61. Circostanze aggravanti comuni — Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze
5.9 Osservazioni conclusive
Le storie di vita qui narrate ci invitano a riflettere sul ruolo dei servizi sociali nella società contemporanea, servizi che, se efficienti e funzionanti, avrebbero probabilmente potuto, con il loro intervento, incidere in situazioni familiari complesse e disgregate, in percorsi di vita caratterizzati da un disagio crescente e progressivamente divenuto ingestibile, come nel caso degli autori di reato qui tratteggiati.
Purtroppo, il contesto sociale è, oggi come ieri, caratterizzato da una crisi che ha investito anche i servizi preposti alla cura e all’accoglienza di soggetti particolarmente problematici; le trasformazioni sociali in atto hanno, infatti, determinato un peggioramento della qualità del lavoro sociale ed educativo.
Il disagio giovanile sembra essere diventato un malessere diffuso e questa visione “ha anche rischiato di avvalorare l’idea che <<se tutti sono a disagio>>, allora <<nessuno è a disagio>>, e che pertanto il disagio è una condizione indifferenziata, non legata a situazioni, contesti, storie deprivazioni, ma legata all’età”344.
Il malessere e la crisi non riguardano, come già accennato, esclusivamente la condizione giovanile, infatti, come sostenuto in un recentissimo scritto da Franca Dente, presidente dell’ordine nazionale assistenti sociali “la mancanza o l’insufficienza di adeguate politiche e interventi nel campo sociale, la perdurante assenza dei livelli essenziali di assistenza da garantire su tutto il territorio nazionale che attenui gli squilibri tra regioni e le sperequazioni tra cittadini, il depauperamento subito in questi ultimi anni dai servizi pubblici, privati di risorse finanziarie, umane e strumentali, l’incremento dell’esternalizzazione e privatizzazione dei servizi, senza i necessari sistemi di monitoraggio e valutazione, la diffusa condizione di precarietà dei professionisti che non garantisce continuità delle prestazioni, vanno a colpire le fasce di popolazione più svantaggiate, in un momento in cui l’area di disagio si è estesa anche a persone e famiglie del ceto medio”345.
In una congiuntura di questo tipo, che coinvolge minori, adolescenti, adulti e anziani, tutti soggetti appartenenti ad una condizione sociale generalizzabile e trasversale alle diverse generazioni, laddove vengono omogeneamente condivise privazioni, difficoltà e necessità di aiuti concreti, è oltremodo difficile progettare azioni individualizzate e mirate, in grado di incidere efficacemente sul vissuto di ciascuno, onde evitare che la degenerazione dei rapporti interpersonali e la crescente insoddisfazione, si traducano in situazioni irrecuperabili, come è accaduto nei casi sopra riportati. Risulta, pertanto, “indispensabile il riferimento alla comunità locale, alle risorse che vi sono
344 M. Croce, M. Vassura, “I quattro assi della prevenzione. Dall’inflazione del disagio giovanile al minimalismo
preventivo”, in Animazione Sociale, a. XXXVIII, numero 225, agosto – settembre 2008, p. 22.
345 Ordine nazionale assistenti sociali, “La sicurezza vista dal servizio sociale”, in Animazione Sociale, a. XXXVIII,
presenti, al sistema di relazioni nel quale le persone, le famiglie e i gruppi sono inseriti e di cui sono attori, ugualmente cruciale è l’attenzione per la dimensione micro, quella dei rapporti faccia a faccia e della quotidianità”346.
Inoltre, all’interno del contesto urbano odierno, emerge una crescente e insistente domanda di sicurezza proveniente dai cittadini, i quali si sentono minacciati, oltre che dal sensibile e percepibile aumento della microcriminalità, anche dal progressivo incremento di fenomeni quali il degrado urbano e la microconflittualità, tali da generare una sensazione diffusa di insicurezza, difficilmente controllabile, direttamente incidente sulla materia dell’ordine pubblico e in grado di condizionare scelte politiche particolarmente severe.
Questa domanda di sicurezza, pertanto, investe senz’altro anche i servizi sociali, perché i cittadini impauriti non riconoscono più gli operatori dei servizi come soggetti qualificati ai quali affidarsi, per risolvere anche problemi di sicurezza sociale; preferiscono, piuttosto, rivolgersi ad operatori di polizia, alle forze dell’ordine, la cui popolarità appare aumentata in modo esponenziale, godendo di una fiducia sempre crescente, come dimostrato anche dai risultati del nostro questionario.
Ciò accade perché oggi si opera una netta distinzione tra sicurezza pubblica, demandata alle forze dell’ordine, e sicurezza sociale, la quale soffre un serio problema di attribuzione e competenza, in seguito al mutamento politico sociale del concetto di welfare, con evidenti risvolti di carattere pratico347.
La questione della sicurezza non deve essere banalizzata, “va presa in considerazione senza procedere per parole ed azioni ad effetto, rivolte più ad acquisire battimani che ad affrontare i problemi”348. I servizi avvertono la necessità di un mutamento che, secondo Franca Olivetti Manoukian, deve essere volto al recupero di una dimensione dialogica con la società, richiamando l’importanza dell’ascolto, nei confronti del disagio, volto al consolidamento di un rapporto fiduciario tra servizi e cittadini e la capacità di gestire le emergenze sociali, ossia “situazioni caratterizzate da comportamenti anomali e devianti, particolarmente allarmanti per il loro significato dirompente e disconfermante dei rapporti <<normali>>, normalmente messi in atto dai singoli e praticati all’interno delle famiglie (…) accanto a reati che vanno accertati e puniti, esistono dei fallimenti nei rapporti familiari, delle esigenze di accoglienza e accudimento, che vanno trattate con competenze sociali e psico-sociali, socio-educative e socio-assistenziali”349.
346 E. R. Martini, “Comunità in sviluppo. Potenzialità, limiti e sfide dello sviluppo di comunità”, in Animazione Sociale,
a. XXXVII, numero 216, ottobre 2007, p. 21.
347 F. Olivetti Manoukian, “La domanda di sicurezza può non investire i servizi? Tracce per una discussione pubblica”,
in Animazione Sociale, a. XXXVIII, numero 223, maggio 2008.
348 Ivi, p. 26. 349 Ivi, p. 27.
Pertanto, l’intervento delle sole forze dell’ordine non è sufficiente ad affrontare, a tutto tondo, situazioni di questo genere. In queste occasioni, i servizi possono dimostrare l’importanza del loro ruolo, l’efficienza del loro operato e la necessità del loro tempestivo intervento, sottolineando l’imprescindibile apporto che l’integrazione tra le risorse territoriali può e, oggi, deve comportare; infatti, la richiesta di “predisporre collaborazioni e appoggi di altri servizi pubblici e privati, di famiglie, di volontari (la famosa rete!) che possano essere attivati rapidamente, per ricostruire un minimo di tessuto relazionale, a fronte delle lacerazioni e dei traumi che si sono verificati”350, emerge prepotentemente, ancora una volta, così come abbiamo avuto modo di appurare dalla diretta voce dei nostri intervistati. È un problema, dunque, che riguarda non solo i servizi privati, ma un’esigenza sentita, allo stesso modo, dai servizi pubblici.
È chiaro, a questo punto, che in una società così “insicura” che cerca rassicurazioni e garanzie nelle forze dell’ordine, i servizi sociali rischiano seriamente di essere relegati ad un ruolo residuale. Se, infatti, il maggiore credito acquisito dalle forze di polizia può rappresentare una nota positiva in un panorama di sempre maggiore incertezza, la sfiducia nutrita nei confronti dei servizi sociali, mette a dura prova la loro stessa sopravvivenza, tutte le volte in cui questi non affrontano, con urgenza, la domanda di sicurezza dei cittadini: “è tempo insomma che gli operatori sociali escano dagli uffici, dai setting specialistici, e mettano insieme le loro competenze al servizio del territorio. È questo il luogo dove oggi si gioca la partita della sicurezza. Una partita decisiva non solo per il futuro dei nostri servizi di welfare, ma per la qualità civile della nostra convivenza”351.
350 Ivi, p. 28.
351 M. Fiani (a cura di), Intervista a Ota De Leonardis, “Dai luoghi di cura alla cura dei luoghi. I servizi sociali di fronte
CONCLUSIONI
Dalla ricerca effettuata emerge un’immagine della vittima complessa e, a volte, ambivalente.
La vittima di reato è sicuramente “la persona fisica che ha subito un pregiudizio, anche fisico o mentale, sofferenze psichiche, danni materiali causati direttamente da atti od omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale (…)”352, è altresì, secondo il codice penale italiano, una “persona offesa dal reato”, la quale, nella maggior parte dei casi, ha la possibilità di esercitare,
ex articolo 74 c.p.p., l’azione civile volta ad ottenere il risarcimento del danno, patrimoniale o non
patrimoniale, patito ma, al contempo, può rivelarsi una persona affetta dal cosiddetto “complesso di Erostrato353” e soccombere ad una spasmodica ricerca di notorietà, snaturando la propria sofferenza.
Quando si parla di vittime, come abbiamo già avuto modo di vedere, esiste, dunque, il rischio concreto che, in alcuni casi, il desiderio di visibilità conduca ad una mera strumentalizzazione del dolore.
Nel caso poi di una mirata attività di lobby, nonostante quest’attività possa essere, in qualche modo, necessaria al fine di introdurre, a livello legislativo e politico, cambiamenti significativi in tema di vittimizzazione, la determinazione nel volere acquisire potere e risorse economiche relega in secondo piano i diritti inalienabili appartenenti alle vittime, trascurando in tal modo il rispetto per il dolore ed il lutto.
Da un punto di vista teorico, dunque, la vittima di reato è una persona che, certamente, soffre per il dolore infertole dall’offensore ma, al contempo, può essere un soggetto che viene strumentalizzato a livello politico e che, a sua volta, può tradurre l’esperienza vittimizzante subita in uno strumento di pressione in grado di incidere a livello politico – legislativo e mass – mediatico al fine di ottenere non solo visibilità, ma anche potere e finanziamenti.
Dopo uno studio attento e sistematico della letteratura esistente in materia, la ricerca, come si è visto, è stata sviluppata seguendo tre traiettorie principali: le interviste, il questionario, le relazioni di perizia psichiatrica.
Dall’analisi del contenuto delle interviste raccolte emerge una situazione poco rassicurante. I servizi oggetto delle interviste, infatti, sono affetti da una serie di difficoltà, non facilmente affrontabili senza un intervento fattivo ed energico delle istituzioni a livello centrale e locale. Gli operatori del settore lamentano problemi di varia natura, primo fra tutti l’insufficienza delle risorse
352 Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel
procedimento penale (2001/220/GAI), Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, L. 82/2 del 22.3.2001. Articolo 1.
353 Erostrato fu un oscuro cittadino di Efeso, un pastore, che, per rendere, in qualche modo, immortale il suo nome,
economiche, denunciano altresì una formazione professionale carente e inadeguata, l’inconsistenza della “rete”, vale a dire del coordinamento tra pubblico e privato, e una quasi totale assenza di campagne volte alla sensibilizzazione e alla educazione del cittadino.
Oltre agli ostacoli di ordine pratico, come quelli appena menzionati, si palesano questioni altrettanto importanti concernenti, ad esempio, la concezione della vittima di reato. Secondo gli intervistati, infatti, ci si limita ad una definizione meramente giuridica, intendendo la vittima come la persona offesa dal reato e, così facendo, si trascura l’aspetto psicologico, l’intreccio complesso di sentimenti ed emozioni, che connota l’esperienza vittimizzante.
Questo aspetto viene confermato anche quando vengono analizzate le tipologie di danno riscontrate con maggior frequenza dagli operatori dei servizi, oggetto delle interviste.
Da quanto riferito sembra, infatti, che il danno maggiormente patito sia quello di natura psicologica che, a dire degli intervistati, viene troppo spesso sottovalutato, nonostante risulti in concreto molto ingente e con ripercussioni a lungo termine. A questo proposito è probabile che gli intervistati alludano alle conseguenze causate dal PTSD (post traumatic stress desorder), ossia al cosiddetto disturbo post traumatico da stress, ma è pur plausibile che le sofferenze patite e l’intensità della sintomatologia presentata dal soggetto vittimizzato siano ricollegabili alla controversa materia in tema di danno non patrimoniale, ex articolo 2059 del codice civile italiano.
Non escludendo che possano ricorrere in concomitanza danni di natura diversa è innegabile ravvisare, in numerosi casi, la configurabilità del danno esistenziale da intendersi come un pregiudizio, che va ad intaccare le abitudini di vita e la sfera relazionale del soggetto, sconvolgendo la sua quotidianità, e che oggi, alla luce della sentenza delle sezioni unite della Cassazione n° 26972/2008, si ritiene risarcibile solo qualora implichi la violazione di un diritto di rango costituzionale e, dunque, inalienabile354.
Un altro dei temi affrontati dall’intervista è relativo alle esperienze straniere dei Victim Support, centri di supporto alle vittime, nati con lo scopo di fornire aiuto materiale, legale e psicologico a chi ha sfortunatamente subito, direttamente o indirettamente, un’azione criminale.
Stupisce il fatto che la maggior parte degli operatori non conosca l’esistenza di tali centri e, pertanto, non sia in grado di fornire delle risposte esaurienti senza prima documentarsi in materia. Nonostante ciò la maggior parte degli intervistati ritiene che, piuttosto che fare affidamento su servizi a-specifici come appunto i victim support, in grado di occuparsi di forme di vittimizzazione diverse, sarebbe più opportuno prevedere interventi di tipo settoriale e specifico, rivolti a particolari categorie di vittime e non indistintamente a tutti.
354 In tema di risarcibilità del danno non patrimoniale si rimanda al paragrafo 4.3 “Tipologie di danni” e, in particolare,
Il questionario ha permesso di sondare gli atteggiamenti degli studenti riguardo a particolari tematiche concernenti non solo la vittima e la vittimizzazione, ma anche l’opinione manifestata nei confronti delle istituzioni.
L’atteggiamento denota “un orientamento nei confronti di un oggetto – sia esso un comportamento, un evento o una persona – secondo l’asse del piacere-dispiacere, rispecchia un insieme di affetti e cognizioni e attiva una tendenza a esprimersi o ad agire pro o contro. In definitiva esso segnala un modo di prestare attenzione, di riflettere, di collocarsi nei confronti di un oggetto, insieme alla propensione ad agire nei confronti di quello stesso oggetto coerentemente con le proprie opinioni”355.
Le valutazioni espresse rispetto ad un oggetto danno vita a tre tipi diversi di risposte, ossia, le risposte cognitive che “si riferiscono ad un insieme di conoscenze e opinioni cumulate su di un oggetto nel corso del processo di socializzazione e per lo più sono dichiarazioni di credenze e di pensieri”356, le risposte affettive le quali “esprimono sentimenti ed emozioni vissuti in relazione ad uno specifico oggetto”357 e le risposte comportamentali che riguardano “sia le azioni messe in atto in merito ad un oggetto sia le dichiarazioni concernenti le intenzioni comportamentali”358.
L’interconnessione tra l’atteggiamento e il comportamento non è sempre diretta, nel senso che la correlazione tra quello che si pensa e il comportamento che si mette in atto, rispetto ad un determinato oggetto, non è automatica anche se, generalmente, il pensiero dovrebbe influenzare il comportamento. Accade invece che “il contesto sociale in cui il comportamento ha luogo influenza la relazione tra atteggiamenti e comportamento in modo tale che non sempre l’avere un atteggiamento di favore o di sfavore porta necessariamente ad agire in accordo con le proprie opinioni”359.
Questa premessa è utile per tenere ben presente che le risposte fornite dagli studenti, rispetto a determinate tematiche, possono anche non dimostrarsi coerenti.
Per facilitare il processo di analisi il questionario è stato suddiviso in 5 aree tematiche: aspetto definitorio, problemi cogenti, assistenza, sistema di giustizia, riflessioni auto-riferite e dati socio- demografici.
Relativamente all’aspetto definitorio, secondo gli studenti intervistati, la vittima è soprattutto “una persona che ha subito un’ingiustizia” (40.6%) e, in seconda battuta, “una persona che ha patito un danno” (36.5%). Nella nostra società questa persona può essere identificata prevalentemente con i bambini (40.9%) e con le donne (30.1%), soggetti che incorrono maggiormente in episodi di
355 S. Boca, P. Bocchiaro, C. Scaffidi Abbate, Introduzione alla psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 62. 356 Ibidem.
357 Ibidem. 358 Ibidem. 359 Ivi, p. 63.
vittimizzazione, secondo i pareri espressi. Forse proprio perché sono queste due le categorie cui vengono accordate le preferenze più numerose, nell’opinione della maggior parte di studenti, la vittima non può essere colpevolizzata per quanto le è accaduto (51.0%). In accordo con una parte importante della letteratura vittimologica, infatti, caratteristiche quali l’età e il sesso possono rappresentare dei fattori di rischio specifici che aumentano la possibilità di incorrere in un episodio di vittimizzazione. In particolare, prendendo in considerazione queste due variabili, alcuni esponenti autorevoli della vittimologia360 ritengono la giovane età e il genere femminile due fattori che predispongono ad un maggiore rischio di vittimizzazione a causa della loro vulnerabilità, della debolezza fisica, della loro incapacità di difendersi da un eventuale aggressore.
La figura di vittima che può essere delineata a partire dalle risposte fornite dagli studenti si riferisce ad una persona che merita soprattutto sentimenti di solidarietà (89.3%) e compassione (48.3% - seconda scelta, domanda a risposta multipla) per quanto ha dovuto subire.
Nella seconda sezione, problemi cogenti: quali difficoltà per la vittima e per il paese, comincia ad emergere il disappunto nei confronti del sistema di giustizia. L’87.3% degli studenti ritiene, infatti, che lo scoglio più grande da affrontare per una vittima sia quello della lentezza della giustizia, anche se, nella seconda scelta, un buon numero, pari alla maggioranza del campione di riferimento empirico (56.4%), considera l’indifferenza degli altri un’altra difficoltà con cui deve fare i conti la persona offesa dal reato, la quale patisce serie conseguenze di ordine psicologico in primis (78.3%) e nei rapporti con gli altri (54.2% - seconda scelta).
L’importanza della natura psicologica del trauma, esperito successivamente ad un episodio vittimizzante, già richiamata dagli operatori dei servizi di assistenza alle vittime, riemerge prepotentemente anche nell’opinione degli studenti, i quali però, in questo di parere opposto agli operatori del settore, sono favorevoli ad una maggiore diffusione di servizi di assistenza alle vittime nel nostro paese (96.2%).
Quando agli studenti viene data nuovamente la possibilità di esprimere un parere sul sistema di giustizia, la loro posizione di sfiducia nei confronti del sistema riaffiora senza indugio. In base alle opinioni espresse, infatti, si apprende che le vittime ricevono un trattamento peggiore (70.1%), rispetto a quello che viene riservato al reo, dal sistema di giustizia penale; inoltre per il 73.6% di rispondenti, la vittima nel nostro paese è poco protetta.
Ancora quando viene chiesto quali provvedimenti dovrebbe adottare il governo al fine di proteggere meglio i cittadini italiani, gli studenti chiamano in causa il sistema della giustizia penale, auspicando l’introduzione di pene più severe (33.1%), che ritengono abbastanza utili nel 43.7% dei casi, e chiedendo che la pena sia scontata per intero in carcere (51.4%- seconda scelta) anche se,
quando viene chiesto loro di esprimere un’opinione riguardo alla mediazione penale, la maggior parte (56.6%) si dichiara favorevole a tale sistema alternativo di risoluzione del conflitto.
In questo caso potrebbe sembrare che gli studenti non forniscano risposte molto coerenti fra loro, però è piuttosto plausibile che i ragazzi affrontino ciascun item proposto singolarmente, senza pensare ad un collegamento logico o, appunto, coerente tra le risposte fornite.
A proposito del discredito crescente nei confronti del sistema di giustizia, connesso al reiterato problema della “lentezza della giustizia”, è bene ricordare che, l’articolo 111361 della Costituzione, recentemente modificato, si appella ad un “giusto processo”, in accordo al principio della “ragionevole durata” che viene, in tale occasione, costituzionalizzato362; quest’ultimo principio si riconduce all’articolo 6, comma 1363, della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Le risposte degli studenti sembrano fare eco alle dichiarazioni recentemente rilasciate in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il primo presidente della Corte di Cassazione riconosce che “la crisi della Giustizia ha conseguenze che vanno ben al di là dei costi, e degli sprechi, di un servizio inefficiente e si estendono alla fiducia dei cittadini, alla credibilità delle Istituzioni democratiche, allo sviluppo e alla competitività del Paese”364 e durante il suo lungo discorso coglie
361 La Costituzione- Parte II – Ordinamento della Repubblica – Titolo IV- la Magistratura – sezione II – Norme sulla
giurisdizione - articolo 111:
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse