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I. 3 “Nuovo cinema sardo”: film, registi, storie di Sardegna

III.3 Il film

III.3.3 Le lingue de Il figlio di Bakunìn

III.3.3.1 Il turpiloquio

Altri due attori non sardi il cui parlato è caratterizzato dall’immissione di espressioni dialettali sono Massimo Bonetti (Giacomo Serra) e Claudio Botosso (Ulisse Ardau) . Nella scena che abbiamo scelto di riportare, i due minatori hanno un animato scambio di battute con il capo del personale, Locci:

FB, 53-54

Un giorno ci mandano alla settima, la galleria più in fondo, nelle viscere della terra, […]. L’ultima ha sempre un nome di donna, Margherita, Cristina, Elena, forse perché le gallerie così in fondo sono pericolose, infedeli, ambigue e figlie di puttana proprio come le donne.

Sceneggiatura, s. 50 Film, min. 21:27-51

Sorvegliante Locci: Saba e Ardau, alla Elena. Serra: Locci ma mi che sei un bastardo. La Elena è chiusa da mesi, è sempre allagata. Questi sono nuovi non hanno le palle. Lì sotto ci crepano. Capo sorvegliante: Ah sì? Allora ci mando pure a te Serra, così gli tieni compagnia.

Ulisse: Cazzo, io non ci sono mai andato così in fondo, dicono che è trecento metri nelle viscere della terra. Bagassa di sua mamma!

Tullio: Trecentocinquantadue metri! Beh! Andiamo?

LOCCI

Saba Ardau Puddu alla Elena// ARDAU

Io non ci sono mai andato così in fondo/ bagassa di sua mamma//

SERRA

Locci/ mi’ che sei un bastardo// la Elena è chiusa da mesi// questi qua sono nuovi/ non hanno le palle/ ci crepano là sotto!

LOCCI

Ah sì? Allora ci mando pure te Serra così gli tieni compagnia!

Giacomo Serra apostrofa il capo del personale con un «mi’ che sei un bastardo», dove mi’ è l’imperativo del verbo mirai, ‘guardare’. I nuovi sono inesperti, non hanno le palle - ‘il coraggio’ o ‘la competenza’ - per lavorare in una galleria chiusa da mesi, pericolante e pericolosa. Serra, da minatore navigato e temerario, si può permettere di alzare la voce con Locci per prendere le difese dei suoi compagni ed esibire il suo ruolo di leader. Si noti anche l’omissione dell’enunciato è sempre allagata nella battuta filmica.

Ulisse Ardau reagisce con un’eloquente imprecazione: bagassa di sua mamma – posta in chiusura di turno nella sceneggiatura. Calco della colorita espressione sarda bagassa (d)e mamma sua, è usata come insulto ma anche come interiezione per esprimere rabbia e disappunto. In italiano la locuzione potrebbe essere resa con un poco gentile ‘figlio di puttana’, che rimanda al testo originale, dove l’epiteto è

riferito a tutte le donne. Il turpiloquio è presente anche nella battuta della sceneggiatura, che esibisce inoltre un attacco marcatamente disfemico («Cazzo»). L’enunciato «dicono che è trecento metri nelle viscere della terra», vistosamente didascalico e in contrasto con il tono dell’intera battuta, è stato omesso successivamente, assieme alla battuta successiva di Tullio.

Il termine bagassa, entrato nel repertorio sardo attraverso il catalano bagassa, è il corrispettivo regionale dell’italiano bagascia115, e ricorre diverse volte

nel film – la prima volta pronunciata dal quarto testimone a proposito della moglie di suo fratello, una Saba - anche nella polirematica fill’e bagassa, ‘figlio di buona donna’, entrambi totalmente assenti nel romanzo. L’espressione compare due volte, la prima nella scena della serenata a Edvige Zuddas, dove l’amico musicista si rivolge a Tullio Saba dicendogli bellu fill’e bagassa chi ses/ o Tullio116, la seconda preceduta

dal superlativo assoluto, unu grandissimu fill’e bagassa, incastonata in un discorso interamente in italiano117. Trattandosi di una locuzione molto comune e diffusa nel

linguaggio colloquiale e gergale, lo spettatore, sardo e non, non fatica a riconoscerne ed apprezzarne la carica ipocoristica e non può fare a meno di ridere o sorridere: si può forse affermare che il regista la inserisce per creare un elemento di unione e familiarità con i personaggi del film, e accorciare la distanza tra la realtà e la finzione.

La presenza del turpiloquio è maggiormente evidente nel parlato filmico che nel romanzo. A parte il caso di bagassa e dei suoi derivati, nel film si ritrova un coglione, pronunciato da Tullio Saba e ripreso da un dialogo tra Ulisse Ardau e Giacomo Serra riportato nel XIV capitolo («Far crollare una galleria in testa a un padre di famiglia che si guadagna il pane in fondo a un pozzo? Manco se Stalin viene qui a chiedermelo di persona. Non può essere così coglione» FB, 57).

La frase «era intrigato con la famiglia di una prostituta» (FB, 65) è leggermente più marcata in disfemia nella versione cinematografica, dove prostituta diventa puttana. In un’altra scena, i toni di una conversazione tra uomini, in piazza, si fanno più espliciti rispetto a quelli riferiti dal settimo testimone nel romanzo: la

115 Per l’italiano, cfr. vocabolario online Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/bagascia/. Per

il sardo, cfr. PORRU (1832); SPANO (1852); FARINA (2002); PUDDU (2000-2015). 116 Min. 62:27.

117 Archivista testimonianza: Bel tipo quel Saba/ pieno di invenzioni/ unu grandissimu fill’e

bagassa// l’ultima volta che l’ho visto aveva il capannone al porto// dopo l’alluvione fu necessario organizzare strutture di raccolta e distribuzione degli aiuti// a capo di una fu nominato lui// requisì un capannone e cominciò ad ammassarci tutto quello che arrivava// con quella roba ci trafficava/ Dio solo sa come/ “a fin di bene” dicono certi/ anche nel suo interesse/ dico io/ pare che le cose di valore se le portasse a casa// (min. 66:08).

frase «se avevano saltato la cavallina in sacrestia» (FB, 29), ironica e aggraziata pur nell’immagine peccaminosa che veicola, è esplicitata nella modifica «quale delle donne avesse fatto le porcherie col prete»118. La variazione diacronica e quella

diamesica entrano in gioco: sebbene l’azione sia situata negli anni Trenta/Quaranta, il film tende a livellare il parlato sul neo-standard o italiano dell’uso medio contemporaneo, per cui tutte le espressioni dal sapore aulico o letterario sono espunte dai dialoghi del film. Citando Menarini, potremmo osservare che alcune «espressioni dialettali o popolari, tipiche di determinate regioni o ambienti, e pressoché sconosciute fuori da quei confini, […] trasportate sulle schermo non vanno, mentre altre, in analoghe condizioni, risultano immediatamente perspicue, piacciono e subito attecchiscono»119.

Bai bai/ fragaddi sa udda120 è la battuta di Antoni Saba rivolta al cane, il cui

fiuto infallibile smaschera la colpevolezza della moglie del direttore Sorbo. Nel film è presente anche la polirematica metterla nel culo, col significato di ‘fregare, imbrogliare, raggirare’, impiegata da Claudio Botosso (Ulisse Ardau) in una scena che ha per protagonisti Locci (Giuseppe Boy), il capo del personale, e i minatori. Locci è incaricato di leggere il testo dell’accordo scritto dal direttore e menzionato sia nel romanzo (FB, 81) che nella testimonianza dell’uomo121:

Locci: Chi vuole tornare al lavoro deve sottoscrivere un patto di collaborazione con la direzione/ l’abolizione della commissione interna per la sicurezza/ divieto di ricreare le precedenti organizzazioni sindacali/ divieto di mantenere organizzazioni di partito tra il personale/ divieto di sciopero per almeno due anni//

Ardau (fa una pernacchia): Locci/ mi’ che sei un crumiro// a te te la metteranno sempre in culo//

Locci: Ardau non fare tanto il barroso/ se hai tempo da perdere va’ a casino e lascia in pace chi vuole lavorare!

118 Min. 12:54.

119 MENARINI (1955: 157).

120 «Vai vai, odorale la figa» (min. 12:40). 121 Min. 43:30.

Ulisse Ardau accusa Locci di essere un crumiro122: l’enunciato ha la stessa

struttura sintattica e lo stesso tono sfoggiati da Giacomo Serra in una scena analizzata precedentemente. Né il termine crumiro né l’eloquente proposizione successiva, che completa e rafforza l’epiteto, si ritrovano in Atzeni. Locci invita il minatore a non fare tanto il barroso, espressione dell’italiano regionale sardo che significa ‘non fare lo sbruffone, il gradasso’, e lo esorta ad andare a casino, ossia, disfemisticamente, a tornarsene a casa, se non ha voglia di lavorare. In un breve scambio di battute sono impiegate due locuzioni alquanto vivaci (metterla nel culo a q.no e andarsene a casino), la prima panitaliana, la seconda tipica dell’italiano regionale sardo, che rivelano una situazione comunicativa informale, tra persone della stessa condizione o estrazione sociale, dove la tensione è smorzata dall’elemento comico – la pernacchia di Ardau.

Il termine culo ritorna nella deposizione di Bannedda, in sardo e in italiano; finocchio, per ‘omosessuale’, è presente nella testimonianza di Locci. Si annoverano inoltre un fottersene nella battuta pronunciata da Ulisse Ardau («Serra se ne fotte del cottimo») e l’insulto bastardo (due occorrenze). Uno dei testimoni anziani riferisce un coglionare - voce popolare con il significato di ‘raggirare, imbrogliare’ - nell’enunciato «nel lavoro di galleria c’è poco da coglionare/ esce l’uomo come è veramente»123 - mentre il termine cazzata, sinonimo di “stupidaggine, fesserie”,

ricorre una sola volta.

Si hanno due occorrenze di cazzo124 in due domande a struttura identica

(ALLOCUTIVO + CHE CAZZO + SV) , una rivolta a Tullio Saba («Tullio/ che cazzo stai

scrivendo?») e la seconda, nella stessa sequenza, a Giacomo Serra («Serra/ che cazzo hai combinato?»): in entrambi i casi il turpiloquio sostituisce il cosa delle interrogative125.

Il largo impiego di termini disfemici sembrerebbe confermare la conclusione a cui giunge Alberto Menarini, secondo il quale

122 Il termine crumiro, di uso corrente dell’italiano sindacale, è un trasporto del francese kroumir,

calco dell’arabo classico khrumīr, nome degli abitanti della Crumiria, nella Tunisia occidentale, famosi per le scorrerie e le razzie nell’Ottocento, che ora designa il dipendente che lavora anche in occasione di scioperi, in opposizione alle direttive del sindacato o alle ragioni comuni dei colleghi scioperanti. Si veda la definizione nel dizionario Treccani:

http://www.treccani.it/vocabolario/crumiro/.

123 Min. 21:53.

124 Parola passepartout, cfr. TRIFONE (1993).

125 RADTKE (1993: 235) ha dimostrato la desemantizzazione di certe voci di origine sessuale, tra cui

fottersene, entrate a far parte a pieno titolo dell’italiano colloquiale attraverso il linguaggio giovanile.

[l]a ricerca di espressioni popolari, basse o gergali, è più che altro dovuta […] all’intento superficiale di colorire con qualche facile pennellata l’ambiente in cui si svolge la scena, di presentare personaggi convenzionalmente aderenti alla loro parte. Questi sforzi, giustificabili in genere nelle intenzioni se non sempre riusciti nella misura e nella forma, vengono per la verità intensificati quando si abbiano film di ambiente nettamente circoscritto, per i quali non sarebbe ovviamente possibile adottare un tipo di parlato neutro, o ancor peggio contrastante con i presupposti psicologici o professionistici dei personaggi.126

Sarebbe quindi la necessità di una maggiore aderenza al parlato informale e di una più verosimile caratterizzazione dei personaggi a giustificare l’uso massiccio del turpiloquio nel medium cinematografico.

Nondimeno, solo quarant’anni prima, Menarini avrebbe condannato il dilagare «della volgarità e della licenziosità […], le intemperanze, e le scurrilità o le oscenità» che forzano «la smania veristica sino a far[e del cinema] uno specchio fin troppo fedele della libertà di linguaggio che caratterizza i nostri tempi […]»127.