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I. 3 “Nuovo cinema sardo”: film, registi, storie di Sardegna

II.1 Preliminari metodologici

L’obiettivo della nostra ricerca è l’analisi della lingua, anzi delle lingue effettivamente impiegate nella caratterizzazione linguistica dei personaggi e del loro grado di variabilità rispetto al codice (o ai codici) dei romanzi. In questa sede, non potendo analizzare un vasto corpus di film, sia per la oggettiva complessità del lavoro che per la necessità di dare uniformità allo stesso, abbiamo scelto quattro titoli della produzione cinematografica recente: Il figlio di Bakunìn di Gianfranco Cabiddu (1997); Arcipelaghi di Giovanni Columbu1 (2001); Sonetàula (2008) e

Bellas mariposas (2012), entrambi di Salvatore Mereu.

I film, oltre a essere stati realizzati in un arco di tempo relativamente breve, sono tratti da opere letterarie sarde del Novecento, e sul piano linguistico presentano tratti interessanti ai fini della presente analisi: impiego dell’italiano regionale di Sardegna2 accanto alle varietà di sardo nei più svariati contesti d’uso;

caratterizzazione linguistica dei personaggi conformemente alla loro condizione socioculturale, alla situazione comunicativa e al periodo storico; impiego dei dialetti sardi per una più efficace resa espressiva e comunicativa. È indispensabile rimarcare la dimensione regionale dei film selezionati per l’analisi, film che più delle opere letterarie da cui sono tratti o a cui sono liberamente ispirati (Sonetàula, Bellas mariposas) rivelano un forte legame linguistico con la Sardegna ed esibiscono un parlato fortemente connotato regionalmente3.

Abbiamo scelto quattro titoli che esemplificano una casistica eterogenea di traduzioni intersemiotiche4, da un livello di fedeltà dichiarata e palese al testo

letterario (Il figlio di Bakunìn) a uno di massima autonomia (Arcipelaghi e Sonetàula), documentata dal cambio di codice nel passaggio intersemiotico dal testo letterario (in italiano) a quello cinematografico (in sardo). I quattro film presi in esame si differenziano per le storie narrate e le geografie rappresentate, ma

1 I primi due titoli del corpus non sono censiti né menzionati nel volume di Brunetta sul cinema

italiano dal 1905-2003.

2 Ricordiamo i principali lavori sull’italiano regionale sardo (IRS) che hanno guidato e nutrito la

nostra ricerca: LOI CORVETTO (1983; 1995); DETTORI (2002); LAVINIO (2002). Nei capitoli che

seguiranno, faremo riferimento ad altri studi specifici sull’italiano regionale sardo applicati all’analisi linguistica dei romanzi e dei film del corpus.

3 SETTI (2003: 463) osserva che «nei film italiani degli ultimi anni continua ad essere fortemente

presente la dimensione regionale, […] con una preferenza marcata, per non dire esclusiva, di un parlato chiaramente connotato in senso regionale».

soprattutto sono frutto di poetiche linguistiche diverse che si manifestano nel parlato dei personaggi. La lingua è la cartina di tornasole che ci permette di esaminare le traduzioni intersemiotiche sugli assi delle variazioni diamesica (scritto vs. parlato), diastratica e diafasica5 (livelli formale e informale; lingua

“alta” vs. lingua “bassa”), nonché diatopica e diacronica: il parlato dei personaggi dei quattro film sardi non cambia solo in funzione dei contesti e delle situazioni comunicative, ma anche dell’età, dell’estrazione sociale e del mestiere di ognuno di essi, della provenienza geografica e del periodo storico nel quale la storia narrata si colloca.

II.1.1 Il corpus

Nell’intento di osservare la variazione linguistica nei tre testi, abbiamo ritenuto opportuno recuperare tutte le sceneggiature, non solo perché offrono informazioni preziose sulla messa in scena e riportano le battute così come dovranno essere recitate sul set, ma anche perché, specialmente nel caso di Sonetàula, la sceneggiatura mi ha offerto il supporto necessario per comprendere le battute in sardo.

Il primo film è Il figlio di Bakunìn di Gianfranco Cabiddu (1997), un’opera che mostra un alto grado di “fedeltà” rispetto al testo di partenza, il romanzo omonimo di Sergio Atzeni (Sellerio, 1991), sia nell’impianto narrativo che nella lingua impiegata. Il romanzo di Atzeni si compone di trentadue capitoli narrati in prima persona; il filo che lega le narrazioni è il ricordo di Tullio Saba, nel tentativo di definire la sua sfaccettata, complessa identità, lungo un arco temporale che va dagli anni Trenta ai Cinquanta del Novecento.

Durante la prima fase del lavoro, abbiamo realizzato una griglia che ha accolto tutti i tratti linguistici e morfosintattici propri della lingua parlata che caratterizzano lo stile oralizzante del romanzo e il parlato filmico: l’ordine marcato della frase, i modi e i tempi verbali (il passato remoto – forma temporale “marcata” rispetto all’italiano regionale di Sardegna - e il congiuntivo pro indicativo), la diatesi passiva. Abbiamo quindi osservato la componente dialettale e l’impiego di espressioni, modi di dire, termini disfemici, calchi morfosintattici che potessero

suggerire la provenienza geografica e l’estrazione sociale dei falsi testimoni, nonché il grado di interazione con il narratario (colui che trascrive le testimonianze dal registratore Aiwa), attraverso domande a lui direttamente rivolte e considerazioni sul suo aspetto fisico. Anche il censimento degli antroponimi e dei toponimi impiegati nei due testi è inserito nella categoria lessicale. La riflessione sulle differenze tra scritto e parlato fornisce interessanti spunti per il confronto dei due testi, accomunati dalla «falsa oralità» e dalla presenza di un coro di voci narranti, ognuna portatrice di un frammento di “verità” sulla figura di Tullio Saba.

Per l’analisi, prendiamo in esame i trentadue capitoli del romanzo, tutti concorrenti alla definizione dell’identità di Tullio Saba. I tratti sono confrontati con i dati raccolti dall’osservazione delle battute delle circa trentasei sequenze, desunte direttamente dal film per poter analizzare i turni di parola in seguito alla postsincronizzazione, ossia «l’insieme delle operazioni compiute per realizzare una colonna sonora (o una sua parte) da sostituire a quella originale»6 registrata in presa

diretta.

Il secondo film è Arcipelaghi (2001), sceneggiato e diretto da Giovanni Columbu, liberamente ispirato al romanzo di Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (1995/2001). Il libro, diviso in quattro parti, narra dell’omicidio del piccolo Giosuè Solinas, bambino-pastore assassinato perché testimone involontario del furto di venti vacche da parte di tre uomini. Ogni capitolo è affidato a un io narrante che fornisce la propria versione dei fatti, in contrasto con le altre testimonianze o a sostegno delle ipotesi già suffragate. Memoria e vendetta sono i due assi attorno ai quali ruota la narrazione.

La scelta è ricaduta sul primo lungometraggio di Columbu per ragioni di carattere linguistico e artistico-culturale. Il film è, infatti, parlato per metà in sardo – dialetti d’area barbaricina e varietà campidanese – per metà in italiano regionale. La struttura corale del romanzo di Maria Giacobbe, scritto totalmente in italiano, è trasposta in un montaggio che predilige un intreccio frammentario, in cui le due linee temporali – presente e passato – sono contrapposte sul piano linguistico. L’opposizione sardo-italiano genera un’ulteriore frattura che si manifesta nel proposito dei personaggi di fornire versioni discordanti a seconda

del contesto e della lingua impiegata: in tribunale, i personaggi sono chiamati a deporre in italiano, lingua della menzogna; il sardo, parlato da tutti, è la lingua della memoria e della verità.

La difficoltà maggiore riscontrata durante l’analisi del parlato del film è stata la comprensione e la trascrizione di alcune battute in sardo che si confondevano con gli altri rumori diegetici – musiche, voci in sottofondo, brusio. Nell’impossibilità oggettiva di trascrivere tutte le battute recitate dagli attori, abbiamo optato per l’analisi di gran parte delle battute in italiano, interamente trascritte. Poiché il romanzo è stato programmaticamente stravolto nella trasposizione, e poiché non esiste il copione in sardo, il metodo d’analisi è diverso rispetto a quello adottato per gli altri film.

Il terzo, Sonetàulà, è la traduzione del romanzo di Giuseppe Fiori, scritto negli anni Sessanta ma riedito in una versione snellita e aggiornata nel 2000. Sonetàula è il soprannome del protagonista, Zuanne Malune, un giovane servo- pastore che diventa bandito in seguito all’uccisione del gregge di un amico. L’osservanza del codice barbaricino costringe il ragazzo alla latitanza sui monti, lontano da casa e dall’amata Maddalena.

Nell’impossibilità di analizzare e confrontare i tre testi (romanzo, sceneggiatura e film) nella loro interezza, abbiamo selezionato quattro scene che potessero esemplificare in maniera significativa e diversificata la contrapposizione sardo-italiano all’interno della comunità barbaricina. Abbiamo scelto di analizzare le scene facendo un confronto serrato tra i testi - letterario, sceneggiatoriale e filmico - in modo da dare una visione d’insieme della lingua della diegesi (narrazione) e di quella della mimesi (discorso diretto e battute).

Il quarto Bellas mariposas, liberamente tratto dal racconto di Sergio Atzeni, è un’opera originale ed eversiva sul piano linguistico, perché riproduce il parlato di Cate Frau, dodicenne della periferia di Kasteddu (Cagliari), in una giornata d’agosto. La lingua dell’adolescente è un concentrato di italiano regionale, italiano popolare, dialetto cagliaritano e linguaggio giovanile realisticamente miscelati in un monologo che non ammette pause né punteggiatura.

Per lo studio della lingua e della voce in Bellas mariposas, abbiamo trascritto tutti i turni dialogici del film per confrontarli con il testo di partenza (il racconto di Sergio Atzeni) e con la sceneggiatura. Per facilitare la lettura e l’analisi, riportiamo

le scene dal copione e le battute trascritte dal film in tabelle poste di seguito ai brani tratti dal romanzo per poterne apprezzare gli elementi di contiguità e continuità linguistica e testuale e gli eventuali tratti divergenti, che costituiscono il vero oggetto di indagine e riflessione.

L’analisi non mira a mettere in luce la fedeltà linguistica del testo cinematografico in relazione a quello letterario, dal momento che il concetto stesso di “fedeltà” è fuorviante e riduttivo7. Come scrive Brunetta, «si riconosce al cinema

non solo la specificità del suo linguaggio, ma la sua caratteristica di convogliare e assoggettare le forme e le strutture di diversi linguaggi artistici»8. Il linguaggio

cinematografico si compone di diversi segni, o se si preferisce di diversi codici: il visivo, veicolato dalle immagini, e il sonoro, che comprende le musiche, i rumori intradiegetici, e naturalmente il parlato nelle sue svariate e multiformi manifestazioni (voice over e fuori campo9, dialoghi, monologhi ecc.).

L’analisi, pertanto, non è condotta in termini di maggiore o minore aderenza del testo di arrivo (il film) rispetto a quello di partenza (il romanzo), scelta che porrebbe in evidenza il grado di subordinazione del primo, ritenuto “inferiore” o manchevole, in rapporto all’originale, “perfetto” e inarrivabile. Per Morpurgo-Tagliabue la parola dei dialoghi filmici è «letteraria» in quanto «sottoposta a regole di selezione stilistica come accade agli altri generi letterari»10.

In un caso come questo, invece, l’analisi linguistica delle traduzioni intersemiotiche11 intende mettere in evidenza come la lingua dei dialoghi, il più delle

7 «Nella difficile relazione tra testo letterario e film, gli atti di fedeltà, quando ci sono, non riguardano

la puntuale quanto inutile corrispondenza tra film e opera nei suoi rimandi letterari, quanto piuttosto il grado di affinità alla cifra del testo di riferimento. E per mantenersi fedeli alla cifra del testo, a volte, paradossalmente è proprio indispensabile tradirne la letterarietà o rigiocarla in altri termini». (PIANO 2011: 44).

8 BRUNETTA (1970: 126).

9 Michel Chion utilizza il termine acusmatico per definire il suono, e quindi la voce, fuori campo.

L’aggettivo, ripreso dal greco antico da Jêrome Peignot, significa «che si sente senza vedere la causa originaria del suono» (CHION 2001: 65). Il suono off è «quello la cui supposta sorgente è non soltanto

assente dall’immagine, ma anche non diegetica, vale a dire situata in un altro tempo e in un altro luogo rispetto alla situazione direttamente evocata: caso, assai diffuso, delle voci di commento o di narrazione, dette in inglese voice over […].» (CHION 2001: 67).

10 MORPURGO-TAGLIABUE (1968: 18).

11 Sul versante degli studi comparatistici tra letteratura e cinema, le scuole di pensiero, gli approcci

e le metodologie di analisi sono tante e tanto variegate da non rendere agevole e immediata l’elezione univoca di un termine da applicare all’oggetto di studio. Per quanto riguarda la presente ricerca, abbiamo scelto di adottare l’etichetta di ‘traduzione intersemiotica’, per diversi motivi. Il primo è di ordine linguistico: poiché l’obiettivo precipuo della ricerca è l’osservazione del cambiamento della lingua dal medium letterario a quello cinematografico, ci è parso doveroso eleggere un termine che contemplasse tanto l’aspetto semiotico quanto quello linguistico. Inoltre, per due dei cinque film del corpus, c’è da tenere in considerazione anche il lavoro di traduzione interlinguistica svolto dagli autori nel passaggio dall’italiano del romanzo al sardo del film. Per una

volte ricreati ex novo nella sceneggiatura, sia più vicina e “fedele” a quella realmente parlata in Sardegna, nelle città e nelle piccole comunità che al codice letterario.