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UNIVERSITA TRADIZIONALE

ETNOGRAFIA DI UNA RICERCA IM(POSSIBILE)

3.5 Pinar del Rio

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Figura 31 - Città di Pinar del Rio

Pinar del Rio si trova nella parte occidentale dell‟Isola, a circa 180 km dall‟Avana. Il nome significa “Pineta del fiume”, perché si trova in una delle zone di Cuba più ricca di foreste e di fiumi. Se da un punto di vista della bellezza naturale e della vegetazione Pinar è tra i primi posti come meraviglie di Cuba, a livello di sviluppo culturale scende agli ultimi gradini delle classifiche cubane. L‟antropologo Paul mi ha raccontato sui pinareños qualche aneddoto che istintivamente ho associato alle barzellette italiane sui carabinieri. Lo stesso Manera ne parla in questo modo:

“La sorte peggiore tocca forse agli occidentali estremi, i pinareños, ritenuti dagli altri goffi e sciocchi, fama naturalmente immeritata come quelle precedentemente ricordate: nel burlarsi dei propri vicini tutto il mondo è paese. Di loro si dicono cose prevedibili: che poggiano il telefono a terra perché non cada la linea, che vanno al cinema in gruppo se è vietato ai minori di diciott‟anni, che uno scheletro dietro un mango è un pinareño che giocava a nascondino e ha vinto. Per gli avanesi più crudeli, un pinareño è un orientale diretto all‟Avana che si è sbagliato ed è andato oltre” (2008: 305-306).

Sebbene l‟antropologo dell‟Avana mi avesse accennato a questa ironia sulla chiusura culturale di Pinar del Rio, non l‟avevo inizialmente presa in considerazione, perché pensavo fosse un commento da studioso delle varie civiltà e della storia passata cubana, e sinceramente ero preoccupata dei mesi di ricerca che vi avrei passato e ogni difficoltà in più mi spaventava. Solo alla fine della mia permanenza sul campo mi è tornata in mente la sua affermazione e ho compreso come quella semplice battuta nascondesse una verità profonda che avrebbe dato un imprinting alla mia ricerca. Infatti, girando per altri luoghi dell‟Isola e raccontando alle persone del motivo per cui ero lì: della ricerca e dell‟accordo internazionale con l‟Università di Pinar del Rio, tutti mi sorridevano e ripetevano: “Ma

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come mai sei andata proprio lì, è una delle zone più sottosviluppate di Cuba, dovevi andare all‟Avana: là sì che ti avrebbero aiutata per la tua ricerca!”. Per non scoraggiarmi troppo di fronte a tale scoperta fatta dopo i due mesi di inutili tentativi di svolgere la ricerca secondo il progetto iniziale, mi sono consolata dicendomi che in fondo ero l‟unica ricercatrice italiana ad occuparsi della formazione superiore presso l‟Università di Pinar del Rio, visto che tutti gli altri ricercatori/trici erano stati in quella dell‟Avana o in altre zone di Cuba, e questo avrebbe avuto sicuramente un certo valore o senso. Forse è una magra consolazione, ma ho sempre creduto nella serendipità121, accettando le cose impreviste come nuove occasioni e nuovi sguardi sulla realtà da studiare.

Gobbo scrive a riguardo:

“C'è bisogno di immaginazione durante tutta l'impresa etnografica, nel piano della ricerca iniziale, nelle negoziazione dell'accesso, nella raccolta dati e nella loro analisi. Deve esserci programmazione, ma occorre anche essere flessibili, permettersi di seguire il flusso, usare la propria perspicacia e consapevolezza per identificare il momento, il luogo o la persona serendipitosi, per aggirare agli ostacoli” (2003: 40).

Dopo questa cornice narrativa, necessaria per entrare dentro il mondo cubano e nel vivo della mia esperienza di ricercatrice, apro una parentesi metodologica per evidenziare come il trasformare i dati raccolti in un insieme di relazioni significative, il trovare i nessi tra i fatti accaduti, il cogliere il punto di vista dei nativi e metterlo in dialogo con il proprio, è il prodotto di un processo complesso di confronto con l‟altro; alcuni autori lo hanno definito “sapere della differenza” (Fabietti, Malighetti e Matera 2000: 3).

Non è possibile semplificare una realtà sfaccettata come quella cubana dove i cambi di scena sono all‟ordine del giorno, ma è necessario stare nella complessità cercando di coglierne il nesso che vi è tra i messaggi verbali e non, tra le relazioni che appaiono in un modo e poi ricompaiano in un altro, tra l‟ufficiale e l‟ufficioso. Questo è il lavoro che maggiormente mi ha “messa alla prova” non solo durante la ricerca sul campo ma anche dopo, nel raccontarla e nello scriverla. A volte mi sono sentita divisa, non in due ma in mille pezzi, non sempre sono riuscita a ricompormi e a ricomporre ciò che ho vissuto e assorbito della vita quotidiana cubana. Ho così iniziato a interpretare ciò che mi accadeva non solo all‟esterno di me ma anche all‟interno. Quando non riuscivo a trovare un senso cercavo di darglielo, non perchè ero convinta che quella fosse la verità, ma per fare un

121 “Il termine „serendipità‟ deriva dall‟antico nome con cui era conosciuta l‟isola di Ceylon, Serendip. Fu

coniato nel 1754 da Horace Walpole nel racconto „I tre principi di Serendip‟ e, nel linguaggio ordinario, indica il trovare qualcosa, non cercato e non previsto, mentre si cerca qualcos‟altro. Nel linguaggio scientifico, si parla di „serendipità‟ quando, nel corso di osservazioni empiriche, si trovano „dati o risultati imprevisti da una teoria o contrastanti con essa, ma di importanza fondamentale‟ (Il Nuovo Zingarelli Gigante, Zanichelli, Bologna 1983, p. 1777)”. Tale definizione l‟ho presa da Gobbo (2003: 35).

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passo verso di essa, in modo da poterla raggiungere dopo un lungo processo di co- costruzione dei fatti, di ciò che li attraversava e coinvolgeva anche me.

Secondo Geertz (1987) l‟uomo non può che interpretare, in tal modo agisce nei confronti della sua vita e attraverso l‟interpretazione conferisce ordine e significato all‟esperienza.

L‟antropologia interpretativa considera il testo etnografico fondamentale per descrivere e dare significato a ciò che si vive durante la permanenza sul campo, ma ancor prima che scrittura l‟etnografia è esperienza. Scrive Piasere:

“L‟etnografia è prima di tutto una pratica, un „vivere-con‟, un coinvolgimento percettivo, emotivo, affettivo, oltre che cognitivo. Non c‟è scrittura senza vivere-con, mentre è vero il contrario” (2009: 74).

Con questa sottolineatura sull‟etnografia voglio dire che anche l‟interpretazione è un passaggio naturale che non avviene solo in fase di scrittura ma durante tutta l‟esperienza di “impregnazione” di un‟altra cultura. Ė solo interpretando che a mio avviso il/la ricercatore/trice può superare il suo spaesamento culturale, i giudizi, le riflessioni sbagliate, le idee strampalate, sono tutti passaggi necessari per conoscere la nuova realtà. Per chiarire tale concetto utilizzo la metafora dello/a scalatore/trice che pone su ogni roccia un chiodo, da lì fa passare la sua corda per salire sulla parete. Allo stesso modo fa il/la ricercatore/trice, a ogni fatto che si presenta dà la sua interpretazione, avendo chiaro che solo quando arriverà sulla cima potrà comprendere e vedere tutto il percorso, e perchè no, immaginare quello che ancora lo aspetta nel caso voglia scalare un‟altra montagna.

161 3.6 L’Università di Pinar del Rio

L‟Università di Pinar del Rio Hermanos Saiz Montes de Oca prende il nome dai due fratelli Luis e Sergio Saiz Montes de Oca uccisi nel 1957 durante la dittatura batista. È l‟università più occidentale di Cuba, fondata il 20 agosto 1972. Attualmente esistono sei facoltà: Scienze Economiche, Scienze sociali e umanistiche, Informatica e telecomunicazioni, Geologia e Meccanica, Forestale e Agronomia, Agronomia di Montagna. Dalla sua fondazione si è distinta per la ricerca scientifica, aspetto che giustifica la presenza di un gruppo considerevole di dottori. Le principali linee di indagine si stanno sviluppando in Didattica dell‟Educazione Superiore (di cui si occupa il CECES), Studi Cooperativi, Amministrazione-sviluppo locale e turismo, Agricoltura sostenibile, Ambiente e Sfruttamento forestale.

Nei primi approcci al mondo dell‟università coglievo una sorta di agitazione da parte di Juan Silvio, responsabile della nostra permanenza a Pinar del Rio e negli altri professori che ci presentava nei corridoi o negli uffici universitari.

L‟unico programma chiaro concordato tra noi ricercatrici e i responsabili del CECES, prevedeva degli incontri settimanali sul sistema formativo cubano e un corso di lingua spagnola.

La mia idea di ricerca nel campo universitario si basava sugli studi di antropologia dell‟educazione di Gobbo F. (1996), Levinson B. A., Foley D. E., Holland D. C. (1996), di Brazzabeni M. (2008), Lelli S. (2007), Benadusi M. (2008), tutti/e autori/trici che hanno applicato il metodo qualitativo dell‟etnografia nei contesti scolastici. Sebbene

Figura 32 – Cartello del comune di San Juan y Martínez (provincia di Pinar del Rio) dove

vivevano i fratelli Saiz Montes de Oca Figura 33 – Monumento ai due fratelli Saiz

Montes de Oca dell‟Università di Pinar del Rio

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l‟antropologia dell‟educazione sia sorta intorno agli anni sessanta e settanta, a tutt‟oggi non vi sono molte ricerche etnografiche nel campo educativo-formativo perchè richiedono un approccio dialogico e concertato tra varie discipline: sociologia, pedagogia, antropologia, psicologia, filosofia.

Fin dal mio primo corso di antropologia con il prof. Piasere ero rimasta affascinata dall‟etnografia, metodologia che a mio avviso si sposa bene con molti altri approcci di ricerca qualitativa come ad esempio la fenomenologia (Grounded Theory); entrambe si fondano sul principio di “fedeltà” alle cose che accadono e il ricercatore/trice deve descriverle così come esse appaiono. Nel settore educativo l‟etnografia può assumere un ruolo centrale proprio per la sua flessibilità, per il suo rivelare le concezioni erronee sulle diverse culture, per il suo indagare nelle pieghe del “dato per scontato” e soprattutto per l‟ascolto e la capacità di osservazione che si richiede al/la ricercatore/trice.

Fare etnografia richiede un auto-apprendimento e un‟auto-educazione, pertanto l‟etnografo/a è anche un/a educatore/trice in quanto per primo/a si lascia educare e incontrare dall‟altro/a, dalla diversità. Scrivono Ogbu, Sato, Kim:

“Diversità, realtà, complessità sono i punti di forza dell‟etnografia, che fornisce una voluminosa base di dati descrittiva e un mezzo per comprendere la diversità e la sottigliezza nelle dimensioni di significato per i vari partecipanti” (1996: 79).

La trasmissione e l‟acquisizione culturale sono sempre state oggetto di ricerca antropologica ed oggi con la globalizzazione lo sono divenute anche da parte della ricerca pedagogica. In modo particolare l‟antropologia dell‟educazione ha cercato di addentrarsi nel contesto scolastico per comprendere come avviene la trasmissione e l‟acquisizione culturale. Tale disciplina non si occupa solo della scuola ma anche dell‟extrascuola, motivo per cui anch‟io nella mia ricerca ho cercato di slittare, come fanno i/le cubani/e tra il mondo universitario e quello della strada, della quotidianità, dell‟informalità. Per stare in questo contesto multi-situato è stato determinante mettere in dialogo non solo l‟etnografia con l‟educazione ma anche con le altre discipline sociali. La trasmissione dei valori è un tema così complesso che sembra quasi utopia, visto che qualsiasi antropologo ed educatore si chiederebbe come è possibile misurare o cogliere la trasmissione dei valori nel sistema educativo-formativo cubano? I valori non sono oggetti dai contorni chiari, definiti, certi ma rientrano in quelli “fuzzy”, “sfumati”. Ė l'indagare ciò che per sua natura non è incasellabile, quantificabile, stabile, che è tipico della ricerca etnografica, e proprio per questo l‟ho scelta come metodologia per la mia ricerca.

163 3.7 Far ricerca a Pinar del Rio

Figura 34 - Prof. Juan Silvio Cabrera

Come ho accennato nell‟introduzione, durante i tre mesi a Pinar del Rio ho dovuto cambiare più volte l‟oggetto di ricerca (riportato anche sul progetto spedito per mail alla responsabile del CECES prima della partenza), per tutte le vicende e i cambi di scena intercorsi durante tale periodo. Questa continua reimpostazione dell‟oggetto di ricerca in parte dovuta al mio atteggiamento serendipitoso e in parte alla poca chiarezza di attuazione dell‟accordo internazionale tra l‟Università di Verona e quella di Pinar del Rio, mi ha costretta ad assumere una postura camaleontica o almeno così mi sentivo, per adattarmi alle modalità propostemi dai/lle professori/resse con i quali mi relazionavo. Questa elasticità poteva sembrare un “non prendere posizione”, ma io la consideravo l‟unica possibilità per svolgere, in quel contesto, una ricerca etnografica. Lasciarmi raggirare avendo chiaro il mio obiettivo di conoscenza e di impregnazione era l‟unico modo per scardinare il sistema o meglio conoscerlo da dentro e vivere io stessa le contraddizioni o le schizofrenie che i/le cubani/e sono ormai soliti affrontare ogni giorno. Reimpostare la ricerca non era difficile solo da un punto vista professionale, ma anche personale. Scrive Mortari a riguardo: “Il metodo, proprio perchè inteso come apertura al nuovo, richiede una trasformazione non solo del pensare ma anche del sentire” (2006: 69).

Dal tema dell‟Universalizzazione sono passata alla figura del tutor in Università (focus delle interviste semi-strutturate fatte agli/lle studenti/tesse), successivamente per collaborare con la sociologa Belkis che si occupa degli studi sulla famiglia e sugli adolescenti, pensavo di affrontare la formazione integrale del/la giovane (rapporto tra università-giovani-famiglia) e alla fine me ne sono tornata a casa con l‟idea di presentarmi

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successivamente all‟Università di Pinar del Rio e affrontare la trasmissione generazionale dei valori.

“Quando facciamo ricerca portiamo sempre con noi la nostra „casa‟, nel nostro background, nella nostra educazione, nella nostra posizione sociale. Sia i ricercatori che i ricercati incarnano il nesso che la schiavitù, il colonialismo e i più recenti flussi di globalizzazione hanno generato, e che determinano lo spazio di incontro. A questa realtà ci si deve accostare cambiando continuamente i temi della ricerca, adattandoli per quanto è possibile alle mutate questioni metodologiche che emergono durante il lavoro sul campo e nel percorso della scrittura” (Schramm 2009: 185).

I continui cambi di scena non riguardavano solo l‟oggetto della ricerca, ma erano peculiarità di ogni situazione e relazione all‟interno dell‟Università e a volte dei contesti informali. Cercherò di fare capire al lettore come la mia permanenza a Pinar del Rio sia stata una sorta di ubriacatura di vita cubana dove ogni giorno capitavano le cose più impensate, ribaltate, dissimulanti. Ho provato più volte a tessere la trama del racconto delle vicende universitarie e ogni volta mi sono trovata in una ragnatela: non ero la tessitrice ma quella che vi era rimasta impigliata, spaventata e in attesa che qualcuno venisse a liberarmi. Per essere fedele a questo vissuto, ho cercato di rendere semplice il complesso dando una parvenza di linearità al racconto, ma chiedo al lettore di indossare gli occhiali colorati che rendono le parole, i concetti e le immagini tridimensionali o meglio multidimensionali, e seguirmi nel racconto “incarnato”.

Prima di narrare i singoli fatti desidero mostrare lo sfondo, gli usi e i costumi dei protagonisti.

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L‟edificio dell‟Università è una costruzione in cemento di quattro piani, pieno di piccole finestre per far passare la poca aria che circola dopo i temporali tropicali. In ogni ufficio, aula, stanza, non possono mancare il ventilatore elettrico, qualche sedia di legno e una bottiglia d‟acqua, oggetti indispensabili per sopravvivere al grande calore. Nelle sale dei convegni, come nei cinema, nei teatri e negli ambienti pubblici coperti, vi è un vecchio condizionatore di fabbricazione russa che oltre al rumore infernale produce un freddo glaciale. Ma questa caratteristica poco piacevole per noi occidentali che dobbiamo sempre girare con maglie a maniche lunghe pronte all‟uso nella borsa o nello zaino, per i cubani è motivo di grande orgoglio perché in grado di garantire l‟accoglienza in un ambiente fresco o meglio freddo.

I/le professori/resse hanno quasi tutti un ufficio con un tavolo di legno, un computer fisso, un ventilatore, pezzi di carta su cui scrivere e una penna. A nessuno può mancare una pendrive nella quale hanno memorizzato lezioni, presentazioni delle loro ricerche, documenti e libri digitali, visto che stamparli costa troppo e la carta a Cuba è un bene prezioso. Quindi di necessità si fa virtù e Cuba è molto più all‟avanguardia rispetto all‟Italia da questo punto di vista, infatti anche la biblioteca centrale dell‟Avana ha un archivio digitale che contiene non solo numerose tesi di laurea e di dottorato ma anche moltissimi libri e documenti. Basta una semplice chiavetta USB per portare a casa testi e libri di studio.

Gli abiti dei professori sono molto semplici ma sempre ben puliti e poco stirati: pantaloni lunghi con cintura, camicia o una maglietta con colletto; alcuni indossano un

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orologio, un anello placato oro e con una pietra rossa, oggetto maschile di gran moda a Cuba, un braccialetto di argento o di metallo.

Le professoresse portano quasi tutte gonne, canottiere o maglie colorate, sandali, orecchini, qualche collana e qualche anello.

Gli/le studenti/tesse universitari/e, a differenza di tutti gli altri gradi scolastici, non indossano una divisa ma vestono i loro abiti: pantaloni lunghi, camicia o maglietta e scarpe da ginnastica per i ragazzi, minigonna, canotta e sandali per le ragazze.

Al mattino molti professori arrivano in bicicletta, mentre le professoresse con il bicitaxi o a piedi, riparate dal sole dai loro ombrellini.

Figura 37 – Professori/resse dell‟Università di Pinar del Rio

Questa breve descrizione mi permette di far capire che uno/a straniero/a a Cuba si nota subito proprio per i suoi gioielli, per i tessuti degli abiti che indossa, per le scarpe di vera pelle, per gli accessori: ombrelli, impermeabili, zaini, occhiali e portaocchiali, accendini, cinture, insomma tutto ciò che appare chiaramente non cubano, appartenente al mondo capitalista.

A volte non sopportavo di essere l‟“europea” venuta a conoscere un Paese dell‟America Latina, facendo un sacco di domande e mostrando la difficoltà di adattarsi alla scarsa igiene, alla mancanza di varietà nel cibo e di acqua nei bagni, alle regole diverse del vivere e del sistema che includevano sacrifici, difficoltà e disagi vissuti raramente nei miei trentaquattro anni di vita in Italia. In un certo senso mi sentivo discriminata al contrario o come scrive Schramm, “a disagio nella propria pelle” (2009: 190); non potevo passare in nessuno modo per “povera”, dovevo stare sempre nel mio ruolo di “ricca” occidentale,

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sebbene ciò in Italia non mi corrisponda. Ma è chiaro che qualunque italiano/a povero/a, a Cuba è un/a ricco/a occidentale che può permettersi una birra di un euro o un paio di scarpe da trenta euro, prezzo corrispondente allo stipendio di un docente universitario o di un medico specialista.

Altre volte percepivo che per il solo fatto di essere una ricercatrice mi veniva assegnata l‟immagine di “spia” che doveva essere tenuta d‟occhio non solo all‟interno dell‟Università ma anche per le strade della città. Più volte il prof. Juan Silvio mi ha avvisata che sarebbe stato meglio riferirgli quando mi spostavo in altre città o facevo qualche gita perché così potevo essere maggiormente “protetta”; successivamente mi ha confessato che così i responsabili del governo che mi avevano rilasciato il carnè de

identidad (carta di identità) sapevano sempre dov‟ero e cosa facevo, in pratica volevano

sapere in che veste giravo per il Paese, se come ricercatrice-spia o come turista portatrice di denaro.

“La mia ricerca si era svolta in uno scenario istituzionale che prevedeva lo spazio per una varietà di discorsi conflittuali. Così come la gente che era parte di quel campo non costituiva un tutto omogeneo, allo stesso modo non era omogenea la mia percezione di me stessa e del mio ruolo all‟interno di quel settore, una percezione complessa e mai fissa. Gli incontri che ho descritto erano eccezionali, ma furono allo stesso tempo centrali per la mia ricerca. Mi portarono a rimettere in questione il fondamento, la legittimità stessa del mio progetto” (Schramm 2009: 194).

Anch‟io come l‟antropologa Schramm a un certo punto ho rimesso in discussione il mio progetto di ricerca e mi chiedevo che senso avesse stare nel campo istituzionale dell‟Università cubana dove ricevevo solo lezioni, tutte più o meno uguali e una serie di materiali digitali sulle ricerche cubane costruite attorno agli eroi della patria, principalmente José Martí.

Ho riportato questo mio passaggio di frustrazione, di maturazione e di trasformazione dopo la presa di coscienza dei miei limiti. Da tale momento ho iniziato a reimpostare la ricerca e la mia postura di ricercatrice.

Quasi mi vergogno oggi a inserire questa parte del diario di ricerca perchè anche questo