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Il romanzo di Sergio Atzeni: “un affresco corale ed epico”

I. 3 “Nuovo cinema sardo”: film, registi, storie di Sardegna

III.1 Il romanzo di Sergio Atzeni: “un affresco corale ed epico”

Le lettura di qualsiasi romanzo parte dal titolo, elemento testuale che assolve a diverse funzioni: «1) identificare l’opera; 2) designare il suo contenuto; 3) valorizzarla»1. Ne Il figlio di Bakunìn, titolo tematico in quanto rimanda al

protagonista, si danno le informazioni essenziali sul valore e il significato dell’opera: il rapporto padre-figlio, che sta alla base della ricerca dell’identità e del bisogno di conoscenza, è tanto pregnante da dare consistenza al titolo del romanzo. Il soprannome del padre di Tullio Saba, Antoni detto Bakunìn, con accento grave sulla sillaba finale, è esplicitato a fronte dell’anonimato del “figlio” che il lettore conoscerà a poco a poco, attraverso i racconti delle voci narranti.

Il figlio di Bakunìn (Sellerio, 19912) si apre con una premessa che introduce

il lettore ai temi centrali del romanzo: memoria e finzione.

Fatti, personaggi, Madonne vestite di nero, luoghi, (anche quando i nomi di paesi, quartieri, vie, corrispondono a luoghi reali) tutto è inventato di sana pianta. Qualunque tentativo di riconoscere episodi accaduti o uomini vissuti è futile. C’è pure qualcosa di vero, ma è così poco che spero mi sia perdonato, non è detto per male. (FB, 9)

La narrazione del racconto principale è filtrata dalla memoria dei personaggi3; la finzione è il perno intorno al quale ruota l’introduzione, quasi un

ammonimento per il lettore che voglia ritrovare luoghi e volti conosciuti o anche solo un accenno ad avvenimenti realmente accaduti. Attraverso un candido tentativo di captatio benevolentiae («ma è così poco che spero mi sia perdonato, non è detto per male»), l’autore prende le distanze dalla storia raccontata e dalla sua presunta veridicità. Il ruolo preponderante della memoria collettiva4 regge l’intera

narrazione de Il figlio di Bakunìn: ciò che si propone il romanzo di Sergio Atzeni non

1 «[…] le tre funzioni indicate (designazione, indicazione del contenuto, seduzione del pubblico) non

sono tutte necessariamente presenti allo stesso tempo: solo la prima è obbligatoria, le altre due sono facoltative e supplementari». (GENETTE 1989: 75-76).

2 D’ora in avanti, tutte le citazioni faranno riferimento a questa edizione. Il titolo del libro sarà

indicato dalle iniziali del sostantivo “figlio” e del cognome “Bakunìn” – FB - seguite dal numero della/e pagina/e.

3 MURRU (1991). 4 SULIS (1994:40).

è solamente ricordare la vita e le gesta di Tullio Saba, una figura dai contorni misteriosi e indefiniti, quasi mitici, ma permettere alle voci narranti di raccontare, servendosi del personaggio Tullio Saba, momenti salienti della loro vita e della storia della Sardegna, in un arco temporale che va dagli anni Trenta ai Cinquanta del Novecento.

Il figlio di Bakunìn, la cui struttura è, secondo Floris, «parcellizzata [dal momento che] le diverse voci che compongono il racconto sono indipendenti l’una dall’altra e nettamente separate»5, mentre secondo Lavinio è «veloce, nervosa,

frammentaria»6, si compone di trentadue resoconti narrati in prima persona. Le

testimonianze lunghe, di cinque o più pagine (capp. V, VI, IX, XII, XIV, XIX, XX, XXIV, XXX), si succedono ad altre brevi, di una o due pagine (capp. I, II, III, IV, VII, VIII, XIII, XVI, XVII, XVIII, XXII, XXIII, XXV, XXVI, XXVII, XXVIII) e brevissime (capp. X: tre proposizioni7; XI: due periodi articolati in nove proposizioni8; XXI: cinque

proposizioni.) Ricordi belli e piacevoli (IX; XXX) si alternano a testimonianze negative, spesso di biasimo (X; XV; XXV). Le testimonianze, quasi sempre anonime, pretendono «(...) di restituire un’immagine composita della realtà»9, e partecipano

alla ricostruzione e alla definizione della figura, a tratti leggendaria a tratti ambigua, di un uomo nel quale si fondono storia e memoria. Lavinio parla di un «mosaico di voci, ora maschili, ora femminili, (...): sono persone che l’hanno conosciuto o frequentato più o meno occasionalmente (...), che ne hanno ricordi precisi o sfocati o frammentari, (...) e, pur parlando di Tullio Saba, danno anche un’immagine precisa di sé»10. In ogni singola testimonianza, convivono il tempo passato, che coincide con

il ricordo di Saba, e il tempo presente, in cui il racconto si offre agli occhi del lettore per mezzo dell’intermediazione dei narratori di primo grado. Attraverso la tecnica del falso discorso orale, l’emittente (con la sua voce11) e il destinatario (il ragazzo

con l’orecchino) sono presenti nel momento dell’enunciazione.

Un ulteriore tratto strutturale del romanzo è l’impiego delle note, «minimal, skeletal, succinct, their purpose being to elaborate on the text without engulfing

5 FLORIS (2001: 71). 6 LAVINIO (2001: 69).

7 Usiamo proposizione con il significato di «frase con struttura predicativa», sia che essa esprima un

senso compiuto […] oppure no […]» (GRAFFI/SCALISE 2002: 176).

8 Per periodo intendiamo una «frase costituita da più proposizioni» (ROSSI 1999: 535) e separato dal

periodo successivo per mezzo di un punto.

9 MARCI (1999: 40). 10 LAVINIO (2001: 68).

it»12. Più precisamente, le sei note poste alla fine del romanzo offrono la traduzione

dei termini dialettali presenti nei capitolo V - i primi cinque - e XV – il sesto:

mrajahi: Volpe

panadas: Carne o anguille cotte al forno in involucro di pasta simile a quella del pane fatto in casa

bruscia: Strega sciollori: Deliri

taccula: Serie di otto tordi bolliti

murigare: Mescolare. La domanda dell’intervistato su riferisce al proverbio campidanese: «Kandu murigasa sa m…bessi su vragu» che, in traduzione libera, suona «Se mescoli la m… l’odore si spande tutt’attorno»13.

Le note impiegate dall’autore svolgono una funzione esplicativa, in quanto «highlight the interplay between author and subject, text and reader, that is always at work in fiction»14.

Le testimonianze danno l’impressione che l’autore le abbia trascritte direttamente dal registratore Aiwa menzionato nell’ultimo capitolo. La storia che Atzeni racconta è vera nel senso aristotelico15 del termine: egli, in quanto “poeta”,

dice le cose che potrebbero accadere, non quelle che sono realmente accadute:

La storia che ho raccontato in questo libro è, ugualmente, una storia vera, ma... come si può dire? Non è che uno possa riconoscere i personaggi, possa dire: ecco, quel personaggio è tizio, mio zio. No, sono storie vere nel senso che, seppure non sono successe così come le ho raccontate, sarebbero potute succedere, perché le persone sono quelle e vanno raccontate tutte16.

12 BENSTOCK (1983: 204).

13 Tutte le note sono a p. 121 del romanzo. 14 BENSTOCK (1983: 205).

15 Nella Poetica, Aristotele spiega che «lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in

prosa e l’altro in versi […], ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare [1451 b]».

«[I]nizialmente c’è un impulso etico e insieme emozionale che spinge lo scrittore a guardare verso la storia e le storie della propria terra per ricavarne spunti e materia di narrazione»17: il lavoro dello storico è trasfuso nell’arte del “poeta” che

legge il reale attraverso le lenti dell’immaginazione. La memoria culturale, intesa come vis, «(...) potere immanente, (...) energia dotata di leggi proprie»18, ha una

funzione liberatoria che costringe i testimoni a riportare in vita il passato, a confrontarsi con esso. La trasmissione della memoria attraverso il racconto orale19

fa sì che il ricordo rimanga intrappolato nella trama dell’invenzione, che «lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici» (FB, 119). Ne Il figlio di Bakunìn, Atzeni gioca a «inseguire le interpretazioni e le modalità espressive di molteplici narratori chiamati a riferire su un unico tema: la definizione di una personalità umana»20.

Il ruolo preponderante della vis mnesica nel dipanarsi dell’ordito narrativo trova riscontro nell’alta frequenza del sostantivo memoria (10 occorrenze) e del verbo ricordare (26 occorrenze). Il primo indica la facoltà umana di immagazzinare ricordi e la possibilità di tramandarli agli altri, il secondo designa l’azione di richiamarli alla memoria, propria e altrui, che si esplicita e si rinnova per mezzo del racconto:

i guspinesi hanno buona memoria; nella memoria e nelle parole altrui, p. 12;

la memoria non è più quella di un tempo anche se non sono ancora vecchio, e del resto io non ho mai avuto buona memoria, p. 26;

Ricordo, ma la mia memoria ormai gira disordinata, p. 31; Con gli anni la memoria è peggiorata, p. 67;

ho sempre avuto un’ottima memoria, p. 77;

17 MARCI (1999:32). 18 ASSMANN (2002: 30).

19 CAPRETTINI (1992: 167) ricorda che «il puro e semplice ‘prendere la parola’, ‘parlare di se stessi’

non è unicamente un modo di comunicare, di liberare energie, ma la via per cercare di ordinare razionalmente la propria esperienza». Atzeni sembra aderire perfettamente alle parole di Giorgio Raimondo Cardona a proposito del ruolo dell’oralità nella trasmissione della memoria: «memoria come facoltà generale, ma in realtà le memorie sono più d’una. Ci sono le memorie dei singoli che sommate si fanno memoria collettiva, per garantire la trasmissione di ciò che la comunità vuole conservare» (CARDONA 1990: 219).

XXIV. I miei figli conoscono questa storia a memoria, p. 99

XXXII. nella memoria di chi l’ha conosciuto; sui fatti si deposita il velo della memoria, p. 119. Non ricordo nessun Saba, p. 14;

Mi ricordo una vestina di fustagno nero, p. 18; parola per parola come lo ricordo, p. 21; mi

ricordo come se era oggi, p. 22;

Me lo ricordo perché l'ha detto molte volte, p. 24; Il funerale del vecchio Antoni lo ricordo bene, p. 25; Mi ricordo un giorno di maggio, p. 26;

Come no, mi ricordo benissimo, p. 29;

Ricordare mi ricordo tutto, figlio mio; Ricordo, ma la mia memoria ormai gira disordinata,

p. 31;

Mi ricordo anche le parole di una canzone che cantavano, p. 36; Mi piace ricordarla, p. 39; XI. Lui non lo ricordo, p. 43;

Ricordo bene quell'uomo, p. 50;

Sparate da una pistola di cui non ricordo la marca, p. 71; un terzo di cui ricordo perfettamente nome e cognome, Ulisse Ardau, p. 72; Ora non ricordo quali elementi, p. 73;

ricordo perfettamente ogni particolare, p. 77; non ricordo esattamente le parole, ma i

concetti erano chiari, p. 84;

XXIV. Io ero bambino ma ricordo lo scandalo, pp. 88-89; Non che ricordi bene cosa è successo, ero ubriaco di vino e di musica straniera, p. 92; un attore americano che a quel tempo era famoso, ora il nome non lo ricordo…, p. 94;

XXVIII. Quell’uomo non ricordo di aver sentito che abbia fatto del male a qualcuno, p.103 XXX. Pregavo quel Dio che ricordo soltanto nell’angoscia, p. 113;

XXXI. ricordo il nome, «Tiziana stanotte a Mergellina», p. 117.

Il verbo è sempre coniugato alla prima persona singolare del presente indicativo, fatta eccezione per l’unica occorrenza all’infinito, tematizzata, nell’incipit dell’ottavo capitolo. L’atto del ricordare sembra inscindibile dalla volontà di raccontare, e così le voci narranti, mentre ricordano e riportano in vita la figura di

Tullio Saba, riflettono sulla propria capacità di narrare facendo affidamento sulla memoria. La madre dichiara di avere «un modo di raccontare disordinato, dispersivo» e di attorcigliare tutti i fili (I, 12); il sesto testimone si perde «in rivoli e rivoletti» (VI, 26), mentre l’anziano Ulisse Ardau perde il filo (XIV, 57). Il verbo raccontare ricorre nel testo ventinove volte, di cui undici alla prima persona singolare:

«vuoi che ti racconti la sua storia? Il nostro incontro?» (I, 12); «non avevo mai raccontato questa storia a un uomo» (IX, 39); «li ho visti, ora ti racconto come» (XII, 46); «Ho raccontato il sogno, altro non sapevo» (XVII, 69); «A me ha cambiato la vita, come ora ti racconto» (XXIV, 94); «Sai quante volte l’ho raccontata?» (XXIV, 99); «Ti racconto un episodio che illustra il clima» (XXIX, 105); «Se poi racconto qualcosa, finisco sulle pagine dell’Unione? In questo caso non racconto nulla. Ho raccontato questa storia soltanto una volta, alla mia migliore amica. […]Te la racconto» (XXX, 108); «Perché mi fai raccontare questa storia? Non voglio» (XXX, 113)

Quest’ultimo esempio, che esula dal computo delle occorrenze poc’anzi riportate, è peculiare perché racchiude il senso della ricerca della memoria, che si manifesta in quanto sollecitata da e condivisa con un interlocutore (il narratario)21.

Ha dichiarato Atzeni:

Ho pensato prima a una coralità di voci, poi a cosa dovessero raccontare. […] Mi interessava creare, per esempio, una donna che parlasse in modo tale da essere definibile: anche se un lettore non sa chi è, dopo che lei ha parlato per mezza pagina, sa già che è una donna sarda di una certa età, non tanto per ciò che dice ma per come lo dice. […] Quella de Il figlio di Bakunìn era una forma più classica, anche se non molto consueta22.

21 Per un confronto con le occorrenze del verbo raccontare nel testo filmico, si rimanda al § III.3.6. 22 SULIS (1994: 40).

La simulazione del parlato è resa, tra l’altro, per mezzo della paratassi, prevalentemente asindetica23 e con scarsa incidenza di subordinazione24, anche nei

periodi più lunghi e apparentemente più complessi. L’andamento paratattico segue il filo logico dei pensieri e dei ricordi delle persone intervistate durante l’inchiesta, come mostrano gli incipit dei primi dieci capitoli:

I: Stanotte ho sognato Tullio Saba. | Aveva la pelle del viso bianca come cera, e gli occhi spalancati, spaventanti, o forse un po’ tristi… | Una camicia americana del tempo di guerra,

lacera, a brandelli.

II. Saba, || quello che vendeva vino? No?

Suo fratello, || quello che si è sposato con la sorella di Arremundu Corriazzu?

III. Non ricordo nessun Saba. | Quarant’anni in miniera, a San Giovanni, nessun Saba. | I Saba || che conoscevo || vendevano vino | e facevano scarpe, | ma in miniera nessuno. | Un momento!

Edigardu Saba! Lui sì.

IV. Di persona non l’ho conosciuto. | Di fama, sì. | Sapevo ch’era comunista.

| Di persona ho conosciuto il padre, | brav’uomo e ottimo calzolaio, ma soprattutto il fratello del

padre, Peppi Saba, miglior artigiano di carri di tutto il Campidano.

V. Tullio Saba era un bambino vanitoso | l’ho scoperto molte volte che si specchiava nell’unico specchio di casa, sul comò in camera da letto di Donna Margherita. | Ero uno specchio di lusso

23 CANALI (1995: 16). BERRUTO (1985: 136-137) ha osservato che la giustapposizione asindetica è il

«collegamento sintattico interfrasale più frequente nel parlato». Sull’alta ricorrenza della paratassi nella lingua parlata, cfr. anche BERRUTO (1993) e BERRETTA (1994). Scrive BECCARIA (2004: 418): «la

p[aratassi] è il tipo di costruzione del periodo preferito dalla lingua parlata e nei discorsi informali, mentre l’i[potassi] richiede una struttura più complessa in quanto organizzata gerarchicamente, viene impiegata nella lingua scritta ed a livelli diafasici più elevati».

24 La semplicità e l’essenzialità del parlato sul piano sintattico sono state successivamente confutate

da VOGHERA (1992; 2010), che ha chiarito i motivi della scarsa subordinazione del parlato: l’ordine

e il grado di dipendenza della subordinata rispetto alla principale; la sequenzialità degli eventi; la specializzazione semantica dei connettivi. Cfr. anche SERIANNI (1988: 450).

esagerato, con la cornice di stucco color oro e in alto un angioletto grasso, nudo. |[…] Il bambino aveva sempre scarpe fini, nere e lucide; | certo, il padre era calzolaio, | ma nessun bambino in paese aveva scarpe così belle. | E il padre non era sarto, | ma nessun bambino in paese aveva vestiti così eleganti. | Mi ricordo una vestina di fustagno nero con l’orlo ricamato in rosso a fiori e frutta, || che lo faceva sembrare metà una bambina e metà il figlio di un barone. (p. 18)

VI. Quando ho conosciuto Tullio Saba || ero bambino, | poi per molti anni non l’ho visto, | ma ho un ricordo preciso di lui. | Ma ho sentito mio padre parlare di suo padre, | erano amici || anche se non avevano le stesse idee.

VII. Come no, | mi ricordo benissimo, l’amicizia fra il prete e Bakunìn? | Ne parlavano tutti.

Amici per la pelle, || ché ognuno dei due gliel’avrebbe fatta all’altro, la pelle.

VIII. Ricordare mi ricordo tutto, figlio mio, | scusa || se ti tratto con familiarità, | ma ho nipoti che hanno l’età tua, | voi ragazzi siete tutti uguali, oggi, con questi capelli lunghi e l’orecchino. IX: Io e mio marito Ottavio siamo arrivati a Carbonia tre mesi prima del giorno | che è venuto il Duce || a inaugurare la città.

X. L’ho conosciuto a Carbonia. | Aveva l’amante e | non gli piaceva lavorare.

Come si può notare dagli esempi che abbiamo scelto di riportare, le testimonianze iniziano sempre con una proposizione principale cui seguono altre clausole indipendenti o coordinate per asindeto o per mezzo di connettivi dotati di una debole carica semantica: e, ma, poi25. Le subordinate non vanno mai oltre il

secondo grado e in genere seguono la principale o la coordinata asindetica, fatta eccezione per i capitoli II e VI che iniziano rispettivamente con una subordinata

relativa – subito dopo la tematizzazione del cognome Saba - e con una temporale. Inoltre, è evidente la ricorrenza della sintassi nominale26, in corsivo.

Nel caso della testimonianza di Dolores Murtas (cap. V), la complessità non è data da una intricata costruzione sintattica, bensì dall’affastellamento di particolati descrittivi minuziosi e dalle ripetizioni («ma nessun bambino in paese aveva …») che conferiscono alla frase un impianto baroccheggiante.

Altrove, si registrano casi di subordinate dipendenti da altre subordinate che seguono una proposizione principale:

XII: Così ero in casa || quando quelli venivano a picchiare sul muro ||| fingendo grande amicizia. ||| Dopo un po’ anche quest’abitudine è passata, | non erano riusciti a sentire altro che rumore di muro pieno. | Ma ormai la storia della cassa piena d’oro era data per certa, | e in paese ha preso a girare la voce || che la cassa fosse dentro un armadio || e che donna Margherita e io dormissimo nel letto proprio di fronte all’armadio, ||| per paura che la rubassero. (p. 47)

XIV: Chi era Stalin per noi allora? | Parlo degli ultimi anni || che portano alla guerra. | Chi era? | Era il capo del paese || dove non c’erano padroni, || dove i minatori guadagnavano più degli ingegneri, ||| perché facevano un lavoro più faticoso e pericoloso, ||| dove le armature di Giacomo Serra sarebbero state citate ad esempio e imitate, || dove c’era il libero amore, || dove i minatori andavano ai concerti e a teatro, in abito da sera. (p. 54)

Non mancano gli esempi di clausole parentetiche che il più delle volte assolvono una funzione fatica:

VIII: Ricordare mi ricordo tutto, figlio mio, scusa se ti tratto con familiarità, ma ho nipoti che hanno l’età tua […] (p. 31)

26 Cfr. BERRETTA (1994); VOGHERA (2010) distingue tra le frasi senza verbo e le ellittiche che si

ritrovano nei turni di risposta, come ad esempio la frase «Come no», posta in apertura del settimo capitolo.

IX: Non avevo mai raccontato questa storia a un uomo. Con te è diverso. Forse perché sei un bambino, non offenderti, sembri un bambino, un uomo molto giovane, e io oramai sono vecchia. (p. 39)

XI: Lui non lo ricordo, che vuole, sono vecchia, ma la madre sì (p. 43)

XX: [A]rrivai laggiù, in colonia, non se ne abbia a male, si diceva così a quel tempo, e non mancavano le ragioni, all’evidenza. (p. 78)

Il ricorrere a una sintassi sofisticata e arzigogolata avrebbe reso i testi artificiosi e poco “orali”, privandoli della forza evocativa che li contraddistingue in quanto espressione della memoria collettiva.

L’oralità che caratterizza la narrazione dei personaggi rappresenta una sfida stimolante per Gianfranco Cabiddu, affascinato dal processo di “forgiatura” dell’identità di Tullio Saba e dal riscatto della memoria collettiva attraverso una molteplicità di punti di vista. Atzeni predilige lo «“stile semplice”, assunto come figura del verosimile del romanzo e come forma testuale dell’opzione per una lingua media e comunicativa [al cui centro sta] come polo d’attrazione, il “parlato-scritto”, ovvero la mimesi letteraria del registro orale della lingua»27. Nella sua analisi sulla

lingua e lo stile del romanzo di Atzeni, Lavinio (2001) ha osservato la ricorrenza di tratti e costruzioni tipici del parlato: tematizzazioni, dislocazioni a sinistra e a destra, fatismi, reticenze, pause e frasi interrotte – segnalate dai puntini di sospensione. Ha inoltre notato che il «linguaggio dei personaggi, efficacemente provvisto delle cadenze generali del parlato, [è] attraversato da variazioni sociolettali»28. Il parlato denuncia anche l’estrazione sociale, il grado di istruzione, il

lavoro di ognuno, sia nelle scelte lessicali e nella fraseologia sia nelle strutture sintattiche e nelle forme verbali impiegate. Nel paragrafo dedicato al film29,

osserveremo la ricorrenza dei tempi verbali, nel romanzo e nel film, e la salienza dell’indicativo in luogo del congiuntivo. Analizzeremo, inoltre, i tratti morfosintattici

27 TESTA (1997:10). 28 LAVINIO (2001: 69). 29 Cfr. § III.3.

tipici del parlato: dislocazioni, tematizzazione, tema sospeso, che polivalente, topicalizzazioni e segnali di turn taking più frequenti.