• Non ci sono risultati.

Un pericolo per l'esistenza e lo spirito della truppa. Processo della Leitkommandantur

Capitolo IV – Processi nei confronti di soldati dell'esercito tedesco

1. I processi militari

1.12 Un pericolo per l'esistenza e lo spirito della truppa. Processo della Leitkommandantur

B. era nato a Brema il 15 agosto del 1925, ed era figlio unico di un imbianchino. Dopo aver frequentato la scuola e aver imparato la professione di panettiere era entrato nell'esercito alla fine di agosto del 1943 ed era stato impiegato sul fronte orientale in azioni contro le formazioni partigiane. Inquadrato in seguito nella 61ª Infanterie-Division era stato condannato dal tribunale di questa divi-sione a un anno e sei mesi di carcere in quanto si era reso responsabile di allontanamento non auto-rizzato dopo che la sua richiesta di tornare sul fronte orientale gli era stata negata369.

Dopo questa condanna era stato così inviato nelle fila della 3ª compagnia del Grenadier-Regiment (mot) 200, perché potesse riscattarsi prestando servizio al fronte.

Il 15 ottobre 1944 tra le 23 e le 23.45 aveva però abbandonato il posto di guardia nel quale prestava in quel momento servizio, quattro km circa a est di Cesena, in località San Lazzaro, sulla via Emilia.

Dopo la sua fuga era stato arrestato a Vigevano ad inizio novembre da un reparto della Feldgendar-meria 513 e condotto in carcere a Milano.

B. aveva dichiarato di aver sfruttato diversi passaggi per recarsi fino a Vigevano. In quel paese aveva anche rubato tre biciclette, poi rivendute ad altrettanti civili italiani. Il motivo per cui si era

368 Peter Kalmbach, Wehrmachtjustiz, cit., pp. 153-160. 369 BA-MA, Pers 15/122115.

allontanato dalla sua formazione, sosteneva, era il cattivo trattamento che il sergente M. aveva tenuto nei suoi confronti; quando quest'ultimo aveva saputo che B. era stato mandato lì per scontare una punizione disciplinare, il sergente M., sempre secondo l'accusato, aveva ordinato che doveva quindi essere impiegato per compiti particolari, mandandolo così ogni sera a prendere il cibo e le munizioni.

M., interrogato, ribatteva che l'accusato si era sempre comportato in modo corretto durante il servizio militare, e che quindi non avrebbe avuto alcun motivo di trattarlo male o in modo differente rispetto al resto dei soldati, tanto più che B. non aveva in un primo momento raccontato di esser stato mandato in quella compagnia per riscattare la sua prima condanna; anche gli altri compagni di B. erano concordi nel confermare come egli fosse un bravo soldato, e come nei suoi confronti non fosse stato tenuto alcun atteggiamento particolare.

Il caporale M. S. riferiva che B. gli aveva chiesto se per andare nelle salmerie servisse un certifi-cato, e si era anche interessato su dove fossero le zone partigiane più grosse, domanda alla quale gli era stato risposto che si trovavano probabilmente nei dintorni delle zone montuose e di confine. Durante l'interrogatorio B. contestava l'accusa di aver portato con sè diverse armi sottratte ai compagni, mentre confermava di aver rubato e rivenduto tre biciclette per mantenersi con i soldi ricavati; affermò anche di non aver mai avuto l'intenzione di sottrarsi per sempre ai suoi doveri mili-tari, e ciò a suo dire era confermato dal fatto che non aveva cercato di procurarsi abiti civili.

B. venne condannato a otto anni di Zuchthaus e alla perdita della dignità militare, perché era stato riconosciuto colpevole di allontanamento non autorizzato, di aver abbandonato il proprio posto di guardia, di furto militare e di furto. Non venne giudicato colpevole di diserzione perché aveva tenuto, fino al momento della sua fuga, un ottimo comportamento, e riprova ne era il buon giudizio che i compagni avevano su di lui; inoltre non aveva cercato di camuffarsi con abiti civili. Nella motivazione della sentenza si legge anche che nei confronti della corte l'accusato non aveva dato una cattiva impressione e si poteva ritenere che che il suo comportamento fosse stato un'azione impulsiva, causata da un momento di irrazionalità giovanile; non aveva saputo affrontarne le conse-guenze, perché gli mancava il coraggio di affrontare la prospettiva della pena.

La constatazione però che egli si fosse reso responsabile per la seconda volta di abbandono della formazione nella quale prestava servizio metteva in luce una forte mancanza di volontà di inquadra-mento, che poteva essere ripristinata solamente tramite severi provvedimenti.

La sentenza si concludeva osservando che, essendo in corso il sesto anno di guerra, ogni singolo soldato era strettamente necessario al fronte; l'allontanamento non autorizzato significava senz'altro un grosso pericolo per l'esistenza e lo spirito della truppa ed era questo il motivo per cui il suo comportamento era stato punito con la pena della Zuchthaus e non della semplice prigione.

1.13 “Sparate bene. Io ero disposto a combattere e morire per la Germania”. Processo della Leitkommandantur di Milano

Anche il granatiere di 22 anni M.J., appartenente alla 13ª compagnia del Grenadier-Regiment (mot) 200 (90ªPanzer-Grenadier-Division), nato il 17 febbraio 1923 a Holz, nelle vicinanze di Saar-brücken fu vittima della giustizia militare tedesca370.

M. venne arrestato il 23 novembre del 1944 dalla Wehrmachtstreife a Torino perché sospettato di allontanamento non autorizzato. Trasferito al carcere della Wehrmacht di Milano, il 3 gennaio era stato interrogato dalla Feldgendarmeria.

Studente nella vita civile, M. era entrato nell'esercito il 20 giugno 1941.

Prima del suo arresto a Torino aveva già subito delle punizioni disciplinari: dai tre ai cinque giorni di arresto per negligenza in servizio, mentre il tribunale della 90ª Panzer-Grenadier-Division l'aveva condannato a due anni di prigione per non aver rispettato i compiti di guardia. M. era stato così incarcerato a Friburgo ma in aprile era stato aggregato alla 3ª compagnia del Feldstrafegefangenen

Abt. 13 (una formazione nella quale venivano impiegati soldati tedeschi colpevoli di specifici reati,

quali diserzione, allontanamento non autorizzato, disfattismo, omosessualità)371 nel settore centrale del fronte orientale. Ammalatosi di malaria, era stato curato presso l'ospedale militare di Breslavia, dove era riuscito a procurarsi un nuovo Soldbuch, dichiarando però l'appartenenza non più al

Feld-strafgefangener, nel quale non voleva più prestare servizio, bensì al suo precedente reparto di

granatieri. In quel modo era così riuscito a essere autorizzato a raggiungere il reggimento che si trovava in quel momento a Lendinara (Rovigo).

Una volta arrivato in Italia aveva però deciso di fermarsi a Milano in compagnia di altri camerati e di alcune ragazze. Il 4 ottobre era stato arrestato sulla strada che da Milano portava a Magenta, dopo che aveva fermato un civile italiano con l'intenzione di sequestrargli la bicicletta per rivenderla. Condannato ad un totale di 6 mesi di carcere, M. era stato comunque rilasciato dalla prigione l'11 novembre, con l'ordine di recarsi presso la Frontleitstelle di Verona (un ufficio dell'esercito addetto ad organizzare gli spostamenti dei soldati) per ricevere nuovi ordini. Ancora una volta aveva però preso la decisione di fermarsi a Milano in compagnia di un altro soldato rilasciato insieme a lui; con le 1000 lire che possedeva aveva frequentato diversi locali, si era ubriacato e il giorno dopo si era risvegliato senza più trovare il suo compagno. Resosi conto di aver perso anche l'ordine di marcia, era tornato in uno dei locali visitati la sera precedente per cercarlo, ed aveva così ritrovato anche il suo compagno. I due si erano trattenuti fino al 16 novembre a Milano, quando poi, sfruttando alcuni

370 BA-MA, Pers 15/121387.

passaggi, si erano recati a Torino (dove il compagno di M. voleva incontrare una sua conoscente) dopo aver pernottato alcune notti presso una caserma italiana.

Anche lì avevano frequentato un locale e avevano incontrato un italiano, col quale M. si era spac-ciato per ufficiale, che aveva dato loro alloggio e nel cui appartamento erano stati arrestati, nono-stante M. avesse tentato di sottrarsi all'arresto nascondendosi in un armadio, vestito solo di mutande e camicia.

Il processo condotto dalla Leitkommandantur di Milano nei suoi confronti si aprì il 25 gennaio 1945 e mise in luce come lo stesso M. a Milano aveva goduto dell'appoggio di una ragazza, presso la quale aveva anche dormito quando il padre di questa era in viaggio.

M., sostenne il tribunale della Leitkommandatur di Milano per giustificare la condanna a morte, non aveva raggiunto come soldato alcun grado di servizio e non si era particolarmente distinto. Era un soldato chiuso, non sincero, impreciso nei compiti: un cattivo soldato, con un comportamento insuf-ficiente e che dimostrava poca applicazione.

La corte sottolineò anche alcuni altri elementi. Innanzitutto il fatto che l'accusato, dopo il periodo di cure a Breslavia, avesse evitato di tornare sul fronte est, per non trovarsi coinvolto sul fronte di guerra; si metteva anche in dubbio che egli fosse realmente intenzionato a riunirsi al suo precedente reggimento di granatieri.

M. aveva in modo inappropriato indossato la divisa di un sottufficiale, convinto che con quello stra-tagemma avrebbe subito meno controlli durante i suoi spostamenti.

Si era così reso responsabile di diserzione già quando il 22 agosto del 1944, rilasciato dal lazzaretto di Breslavia, si era fatto inviare in Italia invece che sul fronte dell'est, mentre per il suo comporta-mento successivo in Italia era giudicabile “unicamente” per allontanacomporta-mento non autorizzato e furto, reati che però la corte riteneva fossero diventati una parte fondamentale del suo reato di diserzione; si era comportato in modo criminale nel tentativo di furto della bicicletta, e non aveva mai cercato di riprendere il suo dovere di soldato e unirsi a una qualsiasi formazione dell'esercito.

M. venne così condannato a morte per diserzione e alla perdita della dignità militare; quando gli fu chiesto se volesse dire qualcosa a sua discolpa egli sostenne che non aveva intenzione di allonta-narsi per sempre dal servizio militare, e pregò, per riscattarsi, di essere incaricato di compiti partico-larmente pericolosi, come ad esempio in servizio sul “Torpedo Neger”, sottomarino guidato da un uomo solo.

Nella richiesta di grazia compilata il giorno stesso della sentenza di condanna il difensore dell'accusato affermava che la pena di morte non appariva sostenibile né dal punto di vista legale né dal punto di vista di come si erano svolti i fatti.

In particolare ad essere contestati erano i giudizi espressi sul suo comportamento militare e sulle sue caratteristiche personali.

Uno dei primi punti a venir criticato era il carattere “rieducativo” del Feldstrafgefangenenabteilung. A differenza di quanto sosteneva il tribunale militare, la difesa di M. affermò che coloro che erano impiegati in quel reparto non erano utilizzati per compiti al fronte o di di guerra, ma erano più che altro trattati come prigionieri in Lager, chiusi dietro un reticolato, impiegati in lavori di fatica come il taglio della legna e sotto costante controllo;

“è perlomeno discutibile che in questo reparto disciplinare possa ancora oggettivamente vedersi il compi-mento del dovere di soldato. Il dovere militare è un dovere d'onore, il suo compicompi-mento si basa su un rapporto di fiducia tra soldati e comandanti. Richiede autodisciplina e devozione volontaria al servizio e al dovere”,

affermò il caporale difensore di M.

Ciò non era stato possibile però per l'accusato, che era stato escluso da compiti armati, ma stava per lo più egli stesso sotto il controllo armato, e veniva trattato come un prigioniero. In queste condi-zioni, si proseguiva, era inimmaginabile scorgere il proprio dovere di soldato, e anche quando l'appartenenza in sé all'esercito continuava a sussistere, allontanarsi da questa condizione era una scelta che non poteva essere definita come diserzione: l'intenzione di M. non era stata infatti quella di sottrarsi al servizio militare bensì piuttosto alla punizione che gli era stata data.

A conferma di ciò stava anche il fatto che si fosse diretto in Italia, per riunirsi alla sua vecchia formazione; era comprensibile che, per il timore di essere rimandato subito indietro al reparto disci-plinare, non si fosse recato subito presso la sua formazione, ma che avesse aspettato l'occasione migliore per dare credibilità al suo ritorno.

A suo favore doveva anche essere valutato il fatto che non aveva mai abbandonato la sua uniforme, e questo non tanto per mischiarsi con la massa dei soldati ed eludere meglio i controlli, in quanto il difensore sosteneva che sarebbe sicuramente stato più conveniente per lui, se avesse avuto l'inten-zione di sottrarsi definitivamente al servizio militare, indossare abiti civili e nascondersi ai controlli tedeschi, cercare rifugio in Svizzera o unirsi ai partigiani.

Veniva contestava anche la valutazione del tribunale, secondo la quale l'accusato era perfettamente capace di valutare le conseguenze delle sue azioni.

La difesa ricordava infatti che M. era entrato già a 18 anni nella Wehrmacht, e la sua unica educa-zione era stata quella scolastica. Gli mancavano alcune conoscenze di vita, ed in particolare di vita militare, e ciò era dimostrato anche dal fatto che aveva già commesso alcune infrazioni disciplinari; sembrava così aver recepito il servizio militare come un proseguimento dell'educazione scolastica. Nonostante il suo aspetto fisico desse l'impressione di una persona adulta e matura, non si potevano sulla base di ciò trarre considerazioni sulla predisposizione mentale dell'accusato. Il suo modo di

portare la barba e le basette facevano pensare ad un ragazzo non ancora maturo e che necessitava di mettersi in mostra. In fase di processo non si erano potute stabilire a fondo le sue capacità mentali, perché non si erano affrontati discorsi molto rilevanti; anche il fatto che si fosse ammalato di malaria andava valutato a suo favore, anche se non era possibile stabilire se la malattia avesse avuto qualche conseguenza sulle sue capacità mentali.

La valutazione della difesa si concludeva affermando che, anche nel caso in cui si fosse voluto comunque condannare M. per diserzione, questo non si meritava la pena di morte, non avendo egli agito per vigliaccheria, non avendo messo in pericolo la vita di altri soldati e non avendo arrecato altri svantaggi alla sua formazione. La richiesta era quella quindi di convertire la pena di morte in una pena detentiva, tenendo anche conto del fatto che l'accusato stesso aveva fatto richiesta di riscattarsi al fronte.

Queste richieste vennero però rigettate sulla base del fatto che M. fosse un “cattivo soldato”, già in precedenza punito disciplinarmente, e che si era allontanato dalla sua formazione anche dopo il suo primo rilascio. Questo significava secondo il general maggiore Wening che M. non era in grado di migliorarsi. Il verdetto venne così confermato anche dal giudice capo presso il Comandante supremo delle SS e della polizia in Italia e dal Generale plenipotenziario della Wehrmacht in Italia, Wolff.

Il 6 marzo si stabilì che M. sarebbe stato fucilato nel cortile della caserma di artiglieria di Milano; le operazioni sarebbero state guidate dal capitano Starost, comandante della 2ª compagnia del Trans-port- Sicherungs-Abteilung 606. Dal momento in cui M. avrebbe appreso della sua condanna a morte al momento dell'esecuzione sarebbero dovute passare non più di due ore. Informato di ciò il 10 marzo 1945, alle 4.30 di mattina, alle 6.30 di quella stessa mattina M. si trovava legato ad un palo e con gli occhi bendati. Di fronte a lui, a cinque passi di distanza un plotone formato da un maresciallo e dieci uomini. L'ordine di sparare venne dato alle 6.34, alle 6.38 l'ufficiale sanitario constatò la morte di M., le cui ultime parole erano state: “Sparate bene. Io ero disposto a

combat-tere e morire per la Germania”.