III. Le memorie di Victor Serge
III.II Il pericolo era in agguato: le basi per la nascita del totalitarismo
«Quel sentimento del pericolo interno, del pericolo che era in noi stessi, nel carattere e nello spirito del bolscevismo vittorioso, devo dire che lo avevo a un grado acuto. Ero continuamente lacerato dal contrasto tra la teoria ammessa e la realtà, dall’intolleranza crescente, dal servilismo crescente di molti funzionari, dalla loro spinta verso il privilegio»15.
Cominciava ad essere sempre più chiaro come la stampa e la propaganda venissero manipolate per accusare i bianchi e come parallelamente aumentasse il desiderio di servilismo dei capi, sempre più compiaciuti dei loro privilegi e della loro posizione16.
Vedevo nella formazione, parimenti ineluttabile, del nuovo Stato rivoluzionario che cominciava a rinnegare tutte le sue promesse iniziali, un immenso pericolo. La Stato mi appariva come uno strumento di guerra e non di organizzazione della produzione. Tutto si compiva sotto pena di morte; giacché la disfatta sarebbe stata per noi, per le nostre aspirazioni, per la nuova giustizia annunciata, per la nuova economia collettiva nascente, null’altro che morte17.
13 Ivi, p. 124. 14 Ivi, p. 119. 15 Ivi, p. 128. 16 Ivi, pp. 117-129. 17 Ivi, p. 130.
57 La grandezza morale e intellettuale dei bolscevichi e la loro convinzione nella causa della rivoluzione, soprattutto in un mondo in cui il capitalismo stava dimostrando di non essere all’altezza delle sue promosse, ispiravano fiducia. Nonostante ciò, il loro continuo desiderio di potere e di vittoria era incompatibile con la realtà socialista e cresceva sempre di più in un’atmosfera di terrore e inumanità. Cominciava ad accrescere la necessità per il socialismo di difendersi non solo dai nemici esterni e dagli imperialismi, ma anche dalle reazioni e dalle controrivoluzioni che la rivoluzione inevitabilmente provocava. Era venuto a mancare il senso di critica e di opposizione, fondamentale al partito per metterlo in guardia dai propri abusi e dai propri eccessi18.
Nel 1920 l’obiettivo era la realizzazione del socialismo: la totale nazionalizzazione della società e l’eliminazione dell’economia di mercato. Fasi inevitabili di questo percorso erano l’estrema concentrazione di tutte le risorse economiche nelle mani del partito e l’estremizzazione dell’economia di guerra. Per la costruzione del comunismo in questo senso, l’ideologia non era più sufficiente. Era necessario l’uso della violenza e della coercizione, la militarizzazione dell’intera società e il sempre maggior accentramento di potere nelle mani del partito comunista, ovvero l’imposizione del cosiddetto «comunismo di guerra».
«Il «comunismo di guerra» poteva definirsi così: (1) requisizione nelle campagne; (2) razionamento implacabile della popolazione delle città, divisa per categorie; (3) «socializzazione» completa della produzione e del lavoro; (4) ripartizione burocratica estremamente complicata degli ultimi depositi di articoli manufatti; (5) monopolio del potere, con tendenza al partito unico e al soffocamento di ogni dissidenza; (6) stato di assedio e Čeka19».
I razionamenti e le requisizioni imposti con la costrizione e la violenza, aumentavano il malcontento generale e l’accentramento del potere politico vietava qualsiasi opposizione e critica. I soviet avevano perso qualsiasi potere ed erano diventati strumenti nelle mani del partito, che controllava ogni aspetto della vita e si imponeva sempre di più con lo stato d’assedio, mirato a soffocare le tensioni crescenti20.
18 Ivi, pp. 129-130.
19 Ivi, cit., p. 133. 20 Ivi, pp. 134-135.
58 Le conseguenze di tale regime erano disastrose: le razioni distribuite dalle cooperative erano misere, l’assenza di beni spingeva verso il mercato nero e di conseguenza verso la criminalità. L’inverno e la carestia facevano il resto.
La militarizzazione dell’economia fu una scelta consapevole del partito e non era considerata una misura estrema, bensì veniva vista come lo strumento per realizzare il socialismo. Una simile economia però, non poteva funzionare: la gente moriva di fame, le rivolte si accendevano ovunque e conseguentemente aumentava la violenza contro la popolazione, che era vista dai quadri del partito come qualcosa di ostile che andava piegato utilizzando la violenza.
La violenza sulla propria popolazione, e non su nemici esterni, fu un tipico elemento di tutta la politica sovietica, ma in quel contesto fu chiaro che non si poteva continuare a danneggiare le proprie risorse già affaticate dalla fame, perché sarebbe stato controproducente per l’economia.
Secondo Graziosi, la militarizzazione e il comunismo di guerra sono un derivato dell’assetto che tutte le economie nazionali hanno assunto durante la Grande Guerra. Da quest’ultima sarebbe derivata inoltre l’estremizzazione degli strumenti di controllo dell’economia, che ha fornito ai bolscevichi la matrice di tutte le scelte economiche e politiche successive, ad eccezione della sopra descritta Nep21.
Altra conseguenza della prima guerra mondiale era l’esposizione al potenziale distruttivo dei nuovi strumenti del conflitto: le armi e la violenza erano diventati elementi della quotidianità.
Come ha rilevato lo storico George L. Mosse, la Grande Guerra, fu una guerra senza precedenti che provocò enormi cambiamenti nelle società europee. L’esperienza di guerra e l’adozione di comportamenti estremi divenne la matrice delle trasformazioni politiche degli anni successivi. Era avvenuta infatti una brutalizzazione della politica che aveva assunto le dinamiche del campo di battaglia. L’avversario politico veniva assimilato a nemico esterno e per preservare la compattezza della nazione e lo scopo superiore che era la vittoria della rivoluzione, era necessario combattere i nemici e gli oppositori interni come nemici di guerra22.
21 A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa, 1905-1956, cit., pp. 35-64.
22 G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, (1990), tr. it. G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 147.
59 Il regime politico del partito non ammetteva alcun elemento di critica e chiunque non dimostrasse di avere una mentalità bolscevica veniva considerato un bianco e veniva messo fuori legge. Bisognava creare una mitologia ufficiale a cui credere pienamente e con la quale giustificare i propri atti, anche criminali. Come ha sostenuto il filosofo politico tedesco Carl Schmitt, il nemico veniva considerato come un criminale, un nemico dell'umanità contro il quale qualsiasi mezzo era lecito23.
Secondo le parole dello scrittore Gor’kij: «Il carattere del popolo russo, formato dalla resistenza e dalla sottomissione al dispotismo, implica un complesso antiautoritario, cioè un elemento potente di anarchismo spontaneo, che, nel corso della storia, determinò esplosioni periodiche»24.
I contadini erano stanchi della guerra civile, delle requisizioni e dei dispotismi di partito, gli operai chiedevano maggiori libertà per i sindacati e una migliore organizzazione del lavoro e in generale la popolazione era stanca del fatto che la violenza della Čeka fosse sempre in agguato 25.
Le tensioni scoppiarono nel 1921 con la rivolta dei marinai di Kronštadt. La rivolta proveniva dalla ribellione dei bianchi e dal malumore dei contadini, che stanchi per la fame, si organizzavano in scioperi. Ma anche la maggior parte dei comunisti si era unita al movimento e questo era indice di quanto la base del partito fosse instabile. I marinai e i contadini, una volta sostenitori del bolscevismo, erano ora insoddisfatti del comunismo di guerra, e chiedevano riforme al partito, tra le quali libertà di parola per tutti i partiti, liberazione dei prigionieri politici rivoluzionari, abolizione della propaganda ufficiale e cessazione delle requisizioni nelle campagne.
Il tentativo del partito di sfruttare un tipico meccanismo di guerra (e secondo le parole di Serge del totalitarismo), ovvero il tentativo di controllare in maniera autoritaria gli strumenti dell’informazione, danneggiò profondamente la sua immagine: dichiarando che la rivolta di Kronštadt era opera dei controrivoluzionari, mentiva ufficialmente al suo popolo.
Tuttavia, abbandonare il partito non sembrava comunque la soluzione, perché restava in qualche modo l’unica gande forza organizzata.
23 Carl Schmitt, Il nomos della terra, (1950), tr. it. Emanuele Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 136. 24 V. Serge, Memorie, cit., p. 137.
60 Kronstadt, dimostrazione delle volontà e della sofferenza del popolo russo, portò Lenin a proclamare la fine del comunismo di guerra e a inaugurare la nuova politica economica, per riottenere il supporto delle masse26.
La Nep aveva riportato un po' di serenità, attenuando la carestia, eliminando le requisizioni e ristabilendo la libertà di commercio e d’impresa, ma parallelamente la linea politica diventava sempre più dura, continuava a non esistere alcuna libertà politica, di parola e di pensiero e le violenze e il terrore della Čeka continuavano.
«Eravamo, in verità, già quasi schiacciati dal nascente totalitarismo. La parola «totalitarismo» non esisteva ancora. La cosa ci si imponeva duramente senza che ne avessimo coscienza. Io appartenevo all’infima minoranza che se ne rendeva conto»27.
Le idee del 1917 con cui il partito bolscevico aveva convinto le masse, i contadini, gli operai e l’intelligencija, non c’erano più, mentre ora c’erano solo il monopolio del partito, la Čeka, che ricordava la tanto odiata polizia politica segreta degli zar e la militarizzazione dell’economia. L’ideologia marxista del partito era diventata totalitaria, in quanto mirava a trasformare e controllare interamente la società, dall’organizzazione del lavoro alla vita privata28. Il rafforzamento della Čeka e la repressione utilizzata per spegnere la rivolta dei marinai, invece di istituire regolari processi, furono individuate da Serge come gravi errori incompatibili con il socialismo, che favorirono lo sviluppo del totalitarismo staliniano.