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I. 3 “Nuovo cinema sardo”: film, registi, storie di Sardegna

III.2 La sceneggiatura

La quinta stesura della sceneggiatura, datata aprile 1997, è conservata alla Cineteca Sarda di Cagliari. Si compone di 118 scene, ognuna delle quali fornisce indicazioni sul luogo, il momento della giornata, i movimenti di camera e i personaggi: di questi ultimi ci viene detto quando la voce è fuori campo. Nelle annotazioni di scena sono riportati anche i rumori dell’ambiente circostante.

La prima voce – off - è quella della madre; accanto al suo nome l’appunto “testimonianza”. Le successive quattro testimonianze sono scandite dai titoli di testa e dalla musica extradiegetica30, rigorosamente segnalati nelle indicazioni di scena.

Le testimonianze si alternano alle riprese in esterna, che mostrano miniere, paesaggi rurali, il mare in lontananza. La musica è l’unico commento sonoro alle immagini; le voci dei quattro testimoni che seguono - tutti uomini – sono sempre in campo.

La nona scena è ambientata in campagna: una carrellata da sinistra a destra mostra «una ragazza con le gonne alzate» che fa l’amore con un «Giovane Garzone». Nella sceneggiatura è riportata anche l’indicazione dell’albero sotto il quale giacciono gli amanti, un mandorlo, lo stesso di cui parla Dolores Murtas nel quinto capitolo del romanzo. La voce di Dolores che chiama donna Margherita, segnalata dall’annotazione «F.C. in sardo», irrompe nella stanza. Anche le successive battute di donna Margherita riportano accanto la nota «in sardo», ma poiché sono scritte in italiano dobbiamo dedurre che la nota fosse valida solo per l’enunciazione in scena. Le raccomandazioni sulle panadas che donna Margherita fa a Dolores sono in italiano:

…stai attenta alle panadas, la pasta deve essere croccante fuori e morbida dentro. Luisu ha portato i capretti? Falli frollare bene che siano belli morbidi per il ripieno

30 La musica extradiegetica, «di discorso, di commento, di amplificazione drammatica», si distingue

da quella diegetica, «emessa da fonti sonoro diegetiche, presenti nella storia narrata, quali un’orchestra, un giradischi, una radio ecc.» (RONDOLINO/TOMASI 2011: 320). MICELI (2000) propone

un modello basato su tre livelli: interno, esterno e mediato, nel senso di “metadiegetico”, corrispondente, cioè, a una soggettiva sonora.

proprio come Dolores Murtas aveva imparato a farle dalla madre (FB, 19). La sedicesima scena, ambientata nella chiesa parrocchiale, prevede l’intervento di Don Sarais, il quale spiega, come nel romanzo, chi fosse e cosa facesse Bakunìn. In una battuta del parroco compare l’espressione «tutto questo bordello», ricalcata sul campidanese totu custu burdellu (‘tutto questo casino’), in riferimento agli spari e agli schiamazzi di Antoni Saba (scene 15-16). Un uomo dice che Bakunìn è «un […] amico [di Antoni Saba] che vuol fare fogaroni alle chiese per festeggiare Natale»: il termine fogaroni è il corrispettivo cagliaritano dell’italiano ‘falò’. Un altro aggiunge (sottovoce) che anarchia significa

Uccidere i preti, violare le donne costumate, vuotare le case ai contadini, dichiarare libero amore per fare un mondo di bagasse e di uomini senza Dio.

La scena non è stata girata e queste battute - comprese quelle di don Sarais - non si ritrovano nel testo filmico. L’ottavo testimone – il maestro - è un anziano che descrive l’arrivo del nuovo direttore e la rottura dei patti con Antoni Saba:

Questo direttore nuovo era in paese da un mese, non di più quando ha rotto i patti con Antoni Saba. Non c’era gallina ripiena capace di convincerlo del contrario. Odiava gli anarchici, dicevano che al suo paese aveva avuto questioni con loro, lo avevano bastonato…

La sua testimonianza è ripresa parola per parola dal sesto capitolo. Il testimone della diciottesima scena è il maestro da giovane, che parla rivolto alla mdp. Nella sceneggiatura è il maestro che racconta che Bakunìn «[aveva] addestrato il cane del figlio Tullio» ad annusare le donne in mezzo alle gambe. E aggiunge che «scommetteva a indovinare quale delle donne aveva confessato le porcherie al prete». Una delle donne smascherate dal cane è Elena Simonazzi, la moglie del nuovo direttore, riconosciuta dal maestro. L’uomo che si trova con il maestro esclama: «Adesso sono cazzi, quello ha fatto la marcia su Roma, dicono che sia amico intimo di Mussolini». Di questa battuta, dal sapore didascalico, solo l’ultima parte confluisce nel film. La testimonianza del maestro si conclude in voce off, con una battuta ripresa dall’ultimo capoverso del settimo capitolo del romanzo, fatta eccezione per il verbo

apparire, coniugato all’imperfetto indicativo nel romanzo (appariva; FB, 30) e al congiuntivo passato nella sceneggiatura.:

Una cosa sicura è che in quegli anni in sogno mi appariva Elena Simonazzi, nuda. E non ti dico le parole che diceva. E pare che apparisse a molti altri in paese, non a me solo.

La venticinquesima scena si svolge in una cucina; le testimoni sono «due vecchie comari settantenni, vestite completamente di nero». Le due testimonianze, di diversa lunghezza, sono riprese dall’ottavo capitolo del romanzo; la scena è stata eliminata in fase di riprese e al suo posto è stata inserita la testimonianza di Ulisse, corrispondente alla quarantasettesima scena in sceneggiatura. La testimonianza della sarta è invece mantenuta, ma ridotta sia in durata che in numero di turni rispetto alla sceneggiatura.

La trentesima scena coincide con l’inizio del nono capitolo, dedicato al ricordo della storia d’amore tra Tullio Saba e la giovane di Carbonia. Nella sceneggiatura la donna ha un nome, Angelina, ma questo, mai menzionato nel romanzo e inventato da Cabiddu, scomparirà nel film. L’intera sequenza si compone di quattordici scene alternate sull’asse temporale presente/passato: le prime immagini sono ambientate nel passato e la voce fuori campo di Angelina, ormai invecchiata, racconta del suo arrivo a Carbonia in compagnia del marito Ottavio. La testimonianza dell’amante di Tullio Saba non è intrecciata a nessun’altra vicenda, segno che il regista ha pensato – e scritto - le sequenze divise, indipendenti le une dalle altre, come nel romanzo, per poi unirle in fase di montaggio, in modo da dare l’illusione della continuità da una voce all’altra.

La sequenza successiva è dedicata alla testimonianza di Ulisse Ardau, ma la sua non è l’unica voce narrante. Ai continui rimandi al passato si frappongono le voci di altri due testimoni, Giacomo Serra ed Efisio Giua, entrambi anziani. Non si riscontrano differenze sostanziali rispetto al girato, né sul piano narrativo né su quello linguistico, ma si notano un paio di battute di Tullio Saba successivamente omesse. Nella scena della galleria, la cinquantunesima, il protagonista ha due lunghi turni: nel primo parla della sua esperienza nelle miniere del Belgio e della Francia; nel secondo spiega ai suoi compagni chi era Stalin. Solo quest’ultima entrerà a far parte della colonna sonora finale. Dopo lo stacco – segnalato in sceneggiatura – c’è

un dialogo molto breve tra Ulisse, Lele, Tullio e Giacomo durante il quale i minatori parlano di come vorrebbero eliminare Corbo e Locci, il capo del personale; parlano di Emilio Lussu e Velio Spano31 (scena 99), le cui gesta mitiche, nel film, sono

proiettate sull’eroe Tullio Saba.

Nella sequenza occupata dalla testimonianza del giudice (anonimo come nel romanzo), entra in scena il personaggio di Bannedda, «una vecchia, piccola, secca, avvolta in vesti nere come il carbone»; anche i particolari del «naso grifagno» e degli «occhi piccoli neri, mobilissimi e astuti» sono ripresi dal romanzo. Solo la prima battuta di Bannedda («No ti seo comprendinde po nudda»32) è in logudorese; le

successive non sono riportate in sardo ma in italiano. Tra gli elementi che spiccano nel parlato di Bannedda troviamo il pronome personale esso riferito al «povero ingegner Corvo»; l’utilizzo dell’indicativo al posto del congiuntivo presente nell’oggettiva «mi fa specie che un giudice prende per oro colato le chiacchiere dei paesani», tratto che potremmo ascrivere all’italiano neo-standard33. Nella

sceneggiatura, Bannedda pronuncia la parola bruscia, ‘strega’: «Se qualche paesano ha parlato di me come di una Bruscia34 vuole dire che sono ignoranti». L’uso del

sardo da parte della vecchia svolge una precisa funzione narrativa: Bannedda incarna la compattezza della comunità, eloquentemente rappresentata dall’immagine di un «corpo collettivo»; è simbolo di impenetrabilità e solidità di una fortezza linguistica e sociale che non può essere intaccata dalla legge di stato.

La testimonianza successiva è quella di Agostino, il musicista amico di Tullio Saba, articolata in sedici scene. Una in particolare – la settantanovesima – è stata ridotta nel film; l’ottantesima, con la voce off di Agostino, è stata eliminata del tutto. Manca anche l’ottantottesima, ambientata nell’osteria del paese, dove ha luogo una conversazione tra l’oste, un vecchio (ziu Luisu), Agostino e Cesarino Cappellutti.

88 Osteria paese (Est./giorno)

Un uomo dal viso rubizzo parla in PP.

31 Velio Spano (Teulada, 1905 – Roma, 1964) è stato un politico e antifascista italiano, membro della

Consulta Nazionale per la Costituente e sottosegretario alla cultura nel governo De Gasperi. Oltre ad aver svolto un’intensa attività come giornalista, in Italia, Francia, Spagna e Tunisia, è stato per dieci anni alla guida dell’organizzazione regionale sarda del PCI. Cfr. http://www.anpi.it/donne-e- uomini/velio-spano/ (pagina consultata in data 20 febbraio 2015).

32 ‘Non capisco nulla di quello che stai dicendo’. 33 BERRUTO (1987).

Oste

Che io so, non si fanno serenate in Marmilla. (rivolto a un vecchio seduto davanti a un

quartino di rosso) Oh ziu Luisu, se ne fanno serenate in paese?

Vecchio

Un tempo si facevano, tanti anni fa. Io ero bambino.

Agostino F.C.

Vabbè. Allora è un secolo fa.

La MDP carrella a scoprire Agostino e Cesarino seduti al tavolino davanti all’osteria, parlano e guardano il passeggio del paese.

Agostino (a Cesarino)

Sento che questa storia ci porterà sfortuna. Non stiamo più suonando in giro, finirà che non ci chiamerà più nessuno. Ogni sera qui a fare serenate. Due settimane in questo buco

di paese coinvolti in questa passione: non ci posso credere.

Cesarino

Tu sei un materialone. Non stai bene? Ti manca da mangiare? Stai forse marrando la terra? E allora?

Nella battuta dell’oste spiccano almeno due tratti interessanti: la costruzione con l’indicativo dell’enunciato «che io so», che mira alla mimesi dell’italiano popolare35, e il titolo ziu che non indica grado di parentela bensì

rispetto per le persone anziane del paese. Cesarino si rivolge all’amico dandogli del materialone, vocabolo di uso comune attestato nell’italiano a partire dal 184236. Trattandosi di una chiacchierata tra amici, il termine suona un po’

stentoreo e ricercato, e quindi poco adatto a una situazione informale, per la quale il sinonimo rozzo - o addirittura grezzo, ampiamente utilizzato nell’italiano regionale di Sardegna - sarebbe stato più appropriato. Nella terza interrogativa, Cesarino chiede all’amico se sta «marrando la terra»: la desinenza del gerundio appartiene alla prima coniugazione italiana, ma il verbo è preso in prestito dal sardo. Marrare – marrai37 in campidanese – significa ‘zappare’, lavorare la terra’.

La domanda è ironica, e l’impiego di un dialettalismo sposta l’asticella della variazione diafasica sull’asse dell’informalità.

In un’altra scena (la centodecima) l’uso del dialetto, stavolta napoletano, è funzionale alla rappresentazione del personaggio. Il Napoletano pronuncia due

35 «Tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (CORTELAZZO

1972: 11).

36 Cfr. il IV volume del GRADIT (1999-2000: 47).

37 La marra, voce di origine semitica, è un piccolo strumento simile a una zappa. La sua diffusione e il

battute, la prima in italiano, priva di sfumature di napoletanità, la seconda in dialetto:

Siete duri di testa voi sardignoli, eh? Maronna do’ Carmine, granito. E va beh, mi hai sfonnato ‘a uallera. Carico tutto ma ti pago il prezzo della sola lana: Duecentottantamila. E n’ce bevimmo n’goppa, va bbuono?

L’espressione napoletana me aie sfonnat’ ‘a uallera, adattata in italiano nella battuta, significa ‘mi hai molestato tanto da sfondarmi la guallara’, cioè l’ernia: la guallara designa, nell’uomo, l’ernia inguinale ma è utilizzata anche per indicare i testicoli. Ciò che sorprende è che un’espressione tanto diffusa ed eloquente sia stata eliminata dalla battuta filmica.

Fatta eccezione per le canzoni popolari con le frasi a doppio senso, la lingua impiegata da Tullio Saba è sempre ed esclusivamente l’italiano. Questo è un dato significativo, che permette di leggere la caratterizzazione del personaggio non in chiave linguistica – fattore che non influisce sulla rappresentazione dell’eroe – bensì in una prospettiva storica. Tullio Saba è l’emanazione della memoria collettiva, metafora di lotte, avvenimenti, momenti storici che hanno segnato intere generazioni di sardi. Chi rievoca le sue gesta, vere o presunte, lo fa nella propria lingua – l’italiano regionale di Sardegna o l’italiano neostandard, raramente il sardo – ma Tullio, raccontato, plasmato dalle voci dei “testimoni”, non può avere una lingua, perché frutto del ricordo e dell’invenzione. Il cinema, portando in vita un personaggio tanto contraddittorio quanto poliedrico, non può servirsi di più codici per la sua definizione, ma ha bisogno di una lingua passepartout che funga da ponte tra la storia narrata e il pubblico. L’italiano era l’unica scelta possibile.