fattispecie meno grave) che, quale effetto di una diversa valutazione

dell’elemento soggettivo, potrebbe adattarsi alla vicenda in esame; in effetti, mentre è indiscu-tibile che Ciro abbia aggredito l’integrità fisica del genitore, non è del tutto escluso ch’egli non avesse l’intenzione di uccidere: nel qual caso egli risponderebbe di lesioni personali aggravate. In altri termini, Ciro potrebbe aver agito con un atteggiamento psicologico meno intenso ri-spetto a quello richiesto per il tentato omicidio, mirando ad una generica lesione dell’integrità fisica di Mevio e magari limitandosi ad accettare il rischio della morte della vittima, senza tuttavia quell’animus necandi che sempre dovrebbe sostenere il dolo dell’omicidio.

In tale prospettiva, attesa l’incompatibilità tra dolo eventuale e univocità della direzione degli atti, caratteristica del delitto tentato, la grave contestazione potrebbe essere riqualificata − per difetto dell’elemento soggettivo del tentativo − nella fattispecie edittalmente più lieve, ma pur sempre pluriaggravata, giusta le previsione di cui agli artt. 582 e, quantomeno, 585 c.p. (che richiama le stesse aggravanti dell’omicidio).

Sull’accertamento in concreto dell’elemento soggettivo si fonderà, quindi, la qualificazione giuridica del fatto. Risulta, al proposito, assai severa l’impostazione giurisprudenziale, secon-do cui «ai fini della determinazione differenziale dell’elemento psicologico dei reati di lesioni personali o tentativo di omicidio, la prova risolutiva deve trarsi dalle modalità dell’azione e dalla materialità della condotta dell’agente. Questi, infatti, sono i soli elementi di innegabile ed obiettiva consistenza probatoria che forniscono l’indicazione più eloquente del valore e del significato da quello attribuito alla sua condotta ed alle modalità di esecuzione e quindi dell’effetto conseguito a quel fatto» (Cass. 15.1.1986, RV 172983).

Il secondo e più articolato problema da considerare nell’ambito del procedimento a carico di Ciro è quello dell’imputabilità (ex art. 85 c.p.), sulla quale potrebbero incidere sia la minore età che il disturbo di personalità, peraltro emerso sin dalle prime indagini svolte.

La riscontrata presenza di una patologia di tipo psichiatrico (disturbo n.a.s. con tratti schi-zoidi e narcisistici) richiama l’attenzione dell’interprete, in primo luogo, sull’ipotesi prevista dall’art. 88 c.p., che esclude l’imputabilità di colui che, al momento di commissione del fatto, era in tale stato di infermità mentale da escluderne la capacità d’intendere e di volere, ovvero sull’ulteriore ipotesi descritta dall’art. 89 c.p., che disciplina il vizio parziale di mente preve-dendo una diminuzione di pena per chi ha commesso il fatto in uno stato di infermità mentale tale da scemare grandemente, senza tuttavia escludere, la capacità d’intendere e di volere. Ciro, tuttavia, non è affetto da malattia mentale inquadrata nosograficamente, ma da un mero disturbo che, pur avendo rilevanza psichiatrica, potrebbe non presentare caratteri tali da escludere la capacità d’intendere e di volere della persona che ne è affetta.

Non a caso la questione della collocazione dei disturbi di personalità nell’ambito delle in-fermità rilevanti ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. risulta caratterizzata da frequenti oscillazioni giurisprudenziali.

Secondo l’indirizzo tradizionale, la malattia mentale potrebbe avere rilevanza giuridica solo se l’infermità riscontrata all’imputato abbia basi organiche o sia comunque riconducibile a un preciso quadro clinico-nosografico. Una tale prospettiva, finalizzata a circoscrivere la sfera del difetto di imputabilità, comporta che la disciplina degli artt. 88 e 89 c.p. non possa essere estesa alle anomalie psichiche e ai disturbi di personalità («In tema di imputabilità, la malattia di mente rilevante per la sua esclusione o riduzione è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico serio che comporti una degenerazione della sfera intellettiva o volitiva dell’agente. Ne consegue che la capacità di intendere e di volere non è esclusa dal fatto che il

soggetto sia affetto non da infermità mentale in senso patologico, ma solo da anomalie psichi-che o da disturbi della personalità», così Cass., sez. I, 9.4.2004, n. 16940, in Lex24).

“In caso di omicidio plurimo aggravato commesso da minori il riscontro negli stessi di un di-sturbo di personalità e non di un vizio della mente non è sufficiente per pronunciare sentenza di proscioglimento per non imputabilità. Infatti la nozione di “infermità di mente” è diversa da quella di disturbo di personalità. Ai fini dell’eventuale individuazione di un vizio totale o parziale di mente possono poi rilevare anche forme non rientranti in una specifica malattia mentale, purché intense (cioè in sostanza gravi) e, comunque, in stretto rapporto causale con il delitto commesso e tali da incidere profondamente sulla capacità di intendere e di volere, tant’è che si parla di “un vero e proprio squilibrio mentale” o di “degenerazione della sfera volitiva o intellettiva” (Trib. Minorenni Torino 11.2.2002, n. 216, in Lex24).

Altra giurisprudenza, per contro, si discosta dalla nosografia “ufficiale” e sostiene che anche i disturbi di personalità e, più in generale, le psicopatie ovvero altre anomalie caratteriali, purché di particolare gravità, siano idonee a pregiudicare o scemare la capacità di intendere e di volere dell’agente. In tal modo «...possono costituire “infermità” di cui agli art. 88 e 89 c.p. anche i “gravi disturbi della personalità”, atteso che essi, ancorché non inquadrabili nelle figu-re tipiche della nosografia clinica inscrivibili nel più ristfigu-retto novero delle “malattie” mentali, sono idonei a determinare il medesimo risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive e dunque rilevano, ai fini dell’accertamento dell’imputabilità, sempre che ne sia accertato il nesso eziologico con la specifica azione criminosa » (Cass., sez. I, 31.3.2005 , n. 16574, in Riv. it. medicina legale, 2005, 941).

A dirimere il contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, che si sono espresse in favore della tesi che colloca i disturbi di personalità tra le infermità rile-vanti ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. («Per stabilire in cosa consista l’infermità di mente di cui è menzione nell’art. 88 c.p., quale causa di esclusione dell’imputabilità, occorre fare riferimento ai criteri dettati dalla medicina e dalla psicologia, le quali nelle loro acquisizioni più recenti sono inclini a considerare malattia mentale non soltanto quelle a base organica, ma anche i semplici disturbi della personalità. Ne consegue che anche questi ultimi possono comportare l’esclusione della imputabilità, a condizione che siano di gravità ed intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, e che siano state proprio esse la causa della condotta criminosa», cfr. Cass. SS. UU. 8.3.2005, n. 9163, in Lex24).

Una nozione così “ampliata” di infermità di mente consente quantomeno di prendere in consi-derazione anche il disturbo riscontrato a Ciro, affinché ne sia valutato il grado di incidenza sulla di lui capacità di intendere e di volere. Tuttavia, la mera esistenza di una patologia di un qualche rilievo psichiatrico non è, di per sé, sufficiente all’esclusione dell’imputabilità del soggetto che ne è affetto, dal momento che anche la giurisprudenza più innovativa richiede che il disturbo sia comunque caratterizzato da “gravità” e che il reato commesso vi sia eziologicamente collegato. Ne deriva che, dal punto di vista probatorio, assumerà particolare importanza − nel caso in esame − la valutazione effettuata da periti e consulenti di parte in ordine all’entità del disturbo e al grado di incidenza di esso sulla commissione del fatto.

Ove il disturbo di personalità di Ciro venga ritenuto così significativo da condizionarne l’im-putabilità, conducendo al proscioglimento ex art. 88 c.p. ovvero a sentenza che applichi la diminuente prevista dall’art. 89 c.p., occorrerà prendere in considerazione e valutare adegua-tamente l’ulteriore profilo della “pericolosità” dell’imputato.

Infatti, se all’esito del procedimento penale Ciro sarà ritenuto pericoloso, quand’anche pro-sciolto (nell’ipotesi dell’infermità totale) ovvero se ritenuto seminfermo di mente, rischierà l’applicazione della misura di sicurezza (trattandosi di minorenne, del riformatorio giudizia-rio) dal momento che la legge prevede che detta misura sia ordinata, in presenza dei relativi presupposti (ossia pericolosità sociale e commissione del fatto di reato), con la sentenza di condanna o di proscioglimento (art. 205 c.p.).

È chiaro, peraltro, che il problema dell’imputabilità di Ciro non può essere affidato alla sola analisi del complesso disturbo di personalità riscontratogli e alla conseguente possibile dichia-razione di non punibilità (che comunque, per quanto or ora accennato, non risolverebbe la questione delle conseguenze di tipo sanzionatorio).

Trattandosi di minore infradiciottenne, occorrerà un’ulteriore valutazione della capacità d’in-tendere e di volere, operazione che non va confusa con l’accertamento dell’infermità men-tale, dal momento che l’analisi del giudice sarà effettuata, piuttosto, sul grado di “maturità” dell’imputato.

La maturità, nozione sintetica della capacità d’intendere e di volere richiesta ai fini dell’impu-tabilità del soggetto che ha compiuto i 14 anni e non ancora i 18, viene identificata, in linea di massima, con lo sviluppo intellettivo, la forza di carattere, la capacità di intendere valori etici, l’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito e a determinarsi nella scelta dell’uno o dell’altro (al proposito si veda, Cass. Sez. I, 11.1.1988, RV 179473).

Anche l’accertamento della maturità del minore infradiciottenne (maturità che non è presunta dalla legge) necessita di ricerche e specifiche valutazioni sui precedenti personali e familiari del soggetto (ma non richiede l’espletamento di perizia psichiatrica essendo affidata, per scelta del legislatore, ai servizi minorili di amministrazione della giustizia).

In tale contesto normativo la vicenda di Ciro si presenta come particolarmente delicata perché il disturbo da cui è risultato affetto potrebbe ben interferire sull’evoluzione della sua persona-lità e pregiudicare (o aver pregiudicato) il processo di maturazione.

Vero è che, secondo la tradizionale interpretazione giurisprudenziale, immaturità e infermità mentale sono concetti ontologicamente distinti (e che i due stati possono, in un soggetto mi-norenne, coesistere o meno, su ciò cfr., per esempio, Cass. Sez. I, 21.12.1989, RV 183345), ma è altrettanto vero che i disturbi di personalità possono impedire al minore di raggiungere lo stato di maturità o comunque rallentarne il normale sviluppo (cfr. Cass. Sez. I, 16.1.1979, in Giust. pen., 1979, II, 692).

Non è, allo stato, possibile pronosticare se il fatto commesso da Ciro sarà inquadrabile come il gesto di un giovane immaturo, quindi incapace ex art. 98 c.p., anche se è evidente che in tale processo di valutazione occorrerà prendere in seria considerazione l’incidenza dei disturbi riscontrati al minore sullo sviluppo della sua personalità.

Ne deriva, quindi, che il procedimento a carico di Ciro potrà ben essere definito con pronun-cia di non imputabilità (dovuta ad immaturità), ferma l’autonomia dell’ulteriore giudizio di pericolosità e della conseguente possibile applicazione di misura di sicurezza del riformatorio giudiziario (mantenuto nel sistema dall’art. 36 D.P.R. n. 448/1988, regolante il processo ad imputati minorenni dopo la riforma del rito penale ordinario).

La terza opzione da considerare, ai fini di una esaustiva valutazione delle varie soluzioni proces-suali adattabili alla vicenda di Ciro è quella, a lui evidentemente più favorevole, di una sospensione del processo con messa alla prova, istituto previsto dall’art. 28 del già citato D.P.R. n. 448/1988).

In concreto il giudice minorile, sospendendo il processo penale, può affidare il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento delle «opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno», impartendo altresì “prescrizioni” finalizzate a riparare le conseguenze del reato: il ricorso all’istituto è rimesso al potere discrezionale del giudice e postula un giudizio positivo in ordine all’opportunità di sottoporre il minore a un periodo di osservazione per la successiva valutazione della sua personalità (Cass., sez. VI, 9.2.2000 n. 3944, in Guida al diritto, n. 19/2000, 74).

Dal punto di vista formale, la messa alla prova non ha natura sanzionatoria perché ha come premessa la sospensione del processo penale e, come conseguenza, laddove la “prova” abbia dato l’esito sperato, l’estinzione del reato (art. 29 D.P.R. n. 448/1988) mentre ove la prova fallisca, il processo riprenderà il corso ordinario.

È quindi evidente che, in ottica difensiva, la eventuale definizione del processo a carico di Ciro con una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato (a prescindere dalla qualificazione giuridica di tentato omicidio o di lesioni personali) sarà la migliore delle soluzioni possibili per il minore che, per tale via, eviterà sia la sanzione penale che la misura di sicurezza.

Una siffatta soluzione processuale, peraltro, sarebbe palesemente incompatibile con i presup-posti di fatto della sentenza di proscioglimento per infermità o per immaturità (di cui già si è scritto) dal momento che, per l’attivazione del procedimento di messa alla prova, è necessaria − da parte del minorenne candidato a beneficiarne − la seria assunzione di un impegno allo svolgimento delle prescrizioni ordinategli dal giudice (non realizzabile sia a fronte di un serio disturbo di personalità che a fronte di una conclamata e persistente immaturità).

Saranno, dunque, i prossimi accertamenti istruttori a meglio individuare quale delle tre opzio-ni finora delineate sarà adattabile al caso concreto di Ciro, fermo restando che, ove occorresse elaborare una strategia difensiva, da privilegiare sarebbe, in ogni caso, quella della messa alla prova che, se conclusa positivamente, estinguerebbe il reato e scongiurerebbe, ovviamente, sia il rischio della reclusione che quello dell’applicazione della misura di sicurezza.

Nel documento N. 5 Percorsi (pagine 140-145)