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2.2 L’origine storica del possesso 1 Il possesso e ager publicus

2.2.1.3 Il possesso dell’ager publicus

Per quanto appena detto, si è già capito che sull’ager publicus i cittadini privati non potevano esercitare il dominium, che sempre apparteneva al populus Romanus. Però, per certi versi, la signoria di fatto, cioè il possesso, poteva essere ottenuta anche dai privati. Gai.II, 7 "in eo solo dominium populi romani est vel Caesari, nos autem

possessionem tantum vel usumfructum habere videmur". Con questo possesso, i

privati potevano occuparsi dell’attività produttiva agricola o pascolativa, che svolgeva una parte essenziale nell’economia romana.

Il possesso dell’ager publicus, rispetto agli altri tipi di possesso, aveva due caratteri evidenti, cioè la tendenziale perpetuità e stabilità. Le ragioni di ciò sono varie. In alcuni casi, ad es. il possesso dell’ager occupatorius, pare che la mancanza dei

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Nicosia, G., Il possesso, Catania, 1997, p.97

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limiti temporali fosse connaturata agli stessi presupposti su cui si basava l’esercizio del godimento e della possessio. In altri casi, sembra che nell’atto della concessione fosse prevista la perpetuità del rapporto. Oppure il termine previsto era molto lungo (fino a cento anni), e attraverso il consolidarsi della prassi del rinnovo più o meno automatico si era ugualmente arrivati, sostanzialmente, al perpetuarsi del rapporto.

Teoricamente, il rapporto era sempre risolvibile per revoca da parte degli organi competenti della res publica, almeno quando venivano meno i presupposti o le condizioni in base a cui il godimento e possesso dell’ager publicus erano stati permessi o formalmente concessi: così, ad esempio, avveniva per l’ager occupatorius, quando veniva a mancare l’effettivo e regolare sfruttamento agricolo o pastorale dell’ager, che era il presupposto in base a cui ne era stata permessa l’occupazione e che ne giustificava la condizione del possesso; e lo stesso avveniva la revoca in tutti i casi in cui vi era stato un atto formale di concessione, ma non venivano poi rispettate le condizioni del possesso. Di fatto, da un canto, il ceto più beneficiario del possesso dell’ager publicus era il ceto patrizio, che deteneva il potere dello Stato, e naturalmente non intendeva gli nuocere ai propri interessi. Da un altro canto, la stabilità e la continuità del possesso dell’ager publicus favorivano l’economia in generale. Per questi motivi, la revocabilità del possesso dell’ager publicus restava teorica, mentre in pratica risultava sempre più difficile togliere il possesso a chi ne aveva stabilmente goduto per lungo tempo, anche dopo la scadenza.

Si è detto che il dominium dell’ager publicus apparteneva populus Romanus, e salvo una signoria di fatto, i privati non potevano quindi aver nessun diritto su quest’ager; purtuttavia, questa signoria di fatto non era un fatto semplice, era essendo infatti tutelato dall’ordinamento giuridico. Infatti, l’ipotesi risalente a Neibuhr e Savigny, che la tutela interdittale del possesso fosse nata nell’ambito delle

possessiones aventi ad oggetto l’ager publicus, aveva incontrato notevole favore già

durante il secolo XIX. Pu avendo suscitato varie critiche, dopo la energica difesa che ne fece il Bonfante, essa è stata sempre più diffusamente accolta ed è diventata

largamente, e giustamente, la teoria dominante.59

Secondo Savigny, "Eravi nella romana repubblica di due sorti terreni, l’ager

publicus e l’ager privatus, de’quali solo il secondo era capace di privata proprietà.

Nulladimeno, era da antica costituzione permesso di dare anche l’ager publicus ai privati cittadini in possesso e godimento. Questo possesso dell’ager publicus non si trova in luogo alcuno determinato con una propria forma legale. Contuttociò, tenendo ragione della inclinazione che i romani avevano all’ordine giuridico, non sia punto da dubitare della esistenza di siffatta forma e della ordinazione di un mezzo giuridico per proteggere il detentore dall’arbitraria turbazione del suo godimento. […]Originariamente, cioè fin da primi tempi, due sorte di diritti sul suolo vi furono: la proprietà, che aveva per obbietto l’ager privatus, e per difesa la vendicazione; e la

possessio, che aveva per obbietto l’ager publicus, simigliante difesa (a parere nostro

negli interdetti pretoriani) –Tempo dopo, il pretore fermò quest’ultima istituzione nell’Editto; e per siffatto modo di interdetti divennero de’mezzi di ragion pretoria, probabilmente senza cangiamento notabile nelle regole medesime del diritto. –Dopo anche altro tempo, parve bene, il possesso ordinato già per l’ager publicus applicare eziandio all’ager privatus".60

Concludendo, il possesso, come signoria di fatto, è nato dall’utilizzo dell’ager

publicus da parte dei cittadini privati. E siccome questo ager apparteneva al populus Romanus, e su di esso i possessori non avevano nessun diritto, la tutela del possesso

dell’ager publicus non poteva perciò esistere nel ius civile. Però, dato che l’utilizzazione dell’ager publicus svolgeva una parte molto importante nell’economia romana, sebbene questo possesso non fosse conosciuto come un ius nel diritto romano, c’era bisogno di mantenere la stabilità e la continuità del possesso sull’ager publicus. Per questi motivi, i pretori, per mezzo degli interdetti, stabilivano regole secondo cui la tranquillità del possesso dell’ager publicus poteva essere garantita. Questa è l’origine della tutela del possesso. Naturalmente, il contenuto e la sfera

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Nicosia, G., Il possesso, Catania, 1997 p.103

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Savigny, F.C. (von), Trattato del possesso secondo i principi del diritto romano Tradotto e annotato da Raffaele Andreoli, 1857, p.70

dell’applicazione di questo istituto si evolvevano nel processo storico, ed esso è gradualmente diventato una componente speciale e importante del diritto romano.

2.2.2 Usus e possesso

Il possesso è un istituto importante nel diritto romano, però, nelle fonti più antiche, non si parlava di "possessio" né di "possidere", utilizzandosi invece altre parole, quali usus, uti, usufructus, per indicare simile concetti simili. Dunque, qual è il rapporto tra usus e possesso? Usus è solo un termine più antico o è invece qualcosa di totalmente diverso dal possesso? Circa queste questioni, ci sono due teorie tipiche, cioè quella di Albertario e quella di Bozza.

Secondo Albertario, "nella prima epoca, cioè l’età preclassica, il possesso è indicato da una ricca terminologia: usus fructus possessio; habere possidere uti frui: il termine più antico è usus; il termine possessio, che designerà poi–esso solo–il possesso, è il più recente.[…]Di usus nel significato di possesso parlano le XII tavole:

usus auctoritas fundi biennium est,–cetararum rerum omnium–annus est usus. E

giuristi e storici, etimologisti, filosofi e poeti parlano ancora arcaicamente di usus per indicare inequivocabilmente il possesso nell’età imperiale, quando ormai usus è un istituto che con possesso non è più confondibile. […]Nelle leggi repubblicane, fino a un certo tempo, il possedere si indica ancora come uti e si indica come frui habere

possidere: solitamente i quattro termini vengono adoperati insieme per esprimere lo

stesso concetto e, direi, per più vivamente e pienamente colorirlo, chi getta lo sguardo sulla Lex agraria del 111 a.C., ad es., trova il rincorrersi di uti frui, habere possidere adoperati insieme, senza che l’un termine significhi qualcosa di diverso dall’altro. Tanto cioè è vero, che a volte nello stesso periodo uno dei quattro termini, precisamente possessio, assorbe gli altri".61

Per precisare, Albertario ha anche mostrato come, in origine, questi vari termini dovettero essere adoperati insieme solo per indicare il possesso del fundus, non anche delle ceterae res. Per quest’ultime, fino a un certo momento, il termine usus dovette

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sembrare sufficientemente espressivo. Secondo Albertario, infatti Cicerone contrappone ancora fructus a mancipium, cioè il possesso alla proprietà (ad fam.7.29.1; 7.30.2); Gaio (2, 7), per indicare che che i privati avevano suolo provinciale, usava l’espressione possessionem vel usumfructum, mentre Frontino diceva che è concesso ai privati il possidere stipendiarios vel tributarios fundos quasi

fructus tollendi causa. Queste sono le testimonianze che, secondo Albertario,

dimostrano come originariamente le terminologie usus e possessio indicavano la stessa cosa, e solo nell’età classica, quando usus e usus fructus indicavano istituti diversi, il termine possessio diventava l’unica espressione per indicare il possesso.

All’opinione di Albertario aderisce anche il Fabi, secondo cui nella prima età si trova il medesimo rapporto sostanziale del possesso, denominato però diversamente, con il termine usus. Per quanto riguarda il termine possessio, originariamente non indicava un istituto generale, significando prima la occupatio bellica, poi il possesso specifico. "Dunque non si parla di possesso in senso stretto. Ma di quel determinato possesso, e un possesso così individuato non può che riferirsi al campo, al luogo, all’edificio che la parola contraddistingue".62 In questa epoca, nelle fonti si diceva "possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri aut aedificii, non ipse fundus

aut ager" (Festo). Si veda come questa definizione ha un carattere specifico. Solo in

un periodo posteriore, la parola possessio indicava un istituto giuridico di carattere generale con una sua autonoma struttura e costruzione.

Contro la teoria di Albertario, Bozza ha presentato la sua opinione che usus e

possessio non fossero due termini indicanti la stessa cosa, ma che significassero in

realtà due istituti diversi. Secondo la studiosa, la differenza tra questi due istituti è ovvia: la possessio era una signoria di fatto, mentre l’usus era solo esercizio di fatto di un diritto. Inoltre, le altre differenze più particolari sono le seguenti:

Il possesso non è concepibile se non su una cosa materiale. Questo è un principio indiscusso per il diritto classico. Il possesso dei diritti, cioè il quasi–possesso, appartiene all’epoca postclassica. E tra le cose materiali, quali possono essere

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possedute? In origine, il possesso è possibile solo sugli immobili, anzi solo sui fondi. L’usus, invece, non solo è possibile ab origine anche per i beni mobili, ma altresì per i diritti. L’usus della manus, usucapio pro herede, usucapione della servitù, ammessa nel diritto antico, attestano come usus fosse applicabile al ius incorporale;

L’usus è un istituto di ius civile ed opera pertanto i suoi effetti nel campo del ius

civile; la possessio, invece, è un istituto pretorio e l’unico caso che conosciamo

dell’epoca delle origini, la possessio sull’ager publicus, non ha alcun effetto nel campo dell’ius civile;

Il possesso gode della protezione interdittale, l’usus non ha protezione giuridica;

Il possesso non fa acquistare i diritti, invece l’usus è sempre importante per poter

acquistare un diritto (usucapione).

Il possesso è una signoria di fatto sulla cosa, che non deriva da alcun atto giuridico, revocabile ad libitum dal concedente, e che non può convertirsi in signoria giuridica. Mentre usus si può definire come un mezzo di acquisto del dominium, sostitutivo del negozio giuridico a questo acquisto destinato e che opera dopo che il diritto è stato, di fatto, esercitato per un determinato tempo. Ecco perché esso non è tutelato.63

Queste due teorie sono opposte e in pratica ci sono più aderenti all’opinione di Albertario che non a quella di Bozza. Anche a mio avviso la prima teoria è più ragionevole. La teoria di Bozza, soprattutto, non concorda con le fonti in cui si ritrovano le due espressioni usate come sinonimi. Se è vero che la parola possesso significa signoria di fatto e usus non è che l’esercizio di fatto di un diritto, le due terminologie rappresentavano concetti di piani logici differenti, e i giuristi romani non potevano usarle fianco a fianco. Bozza ritiene che il possesso fosse un istituto pretorio, e usus un istituto di ius civile. Però, in realtà, anche nel ius civile possiamo trovare gli esempi di possesso, ad es. il possesso del creditore pignoratizio, il possesso del precarista. Per quanto riguarda l’usucapione, il possesso dell’ager publicus non portava l’usucapione; però, anche nella prima epoca in cui il possesso dell’ager

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publicus era più frequente, non si poteva escludere il possesso dell’ager privatus

(perché la definizione del Festo possessio est, usus quidam agri aut aedificii, non sembrava significare solo quelli pubblici). E il possesso dell’ager privatus, cioè l’usus, era un istituto di ius civile e, secondo le XII tavole, poteva portare l’usucapione.

Insomma, usus è un termine più antico che, come possessio, significava la signoria di fatto sulla cosa (soprattutto sui fondi). Nelle fonti non è difficile trovare esempi in cui questi due termini si usavano sinonimicamente. Solo in tempi posteriori, quando usus indicava un istituto totalmente diverso e indipendente dal possesso, le due terminologie si separarono e solo la parola possessio rimaneva a indicare l’istituto propositori nostro interesse.

3 La natura del possesso

La questione che il possesso sia un fatto o un diritto è generata dai commentatori e, come ogni altro punto nella teoria del possesso, è ancora pienamente discussa tutt’oggi. Le discussioni sulla natura del possesso non hanno solo un valore teorico, ma anche un valore pratico, e per le diverse nature del possesso si trattano i diversi modi dell’acquisto e della perdita, della trasmissione e della successione, ecc. Questo è il motivo per cui tale questione è rilevante nella teoria del possesso.

I fautori della natura giuridica del possesso non sono pochi: essi lo annoverano generalmente fra i diritti reali. Così il Gans, un puro filosofo hegeliano, pone il possesso alla testa degli iura in re. Il Thaden afferma che il possesso è un vero diritto sulla cosa, introdotto per proteggere una situazione compresa o sottintesa nell’acquisto della proprietà. L’Hasse dichiara che il possesso è un diritto sulla cosa, per quanto relativo, vale a dire un diritto tale che non vale contro chicchessia, ma solamente contro colui che con violenza ecc. voglia fare ledere il possesso. La teoria del diritto (possesso?) ebbe verso la fine del secolo XIX i suoi più due grandi fautori: il primo fu un grande critico delle fonti romane, il Bekker, che precisamente intitolò la sua opera Das Rescht des Besitzes (Il diritto del possesso); il secondo fu Jhering, con tutta la sua ardente opera. La natura di fatto del possesso fu invece difesa dal Savigny, ed affermata da una illustre schiera di giuristi, ad es., dall’Alibrandi, dal Ferrini, dal

Bonfante, dal Perozzi.64

Il Savigny ha posto una teoria intermedia. Secondo lo studioso, il possesso è un fatto di natura, da cui però derivano certi effetti giuridici: "Nessuno negherà che il possesso di sua propria ed originale natura sia un fatto; e certo ugualmente è che egli produca taluni effetti legali.[…]Conciosiachè qui il possesso è un fatto, inquantochè si fonda in un rapporto puramente di fatto, non già giuridico, cioè della detenzione. E questa è la ragione perché in tali casi la vendita, la locazione ecc. non contribuiscono punto acquisitione del possesso. Nello stesso tempo il possesso è un diritto, per quanto che taluni diritti dipendono da questo solo rapporto di fatto; ed ecco perché, considerandolo come obbietto della vendita e degli altri detti contratti, le relative obbligazioni sono tanto valide quanto quelle contrattate intorno alla proprietà".65 La teoria della natura del possesso del Savigny ha un carattere di duplicità. Da un canto si riconosce che il possesso è un fatto di natura, da un altro canto è anche sottolineato che esso è differente da altri rapporti di fatto, perché produce effetti giuridici ed è regolato dal diritto positivo.

Anche il Bonfante afferma che il possesso è un fatto di natura. Però le sue ragioni sono diverse da quella di Savigny. Secondo il Bonfante, "perché un rapporto determinato diventi diritto è necessario che esso sia sempre garantito, non semplicemente tollerato; è necessario, che la coazione sia diretta, costituita in difesa di quel rapporto; non proveniente ex occasione della difesa di un rapporto diverso. Il possesso, invece, non corrisponde questo criterio. Il possesso è difeso. Ma quando si tratta non di mantenere lo stato di fatto, ma di ottenere la restituzione, il possessore romano non è difeso etiamsi casu amiserit possessionem. Esso è difeso soltanto con riguardo all’atto o animo di chi reca la molestia o esegue lo spoglio. Bisogna che la turbativa o la perdita che egli patisce costituisca una lesione speciale, con determinati caratteri: il terzo, contro cui si può agire, non è qualunque terzo, ma precisamente colui che compie una volontaria violenza dell’attività del possessore in ordine alla

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Albertario, E., Corso di diritto romano, 1948, p.171

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Savigny, F.C. (von), Trattato del possesso secondo i principi del diritto romano Tradotto e annotato da Raffaele Andreoli, 1857, pp.9-10

cosa. Insomma, il possesso non ha difesa se non in caso di lesioni determinate e qualificate, e solo contro il colpevole di lesioni cosiffatte e nelle ipotesi di cosiffatte lesioni, il possessore ha difesa anche contro il proprietario".66 L’opinione di Bonfante è molto chiara: il possesso è un fatto. Diversamente dal Savigny, egli non riconosce il carattere della duplicità, e sebbene anche lui affermi che il possesso produce certi effetti legali (tutela interdettale), ritiene però questo che fatto non influisca sulla natura di esso. Perché per raggiungere questi effetti giuridici, si devono corrispondere le condizioni speciali richieste dal diritto positivo. Invece un vero diritto può sempre produrre i propri effetti giuridici, senza assumere richieste speciali. Quindi il diritto positivo non riconosce il possesso come un diritto, ma solo eccezionalmente riconosce qualche effetto giuridico derivante da esso.

Ora, torniamo alle fonti. Per i giuristi romani, la risposta di questa questione è molto chiara. Nelle fonti è ripetuto tante volte che il possesso è res facti, e totalmente differente dalla proprietà. Nel Digesto ci sono alcuni frammenti in cui si trova l’affermazione che il possesso è un fatto e non un diritto, ad es. Possessio autem

plurimum facti habet (D.4.6.19); res facti infirmari iure civili non potest (D.41.2.1.4); eam (possessionem) enim rem facti non iuris esse (D.41.2.1.3).

Nelle fonti, salvo queste affermazioni, esistono altre testimonianze dell’applicazione del possesso nel regime positivo che corrispondono alla sua natura "di fatto".

D.41,2,23pr.

Iavolenus 1 epist.

Cum heredes institui sumus, adita hereditate omnia quidem iura ad nos transeunt, possessio tamen nisi naturaliter comprehensa ad nos non pertinet.

In questo frammento, Giavoleno ha mostrato una differenza tra il possesso e il

ius per quanto riguarda la successione ereditaria. L’erede, con l’adita hereditate,

ottiene omnia quidem iura appartenesse al defunto. Però, l’erede non diventa il

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possessore dei beni, fintanto che non ne abbia acquistato nelle debite forme il possesso. Perché il possesso, essendo un fatto, non può trasmettersi ipso iure con la semplice apertura della successione. Questo è un esempio in cui evidentemente si mostra l’affermazione della natura di fatto del possesso e la sua influenza sull’applicazione di quest’istituto.

Però, alcuni giuristi hanno dato una spiegazione diversa. Secondo essi il tamen vuol significare che anche il possesso è un diritto, benché non passi agli eredi senza materiale apprensione. Quindi, secondo gli stessi giuristi, il contenuto di questo frammento non si riferisce alla natura di fatto del possesso, ma alla sua natura di diritto. In altre parole, il possesso è un ius, però si trasmette all’erede in un modo diverso.

Tanti giuristi (Bonfante, Riccobono, Alibrandi, Albertario, Bozza) non sono d’accordo con questa interpretazione. Secondo il Bonfante, da una parte nel §1 dello stesso frammento corporaliter tamen, usato di nuovo in antitesi a iura, non può significare che la stessa possessio corporalis sia un diritto, dall’altra parte per i Romani pure la parola ius indica, altre volte, un rapporto di fatto, capace di conseguenze giuridiche, quale è il possesso, ad esempio quando viene adoperata nelle espressioni ius adfinitatis, ius adgnationis, ius consanguinitatis (v. per quest’ultimo la D.38, 7, 1, 6). Nessuno si sognerebbe per ciò solo di negare che l’affinità, la consanguineità siano rapporti di mero fatto.

A mio parere, quest’interpretazione è più naturale e ragionevole. Come abbiamo già accennato, nelle fonti si trattava tante volte della natura di fatto del. L’ipotesi che Giavoleno volesse dire che il possesso è un diritto, che però si trasmette all’erede in modo diverso, è un po’ strana. Non si vede la ragione e non si possono trovare altre