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PRÈET - Castelgrande, linguaggio e territorio di Maria Rizzi 1

N

ella sua Opera il caro Giuseppe Maria Lotano ci spinge a posare le valigie sulla sponda del fiume e ad ascoltare la musica delle note che lo attraversano e che, unite, danno vita a un linguaggio de-finito nel corso dei secoli, semplicemente italico, mentre è composto di seimila lingue conosciute, tendenti a estinguersi.

Il fiume senza i suoi affluenti rischia di prosciugarsi, di interrom-pere il meraviglioso percorso che lo porta, da sempre, a congiunger-si con il mare.

Ed è sugli affluenti, ovvero sui dialetti che il nostro Autore ci indu-ce a riflettere in questo volume poetico sin dall’introduzione, ispirata come musica, di purezza incandescente.

Le parole sono definite préet, “pietre”, in altre parole, per dirla con Giuseppe Maria Lotano, “primarie risorse per assicurare un tetto all’uomo e ai suoi sogni”.

Pietre che segnano i confini, senza eliminarli, anzi donando loro, l’antica, profonda armonia. I dialetti, infatti, non vanno intesi come simboli di diversità, ma come connotazioni di “radici”, o forse sa-rebbe più indicato dire di talee, che caratterizzano le regioni, senza eliminare il senso dell’origine.

Siamo italiani, posiamo la nostra storia su una patria che, pur nei periodi critici, che spesso attraversiamo, resta la radice solida e inattaccabile della famiglia che germoglia. E al tempo stesso siamo figli di venti regioni, con centodieci province, di venti “pietre” milia-ri, che, al pari della lingua nazionale, hanno avuto la stessa origine nobile, ovvero il latino.

Va contestato subito il luogo comune secondo il quale i dialetti rappresentano una corruzione dell’italiano. È vero, invece, che ri-vestono un diverso ruolo socio - linguistico. L’italiano, infatti, è la lingua della comunicazione, all’interno della nostra Repubblica, di

1 I.P. la C. (Insieme Per la Cultura)

quella di San Marino e nel Canton Ticino elvetico; i secondi hanno uso circoscritto. A determinare la scelta di una lingua a carattere na-zionale furono: il dialetto fobia istituna-zionale nelle scuole, l’abbando-no delle campagne e la progressiva emigrazione, la leva obbligatoria, la burocrazia e la televisione, che inducevano gli italiani a parlare la lingua ‘comune’ per potersi comprendere, hanno fatto sì che certi tratti di essi siano scomparsi (come per esempio le forme arcaiche utilizzate dagli anziani), a scapito di forme più moderne e più vicine all’italiano, facendo sì che si corresse il rischio di appiattire la varietà che rendono preziose e uniche le lingue del nostro paese.

Giuseppe Maria Lotano, dedica la sua “Prèet”, raccolta di poesie e detti in dialetto alla propria cittadinanza di Castelgrande, e l’affida alle Istituzioni pubbliche lucane a testimonianza di salvaguardia dei dialetti, pietre miliari del paesaggio, degli usi e costumi delle tradi-zioni territoriali.

La sua volontà di aggiungere alle liriche i detti, a mio umile av-viso, è un distillato di linfa vitale e corrobora il dato di fatto che il dialetto non disintegra, ma interpreta con le proprie sonorità, i pro-pri accenti, la propro-pria armonia, concetti spesso assimilabili tra molte regioni italiane.

Il Nostro, con la sua introduzione, ricca di percezioni personali e di dati ufficiali, cerca di dimostrare quanto si tenda a riconnettere la differenza tra la lingua e il dialetto all’emotività che permane dietro l’uso dell’una o dell’altro. In altri termini per la pubblica opinione l’italiano potrebbe rappresentare la lingua della razionalità, della let-teratura, della scienza, mentre il dialetto potrebbe essere la lingua dell’emotività. Infatti, ricorre quando si è in preda alla rabbia, o si manifesta sdegno o compiacimento verso particolari situazioni della vita.

L’Autore giustamente evidenzia che il vernacolo “svela il patri-monio espressivo di ognuno” e la matrice identitaria. D’altronde la sua asserzione è stata sostenuta da critici come Gianfranco Contini, che affermava che la produzione dialettale è una delle due facce della letteratura italiana. In un detto recitava: “La letteratura dialet-tale è visceralmente e inscindibilmente collegata sin dalle origini alla letteratura italiana”. E ci si riferisce al modello del policentrismo, chiamato “Italia delle Italie”. Le letterature dialettali, intese come plu-ricentriche, sono parti intrinseche della letteratura del nostro paese.

Basta pensare che il fiorentino dantesco, prima di essere scelto come lingua italiana era lingua fiorentina, cioè un dialetto.

Quindi, in linea con quanto afferma il nostro Autore, il dialetto è la lingua di comunicazione primaria identitaria del gruppo, è la pri-ma lingua spontanea di una comunità.

In Italia abbiamo una differenziazione linguistica ricchissima, uni-ca nel mondo. Una differenziazione simile si ritrova in Cina e in India, solo su milioni di persone e su spazi più grandi. Di certo non han-no varietà quanto i han-nostri dialetti, che possiedohan-no una caratteristica fondamentale: sono comunità che hanno una memoria collettiva che va dai mille ai duemila, duemilacinquecento anni. E anche questo s’identifica come un autentico apporto alla comune identità.

Giuseppe Maria Lotano scrive in lingua e in dialetto e affida a quest’ultimo la speranza di contribuire a “mantenere in loco signi-ficativa presenza demografica per etnia e voce”, innanzitutto perché è innamorato della sua terra, in secondo luogo perché gli consente di esprimersi con la lingua che parla da sempre, forse la stessa in cui sogna … e, soprattutto, per esigenze d’ispirazione. Infatti, anche nell’epoca della globalizzazione, la propria lingua rappresenta uno strumento di riconoscimento, d’integrazione, di sicurezza e, in certe situazioni, può proporsi come un valido supporto alla comunicazio-ne. Salvare il proprio dialetto è un’operazione che non comporta costi, ma è molto più complessa, perché deve essere quotidiana e deve essere trasmessa ai giovani, sempre più proiettati, per le neces-sità dell’economia, verso le lingue straniere, in particolare l’inglese.

Giuseppe Maria Lotano con le sue poesie ci apre un ventaglio di modi espressivi, che aiuta a provare sensazioni tra le più inattese e illuminanti. Ogni lirica porta in sé la magia di un’antica civiltà, del tempo che non si è mai fermato, ma ha conservato quello che Egli definisce ‘il rapporto tra il silenzio e la parola’.

Giuseppe Maria Lotano reca in sé il retaggio del passato e lo proietta nel futuro, dimostrando la volontà di portare avanti la sua esigenza interiore di non tradire le radici. La Silloge e i detti rappre-sentano una grande testimonianza di coraggio, una sfida allo status quo e un tributo superbo alla sua terra.

L’eredità culturale e la lingua nativa: patrimonio dell’umanità