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Partenza da Pinar del Rio e incontri/scontri all’Avana

UNIVERSITA TRADIZIONALE

ETNOGRAFIA DI UNA RICERCA IM(POSSIBILE)

3.10 Partenza da Pinar del Rio e incontri/scontri all’Avana

Negli ultimi giorni a Pinar del Rio sono riuscita a concludere le interviste agli studenti e a raccogliere le storie di vita degli/lle amici/che cubani/e con i quali avevo condiviso quei tre mesi. Da una parte ero soddisfatta del grande lavoro che avevo svolto in un mese, ma dall‟altra mi chiedevo che senso avesse avuto impiegare tante energie e professionalità senza capirne bene poi l‟utilizzo ai fini della ricerca. Sapevo che pensare con tanta razionalità allo sviluppo dei dati raccolti era un freno al fare ciò che spesso mi aveva suggerito il mio tutor Piasere: “lasciati andare al flusso della ricerca, sarà questo a portarti avanti e a svelarti il prossimo passo”. Così ho deciso di salutare tutte le persone con le quali mi ero legata affettivamente e professionalmente e partire per l‟Avana dove avrei rincontrato le amiche missionarie.

All‟Avana ho ripreso il mio ruolo di ricercatrice visitando i luoghi più ufficiali per quanto riguarda la ricerca e gli studi sulla gioventù cubana.

Come primo passo sono stata all‟Università dell‟Avana dove vi è FLACSO (Centro ricerche sociali dell‟America Latina), poi al Centro Martin Luther King (centro di ricerca e progetti comunitari, di sviluppo sostenibile, educativi e socio-teologici che pubblica

Caminos, rivista cubana di pensiero socio-teologico). Ho continuato le mie escursioni

all‟ICCP (Centro Scienze pedagogiche e Associazione di Pedagogia), e ho concluso con il Centro giovani comunisti (CDR) e Pioniere (Centro infanzia).

Riporto la parte del diario dove racconto la visita al CDR.

Habana, 22 luglio 08 .

Sono andata al Centro della Gioventù, al centro dei giovani comunisti CDR, e mi hanno fatto l‟interrogatorio su chi sono, dove vivo, chi mi ha mandato lì, nome e numero di telefono, ecc. Alla fine mi hanno mandato nel centro vicino, quello del Pioniero, che si occupa dei bimbi. Dopo tre piani di scale sono arrivata ad un ufficio dove una segretaria mi ha riferito che la responsabile non c‟era e che mi poteva dare informazioni o documentazioni solo con un‟autorizzazione rilasciata dall‟Università di Pinar del Rio. Poi mi ha regalato un libro che alcuni professori e responsabili di tale centro hanno scritto sugli adolescenti. Successivamente ho incontrato un vecchietto che voleva vendermi un cappellino con la scritta „Cuba‟, e che mi ha poi accompagnata a visitare la cattedrale di San Francesco; abbiamo cercato il mercato dell‟artigiania, ma era chiuso, così gli ho dato qualche moneta per il cappellino e mi ha lasciato il suo indirizzo per andarlo a trovare nella sua casa.

Durante i miei giorni di permanenza nella periferia dell‟Avana, Lisa, una missionaria italiana, mi ha procurato un incontro con Sara, una sua amica sociologa e assistente sociale che era stata in Italia per un mese grazie ai legami con alcuni religiosi/e della Chiesa

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cattolica. Il 16 luglio 2008 mi sono avviata con Lisa per recarmi a casa di Sara. Abbiamo camminato per circa un chilometro e poi abbiamo preso un autobus, siamo scese dopo circa due fermate e a piedi siamo arrivate a casa di Sara, una bella ragazza bruna, alta, longilinea, con un po‟ di pancetta post-parto di due mesi. La sua piccola casa sembrava più il sottoscala di un condominio che un‟abitazione familiare. Aperta la porta di ingresso mi sono subito trovata nella stanza più “grande” della casa dove vi era la TV accesa, ma con grande stupore non riuscivo a capire da dove provenisse la voce della signora che appariva sullo schermo perché di certo non proveniva dalla TV. Sara, vedendo il mio stupore, mi spiegò che la TV aveva le casse rotte, così il marito, da buon cubano ingegnoso, aveva collegato la radio e aveva creato un nuovo strumento acustico televisivo. In effetti, avvicinandomi alla radio, sentivo la voce che mi aspettavo uscisse dalla TV.

Sara è stata molto accogliente con la missionaria, si vedeva che si conoscevano da molti anni e che si fidavano l‟una dell‟altra. A un certo punto Lisa se ne è andata per lasciarci parlare tranquillamente. La ragazza cubana mi ha invitata ad andare nella stanza da letto dove la piccola Maria di due mesi dormiva nel lettino vicino a quello matrimoniale dei genitori. Lì, distesa sul letto, Sara ha iniziato il racconto che io non ho registrato per non interrompere la conversazione che era un libero flusso di confidenze, di condivisione, di dialogo profondo tra donne di diverse culture che si incontrano e parlano da amiche.

Sara ha trentatrè anni, è sposata con un musicista che è stato tre mesi in Spagna per una tourné. Mi ha spiegato che prima suo marito lavorava in una farmacia facendo il turno di notte, dove poteva anche riposare, guadagnava uno stipendio maggiore del suo che insegnava all‟università come sociologa e ricercatrice, facendo un sacco di ore e avendo molte responsabilità.

Raccontandoci le metodologie di ricerca che conosciamo, ad un certo punto mi ha confidato che, in quelle quantitative, i dati reali vengono consegnati al Ministero dell‟Educazione che decide se pubblicarli o meno. Tale scelta include anche la possibilità che le percentuali subiscano qualche variazione o semplicemente spariscano, in modo da continuare a dimostrare, ai propri cittadini e al mondo fuori dall‟Isola, il “buono” o “ottimo” funzionamento del Governo cubano e la mancanza di problemi (prostituzione, droga, suicidi giovanili, fame) che sebbene siano ogni giorno sotto gli occhi di tutti, non devono esistere, almeno finché ufficialmente non vengano dichiarati.

Sara mi disse: “Noi siamo i migliori, a Cuba non esistono violenza, droga, prostituzione; tutti sono alfabetizzati; la salute e l‟educazione sono gratuiti a differenza di altri Paesi. Questo è quello che ci sentiamo dire ogni giorno, è ciò che leggi sul Granma, è

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ciò che abbiamo imparato a dire soprattutto quando, come professionisti, andiamo all‟estero. Pensa che dobbiamo far avere al Ministero il testo scritto del discorso che faremo di fronte al pubblico straniero e solo nel caso venga accettato si può partire; se è sfuggita qualche parola critica il permesso d‟uscita viene soppresso, a meno che non si facciano le dovute modifiche: occorre che il discorso esprima la propria fierezza patriottica e riporti Cuba al primo posto nell‟America per l‟educazione, la sanità e la sicurezza”.

Anche Roberto, il ragazzo cubano che vive in Italia, mi ha raccontato questa enfasi da parte dello Stato sulla grandezza di Cuba rispetto agli altri Paesi del mondo:

I cubani crescono fin da piccoli con l‟idea inculcata che Cuba è la migliore del mondo, che fuori soffrono la fame, vi è la violenza. In TV fanno vedere i bambini africani che muoiono di fame. Mi ricordo che quando sono venuto in Italia, avevo circa dodici anni, ho fatto molta fatica a capire che l‟Italia per certi aspetti era meglio di Cuba rispetto alla libertà di parola, di espressione… Un esempio sulla forza militare: Cuba dice che è la migliore, lo mette in mostra: quei due carri armati, il camion pieno di missili, lì alla Plaza de la Revolución. E lì si fa una festa nazionale ogni anno dove tutti i cubani possono andare liberamente in piazza a vedere le armi che ha esposto Fidel: elicotteri da guerra, l‟esercito. Ti dice che questo è il meglio che c‟è nel mondo, Cuba è migliore dell‟Italia. Poi ho visto le armi e le cose all‟avanguardia che aveva l‟Italia e son rimasto di sasso, mi son smentito da solo, su una convinzione che avevo io.

Un altro esempio sul discorso dell‟essere umano come vive e come pensa: ti fanno credere che l‟essere umano cubano è migliore, che ha la scuola gratis, il solito discorso, la sanità è gratuita, tutto è gratuito. In Italia ti devi pagare i libri, le tasse per gli ospedali anche se hai un servizio migliore, il medico che viene qua vede la differenza con gli occhi e comunque continua a smentirla. Sono punti di vista diversi, per me qui vi sono alternative migliori.

Il cugino di Sara aveva problemi di tossicodipendenza e, spinta da questa situazione che la toccava da vicino, lei aveva scelto di svolgere una ricerca etnografica sulla storia di vita del parente e sull‟utilizzo di droga dei giovani cubani. Mi ha raccontato che a causa delle difficoltà economiche la droga che circola a Cuba è per lo più colla, marijuana e altri sostitutivi poco costosi (fumo, funghi allucinogeni) mescolati con alcool puro, a volte rubato in qualche ospedale, o rum a basso costo. I tossicodipendenti vengono ricoverati in ospedali non controllati dove gli stessi spacciatori vanno a trovarli, così è quasi impossibile per loro superare la fase di astinenza e di dipendenza. Lo Stato definisce tali giovani come “malati”, non drogati, altrimenti dovrebbe ammettere che esiste tale problema sociale e dovrebbe creare gli inesistenti programmi di rieducazione e di reinserimento sociale. Quando i tossicodipendenti tornano a casa, nel quartiere di sempre, fuori dalla porta ad

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aspettarli trovano i loro “amici” spacciatori che li invitano a fare ancora uso di sostanze e a ritornare nel giro della droga. La persona con problemi di dipendenza subisce una sorta di stigma sociale: non trova lavoro adeguato per il proprio titolo di studio, al massimo come spazzino, non ha diritto ad alcun sostegno statale, vive emarginata; anche per questo sono sempre più frequenti i suicidi giovanili.

Alla fine della sua ricerca Sara ha consegnato i dati ai responsabili del governo e non ha più saputo a che cosa e a chi è servito il suo lavoro di sociologa, visto che non è avvenuta nessuna pubblicazione.

Da questa esperienza Sara mi ha detto che ha imparato a scindere il cuore dalla professione, cioè ad avere un maggior distacco sentimentale nelle sue ricerche in modo da non starci troppo male del fatto che non apportino cambiamenti al sistema e la gente rimane così come è. Per questo mi ha suggerito più volte di distinguere il piano professionale da quello personale. Quando le ho chiesto un consiglio da amica oltre che da ricercatrice sul senso della mia ricerca, sul mio desiderio di “dare voce” ai giovani raccontando la complessità del vivere a Cuba, Sara mi ha risposto chiedendomi se conosco la Bibbia, e dopo averle annuito, mi ha citato la frase del Vangelo di Matteo 10, 16: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate semplici come le colombe e astuti come serpenti”. “Devi essere semplice nel tuo accostarti alla vita cubana, al parlare con le persone, a creare dei contatti, ma allo stesso tempo è importante per te essere astuta, usare la tua intelligenza e vigilare su chi scegli e di chi fidarti”. A queste parole ho abbassato gli occhi e le ho detto che ero in crisi, che mi sentivo di aver ascoltato per tanti mesi i problemi delle persone e vissuto immersa nella complessità della vita cubana, e che mi sentivo legata ai/lle cubani/e in modo viscerale, che non potevo più far finta di non vedere o una volta in Italia dimenticarmi di tutto ciò che avevo conosciuto lì. Le ho svelato che non aveva più un senso per me nemmeno la mia ricerca, perchè avrei preferito vivere con le persone piuttosto che raccontare di come loro vivono. La carriera universitaria non l‟avevo scelta per il prestigio personale ma per il desiderio di diventare una buona etnografia e dare voce a chi non ha mai la possibilità di dire qualcosa a chi sta nella “stanza dei bottoni”. La mia scelta di stare nel mondo universitario nasceva dal desiderio di creare un legame tra i “poveri”, la gente semplice e gli intellettuali (alcuni dei quali per la brama di potere dominano con il loro pensiero sugli altri facendo più danni delle bombe e dei missili).

In quel momento mi accorsi di quanto avessi veramente mescolato troppo la mia vita personale con quella professionale, ma dall‟altra parte fare un‟esperienza di impregnazione

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e di empatia con la sofferenza di un popolo non è anche giocarsi in tutto e per tutto? Forse non in modo così intenso ed estremo, ma visto che il mio tutor mi ha insegnato che l‟etnografia si impara facendola, il “fai da te” ha i suoi rischi: ho accettato di sbagliare, di soffrire, di cadere e di rialzarmi per costruire con le mie stesse mani il bagaglio pratico- esperienziale che mi mancava per diventare una buona ricercatrice. Stavo vivendo la famosa “curvatura dell‟esperienza” che ho letto tante volte nel libro L‟etnografo imperfetto di Piasere, ora non era più solo un‟intuizione ma una dolorosa ed affascinante esperienza di vita.

“La curvatura dell‟esperienza è un cambiamento di vita, porta da un ambiente noto e familiare a un altro per il quale vi è l‟aspettativa che divenga noto e familiare. Tale curvatura dell‟esperienza provoca angoscia” (Piasere 2002: 44).

L'etnografia come curvatura dell'esperienza presuppone un 'attraversamento' che rimanda allo sradicamento e allo stare tra altra gente.

È la perduzione che porta il/la ricercatore/trice a fare una vera e propria esperienza etnografica.

“La perduzione è un'acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperenziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente interiorizzati, attraverso accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti tramite un'interazione continuata” (Ivi: 56).

Nel confrontarmi con Sara sulla mia ricerca le ho chiesto se era meglio che seguissi la via informale, ma lei mi ha risposto che all‟Avana aveva più senso stare nel formale perchè vi sono professionisti più numerosi e aperture diverse rispetto a Pinar del Rio. Mi ha consegnato l‟indirizzo di un antropologo molto stimato che insegna all‟Università dell‟Avana e che collabora con sociologi e antropologi di molti Paesi dell‟America Latina e qualche europeo. Questo professore suo amico da molti anni lavora nel settore della ricerca antropologia-etnografica, è un antropologo e investigador titular (ricercatore titolare) dell‟Academia de Ciencias de Cuba, le aveva fatto da tutor e avrebbe potuto farlo anche a me in modo da acquisire maggiori competenze e metterle a disposizione anche del popolo cubano (collaborando con lui). Inoltre mi ha suggerito di andare al Centro Martin Luther King, dove oltre che occuparsi della ricerca sociale, di progetti comunitari, di sviluppo sostenibile, di temi educativi e socio-teologici, i responsabili pubblicano la rivista cubana Caminos che ha uno stile “critico” riguardo al pensiero socio-teologico (fa riferimento alla Teologia della Liberazione).

Dopo i suggerimenti di Sara, io le ho esposto le mie perplessità sugli accordi internazionali con Cuba, visto che avevo l‟agenda piena di indirizzi mail, e la mente

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ossessionata dalle immagini di visi sorridenti, di strette di mano, di occhi illuminati di speranza dei molti professori e professionisti incontrati nel mio vagare per i Centri, per le Facoltà, per le Associazioni. Tutti sognano un bel finanziamento europeo per realizzare qualche ricerca e magari avere la possibilità di fare un viaggio in Italia o in qualche altro Paese dall‟altra parte dell‟oceano.

Sara è stata una delle poche cubane che ha potuto venire per tre mesi in Italia senza incarichi professionali e mi ha colpito molto quando mi raccontava del suo incontro- scontro con la cultura italiana e come anche lei si sia sentita interrogata profondamente non solo sulle abitudini e sulla vita quotidiana, ma anche sul senso che desidera dare alla sua vita e a quella della sua famiglia.

Mi ha fatto un esempio divertente di come ciò che si dà per scontato nella propria cultura, in un‟altra assume un valore diverso: “Vedi, nei pasti di un/a cubano/a non possono mancare una patata e i fagioli, mentre per voi italiani non è possibile vivere senza la pasta o la pizza! Io non potevo immaginarmi che avrei passato mesi senza fagioli o patate!”. Quella considerazione accompagnata da una risata mi ha fatto sentire la forte empatia che si era creata tra noi, sia come donne sia come ricercatrici che hanno fatto esperienza sul campo e si sono lasciate arricchire e toccare dalla diversità culturale.

Alla fine del confronto profondo la giovane donna mi chiese se avevo altre domande da farle, ma le risposi di no perché mi sentivo satura, colma di sentimenti, pensieri, avevo perfino la nausea e non riuscivo più a capire cosa in quel momento avesse valore per la ricerca oltre che per me stessa. Le spiegai che aveva ragione nel dirmi che avevo mescolato il mio lavoro con la mia ricerca di senso di vita, e questo mi aveva condotta allo smarrimento del mio ruolo e della mia identità. Avevo bisogno di tornare in Italia per guardare le cose con maggior distacco o con altri occhi, ero stanca fisicamente per i chili persi e per la difficoltà di dormire, per il calore infernale del mese di agosto nell‟Isola, per il desiderio di parlare anch‟io con qualche persona amica che potesse capirmi e abbracciarmi. La ringraziai più volte, ci scambiammo gli indirizzi mail, le regalai una frutta bomba o papaya che tanto amava, la baciai ed abbracciai, quindi uscii dalla porta dando un ultimo sguardo a lei e alla piccola che teneva in braccio; ci siamo sorrise con gli occhi come per dirci che non ci saremmo scordate l‟una dell‟altra. Questo non è un bel finale romantico o strappa lacrime di qualche film cubano ma uno stare fino in fondo dentro al vivere l‟etnografia da donna e da ricercatrice.

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