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Dalla prima indemaniazione all’anno 1799

(Pag. 218) In un antico documento esistente nell’archivio di Senigallia, scrit-to nell’anno 1529, si legge che Monterado era a quell’epoca fra gli «enfiteu-si antichi dell’Abazia dell’Avellana» (42); ma meglio di qualunque altra cosa questo padronato ce lo prova la seguente lettera del Card. F(ederigo) Fregoso40 Arcivescovo di Salerno, abate di S. Croce di Fonte Avellana, scritta al Magistrato di Senigaglia, colla quale ricorda a quello che gli uomini di Monterado sono a lui soggetti, eppure vengono gravati a dare cert’opera per la fabbrica della Chiesa del Vescovado.

«Ai Regulatori di Senig(aglia). Magnifici tanquam (quanto) Fratres Carissimi:

gli huomini di Monte Rado li quali (come sapete) sono sottoposti in spirituali-bus alla nostra Abbatia di Santa Croce di fonte Avellana Mi hanno fatto inten-dere esser molestati da voi: et esser aggravati a dar certe opere per la Fabrica della chiesia del vescovado di Sinigaglia: e per questo vedendo io il gran pregiuditio che saria per seguire a detta mia Abbadia quando in questo le fusse violato la sua iurisditione spirituale, M’è parso scrivervene, e priegarvi co’ tutto ’l cuore che vi piaccia cessare di molestar dett’huomini: et anco di far a’ me questa ingiuria: et alla mia Abbadia questo pregiuditio: nel che io penso Et per la giustitia: et anco per amor mio debbiate haver riguardo: Et maxime non essendo questa cosa di molta importantia ...

40 Federigo Fregoso (n. Genova 1480 ca., † Gubbio il 22 luglio 1541) era nipote di Federico di Montefeltro duca di Urbino; fu arcivescovo di Salerno dal 5 maggio 1507 al gennaio 1533 e contemporaneamente vescovo di Gubbio fino alla morte; nel 1539 fu nominato cardinale da Paolo III. Cfr. Enrico Carusi, Fregoso Federico, in Enciclopedia Italiana Trec-cani (1932); Giampiero Brunelli, Fregoso Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 50 (1998).

Fig. 14. Lettera del Card. Fregoso al Magistrato di Senigallia (1538). ASC-Senigallia, n. 13, Vescovi, c. 3.

Qui si interrompe la trascrizione della lettera e alla pagina seguente (pag.

219) si trova la seguente:

Nota (del rilegatore): Le pagine, dalla 219 alla 230 che si riferiscono a Monterado, mi dicono, furono subdolamente asportate ancor prima della guerra ’40/45, né rin-venute nemmeno da ricercatori interessati quali Cinciari41, Gianfranceschi42 e forse Paci43, diligenti e colti. Il restauratore, per dare consistenza al volume, vi ha sostitu-ite queste bianche, il 18 agosto 1994. (Seguono n. 11 pagine bianche numerate fino alla pag. 230).

Nota del curatore della pubblicazione

Se la trascrizione della lettera del Card. Federigo Fregoso fatta da Palmesi si interrompe al punto in cui la si è lasciata in precedenza, si conosce il seguito della stessa perché essa è conservata nell’Archivio Comunale di Senigallia (n. 13, Vescovi, carta 3), come viene indicato dell’autore nella nota n. 43 (le note relative al ca-pitolo non sono andate perse, perché Palmesi le ha collocate tutte alla fine del suo ms. prima dell’indice finale). Pertanto si ritiene doveroso completare qui di seguito la parte mancante di detta missiva, che era indirizzata «Alli Magnifici Signori Confaloniero e Regolatori di Sinigaglia: quanto fratelli Carissimi»44.

«... Et maxime non essendo questa cosa di molta importantia a Voi: et a me grandissima: perché con l’essempio di questo tutti gli altri vescovi diocesanj cer-cariano occupare la iurisditione di questo mio monasterio: Quando altrimenti fusse da voi esseguito: io sarei constretto a recorrere al Sr. Duca Ill.mo et in ogni altro luoco che fusse necessario per mantenere quella iurisditione come l’ufficio

41 Francesco Cinciari, Monterado dall’epoca neolitica ad oggi, S.T.E.U., Urbino, 1970.

42 Nazzareno Gianfranceschi, Monterado dai Malatesta a Napoleone, ciclostilato, senza ed., di pagg. 89, Senigallia 1970; Id. Monterado storia di un paese, Tipolitografia Sayring, Mon-terado 1994.

43 Si tratta di Renzo Paci (Monterado, 18 settembre 1939, † Senigallia, 13 gennaio 2007), storico e docente all’Università di Macerata; fra le sue diverse opere, ricordiamo Una scuola di filatura e tessitura in Senigallia alla fine del Settecento, in Clio, anno I (1965), n. 1, pp.

151-160, in cui si parla della fabbrica di tessuti di Monterado; da non confondersi con il fratello Enzo Paci (Monterado, 18 settembre 1911, † Milano, 21 luglio 1976), famoso filosofo esistenzialista contemporaneo a cui, tra l’altro, è dovuta la fondazione e direzione della rivista filosofica Aut Aut.

44 Così è indicato sul plico della missiva, completa di sigillo, precisando che ci siamo valsi dell’originale anche per verificare la trascrizione fatta dal Palmesi.

e debito mio ricerca. Delli lavoratori miej della Torre io non dico così: benche quanto io posso ve gli raccomando. Altro non mi occorre dirvi, a voi di buon cuore mi raccomando.

Da Agobbio (Gubbio) il dì 3 di Aprile 1538 Tutto vostro F(ederigo) Fregoso

Arcivescovo de Salerno F(ratello)»

Per la sua importanza la lettera in questione è stata riportata in seguito anche da Cinciari (cit., p. 109) e da Gianfranceshi (cit., p. 23), indirizzati proprio dalle note poste da Palmesi al testo. Si avverte però che entrambi gli storici citati, restitu-iscono erroneamente come firma del documento da loro trascritto «Antonio Fregoso»

anziché «Federigo».

Le note di Palmesi (dalla n. 42 alla 47 compresa) al capitolo asportato ci permet-tono di dedurre che egli aveva già precorso, almeno fino agli avvenimenti del 1799, la ricerca dei due successivi storici monteradesi.

Per dovere di documentazione, dunque, si ritiene importante riportare di seguito le note di Palmesi (con alcuni commenti) prima di ipotizzare quale potesse essere la storia da lui scritta riguardo ai successivi passaggi di proprietà dei beni avellaniti in Monterado.

Note di Palmesi al cap. V, parte seconda (pag. 465 del ms.)

(42) Lettera C, c(arte) 3.

(Nell’Archivio Comunale di Senigallia (ACS) al luogo indicato non si è trovata la citazione corrispondente).

(43) N. 13, Vescovi, a pagina 3.

(Questa lettera è stata rintracciata in ACS e trascritta in precedenza).

(44) Facultates ac Privilegia Ven(erabilis) Collegii Germanici et Ungarici de Urbe, Memorie diverse, N. VII, p. 216.

(In ACS non si è trovata la corrispondenza neanche per questa citazione. Si ritiene che formi un concetto unico con la successiva nota e, comunque, attiene allo stesso argomento).

(45) Ex Typographia R(everendae) C(amerae) Apost(olicae), 1663, Istrumento stipulato il 22 giugno del 1663, in Archivio di Senigallia, Memorie diverse, N. 3, fasc. 9.

(Il riferimento è corretto e si riferisce al «Privilegium Concessum titulo oneroso mediante solutione Scut(orum) 7000 aurei stamp(arum) in Camera Apostolica A Santiss(imo) D(omino) Nostro Alexandro P. P. VII V(enerabili) Collegio Germanico Urbis Extrahendi extra Statum Ecclesiaticum, quolibet anno, in perpetuum, rubra mille frumenti recollecti, & recolligendi in bonis Abbatiae Fontis Avellanae in Statu Urbini, absque ullo impedimento libere, & sine ulla solutione, onere, datio, seu gabella impositis, & imponendis»).

(46) Atti consiliari di Monterado, ad annum.

(Difficile capire a quale anno alludesse il Palmesi).

(47) Questi due documenti esistono nell’Archivio di Senigallia, ma io nel copiarli dimenticai di segnare le indicazioni del volume, nel quale sono in origi-nale, e che io vidi con i miei istessi occhi.

(Impossibile sapere a cosa si riferissero i due documenti ritenuti così importanti da Palmesi, perché l’indicazione dell’eventuale trascrizione da lui fatta nelle pagine andate perdute è toppo vaga per rintracciarli).

Ricostruzione ipotetica della parte mancante di G. Santoni

Analizzando il sommario del Capitolo V di Palmesi ed integrandolo con le poche note da lui scritte a nostra disposizione, possiamo ipotizzare che il seguito mancante di questo suo capitolo, a grandi linee, si snodasse come segue.

Dopo aver ricordato quanto da lui scritto nel precedente Capitolo terzo, cioè che oltre i due terzi delle terre coltivabili di Monterado appartenevano alla abbazia di Fonte Avellana, che ne possedeva pure nel vicino comune di Tomba ed in quasi tutti i paesi della vallata del fiume Cesano45, il dott. Palmesi, che dovette visitare il monastero allorché era chirurgo condotto nella città di Cagli alle pendici del monte Catria, deve avere accennato alla vita dissoluta e scandalosa condotta da quei mo-naci46, accecati dalla opulenza e dimentichi degli insegnamenti spirituali di S. Pier Damiani prima, di Sant’Albertino poi, e di sicuro avrà fatto un accenno letterario come si riscontra talvolta in altre sue opere e in altre parti del suo ms., al Canto XXI del Paradiso, v. 106-138, in cui Dante Alighieri tesse gli elogi del primo personag-gio: «Tra’ due liti d’Italia surgon sassi, / e non molto distanti a la tua patria, / e fanno un gibbo che si chiama Catria, / tanto che ‘troni assai suonan più bassi, / di sotto al quale è consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria. [...]

In quel loco fu’ io Pietro Damiano, / e Pietro Peccator fu’ ne la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano.»

Gli scandali dei quei monaci erano giunti a tal punto che le pubbliche lamentele indussero il papa san Pio V47, a sopprimere l’ordine avellanita e ad affidare il

mona-45 Cinciari, cit., pp. 109-112; Gianfranceschi, cit., pp. 27-33; gli aa. riportano anche i dati catastali del 1489 e del 1657; i testi dei due autori sono pressoché identici.

46 Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, III, Venezia 1840, p. 153:

«Papa Bonifacio IX, nel 1393, diede il monistero, detto di s. Lorenzo in Campo, in com-menda ad abbati secolari, l’ultimo dei quali fu il Cardinal Giulio della Rovere. Questi con facoltà del Pontefice s. Pio V, nel 1569, rimosse i monaci antichi dell’Avellana perché erano decaduti dal primario istituto, e v’introdusse i monaci camaldolesi. Erano giunti a tale quei monaci Avellani, che non professavano i voti; in luogo di tonaca portavano una veste corta sino al ginocchio; in vece di cappuccio usavano berretta bianca di quattro cantoni, e aveano cambiata la cocolla in un mantello di colore azzurro. Dopo la morte del Cardinal della Rovere, nel 1578, Papa Gregorio XIII applicò i beni della Congregazione al collegio germanico ungarico di Roma, lasciando la custodia del monistero ai monaci camaldolesi, che tutt’ora vi fioriscono».

47 San Pio V, nato Antonio Ghislieri (Bosco Marengo, prov. Alessandria, 1504 - Roma, 1572), entrò nell’Ordine dei Predicatori (domenicani) con il nome di Michele. Teologo e inquisitore intransigente, rafforzò gli strumenti della Controriforma per combattere l’eresia

ed il Protestantesimo e diede nuovo impulso alla Inquisizione. Fece condannare a morte diverse persone considerate eretiche e scatenò una crociata contri i Valdesi in Piemonte e in Calabria, dove a Guardia Piemontese, tra il maggio ed il giugno 1561, fu perpetrata la loro strage, cfr. Wikipedia, l’enciclopedia libera on-line, Strage dei Valdesi di Calabria. Eletto papa (1566), fece applicare con intransigenza i decreti tridentini e fondò la Congregazione dell’Indice (1571). Fu il principale artefice della Lega Santa degli Stati europei contro i Turchi (battaglia navale di Lepanto 7 ottobre 1571) in seguito alla quale istituì la festa della Madonna del Rosario. La sua Bolla In Coena Domini (1568), tendente al ripristino della supremazia teocratica medievale del papato sul potere temporale dei sovrani, si configurava come un vero e proprio tentativo di assolutismo della Chiesa, perché con essa veniva ini-bito il diritto all’Exequatur (l’approvazione preventiva dei sovrani affinché i decreti papali fossero resi esecutivi o meno nei rispettivi Stati). Questa bolla fu aspramente criticata nel Settecento dallo storico illuminista Pietro Giannone (sottoposto ad inquisizione benché anche lui frate domenicano) perché oltre che tendente alla abrogazione dello Exequatur regium, essa autorizzava gli ecclesiastici ad appropriarsi del beni di chi moriva ab intestato (senza avere fatto testamento); v. Giannone, Istoria Civile del regno di Napoli, ed. Giovanni Granvier, Napoli, 1770, Lib. XIII, pp. 353 ss.) Per le sue personali virtù di castità, di carità verso i poveri, di penitenza e di scelta di vita orientata alla povertà, venne canonizzato da Clemente XI il 22 maggio 1712 (con grande sdegno del già citato Giannone, Opere postume, Milano, Soc. Tipograf. de’ Classici italiani, 1824, vol. I, Apologia, parte II, pag.

237) e la sua salma fu esposta alla pubblica venerazione nella basilica romana di S. Maria Maggiore. Sulla biografia di san Pio V, cfr. Simona Feci, Pio V, santo, in Enciclopedia dei Papi (2000) Treccani.

Fig. 15. Piaggiolino, la fabbrica dei Gesuiti del 1686, oggi proprietà dei Barberini. I Barberini acquistarono la tenuta di Piaggiolino nel 1847, in seguito alla rivendita dei beni dell’ex appan-naggio napoleonico ai privati, e tuttora ne sono proprietari.

stero di Fonte Avellana ai monaci camaldolesi. Siamo nell’epoca in cui il Concilio di Trento, preoccupato per il dilagare del Protestantesimo in tutta Europa, si faceva promotore della necessità di istituire dei seminari in ogni nazione ed in ogni diocesi del mondo per una formazione culturale e morale adeguata del clero cattolico. In quel periodo sorsero a Roma vari collegi appartenenti a diverse nazionalità europee dove i futuri preti, oltre ad apprendere la filosofia e la teologia, venissero preparati al ministero sacerdotale secondo i nuovi ordinamenti della Chiesa cattolica affinché, tornati nella madrepatria, potessero dare testimonianza di obbedienza e fedeltà al papa e alla Chiesa di Roma. Uno di questi collegi era il «Collegium Germanicum»

di Roma, istituito dal papa Giulio III il 31 agosto 1552 ed ufficialmente inau-gurato il 28 ottobre dello stesso anno, la cui direzione fu affidata alla Compagnia di Gesù che in quegli stessi anni per impulso dello spagnolo S. Ignazio di Loyola aveva fondato nella capitale il Collegio Romano. Per rafforzare l’opera di riforma del clero e per assicurarsi la sua obbedienza al romano pontefice, Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni) volle creare in Roma altre istituzioni simili e fondò nel 1577 il Collegio Greco e nel 1578 il Collegio Inglese ed il Collegio Ungarico (in seguito, nel 1584, anche il Collegio Maronita)48. Nel frattempo potenziò il Collegio Germanico assegnandogli, per il sostentamento gratuito degli studenti, una rendita annua di 10.000 scudi, da pagarsi dalla Camera Apostolica fintanto che fosse stato dotato di

48 Agostino Borromeo, Gregorio XIII, in Enciclopedia dei Papi (2000) Treccani.

Fig. 16. Trecastelli, Piaggiolino, stemmi sulla fabbrica dei Gesuiti. Stemma di Gregorio XIII (a sinistra) e di un Cardinale Barberini (a destra) (per g. c. del Principe Urbano Barberini)

beni propri, e stabilendo la sua nuova sede nel palazzo di Sant’Apollinare in Roma, potenziò anche il Collegio Romano - entrambi i collegi erano gestiti dai Gesuiti - ampliando la sua sede ed elevandolo al rango di Università dei Gesuiti, in suo onore denominata Università Gregoriana. Con Bolla del 1578, inoltre, Gregorio XIII alienò tutti i possedimenti della abbazia di Santa Croce di Fonte Avellana a favore del Collegio Germanico, esentandolo dal pagamento di decime ed imposte, e con l’assegnazione gratuita annuale di 1500 libre di sale e di 20 ettolitri di vino.

Poi con un’altra Bolla del 12 aprile 1580 unificò il Collegio Germanico con il Collegio Ungarico e costituì il nuovo «Pontificium Collegium Germanicum et Hungaricum de Urbe».

In seguito alla assegnazione di beni immobili i Gesuiti si trovarono a possedere grandi latifondi e, per quanto riguarda la nostra storia in particolare, divennero proprietari di tutti i beni posseduti dalla abbazia di Fonte Avellana a Monterado, Castel Colonna e dintorni.

I Gesuiti fecero costruire allora a Piaggiolino, sulle colline dell’altra sponda del Cesano di fronte a Monterado, una grande azienda agricola, cosiddetta «Fabbrica di Piaggiolino», per la coltivazione delle proprietà e per la conservazione dei pro-dotti49. Per la sua predilezione e munificenza verso i Gesuiti, Gregorio XIII fu da essi considerato come il secondo fondatore della Compagnia di Gesù e, in segno di ri-conoscenza, vollero onorare il papa Buoncompagni con il suo stemma sulla fabbrica di Piaggiolino, sull’ingresso principale del Palazzo dei Gesuiti (cosiddetto Castello) di Monterado e sui due lati corti dell’altare principale della chiesa parrocchiale del paese.

Palmesi a questo punto deve avere ricordato che i pontefici successivi riconfermarono, ed in parte ampliarono, i privilegi e le esenzioni già concessi da quel papa ai Gesuiti per il loro grande merito di preparare molti giovani al sacerdozio secondo i detta-mi del Concilio tridentino, mantenendo gratuitamente e dignitosamente agli studi superiori di filosofia e teologia nel Collegio germanico-ungarico di Roma circa 150 seminaristi, di cui almeno 12 di madrelingua ungherese e gli altri di madrelingua tedesca (ma anche studenti provenienti da altre nazionalità, compresi molti italiani) ed altre 50 persone fra docenti e personale ausiliario. I Gesuiti fecero di Monterado il centro della loro amministrazione ed attuarono una oculata gestione economica mirante al conseguimento di un profitto da conseguirsi anche tramite la vendita e

49 Cinciari, cit., p. 130; Gianfranceschi, cit., p. 42. La Fabbrica di Piaggiolino, in base alle carte dell’Archivio del Collegio Germanico di Roma, citate dai due autori, si colloca tra il 1686 e il 1689. In seguito alla vicende dei passaggi di proprietà di cui si accennerà tra poco, la tenuta di Piaggiolino venne in possesso dei principi Barberini di Roma nella seconda metà del 1800 ed è tuttora di loro proprietà.

il commercio dei prodotti delle loro tenute soprattutto durante la Fiera franca di Senigallia, oppure esportandoli al di fuori dello Stato delle Chiesa in Stati e città dove fossero meglio pagati, come si deduce dalla nota n. 45 posta da Palmesi alla fine della Parte Seconda, (ms., p. 465), in cui ricorda il «Privilegium Concessum»

nell’anno 1663 dal pontefice Alessandro VII50 «titulo oneroso mediante solutione Scut. 7000 aurei stamp(arum) ... V. Collegio Germanico Urbis Extrahendi ex-tra Statum Ecclesiaticum, quolibet anno, in perpetuum, rubra mille frumenti recollecti, & recolligendi in bonis Abbatiae Fontis Avellanae in Statu Urbini, absque ullo impedimento libere, & sine ulla solutione, onere, datio, seu gabella impositis, & imponendis»51.

Il prezzo del grano poteva subire nel corso degli anni notevoli fluttuazioni col-legate all’andamento della produzione agricola più o meno abbondante in ciascun anno, variando a seconda delle condizioni meteo-climatiche, dei danni più o meno ingenti causati da parassiti e malattie delle piante o dalle truppe di passaggio (fatto questo frequente soprattutto durante la prima metà del 1700). Il costo del frumento

50 Papa Alessandro VII, nato Fabio Chigi (Siena, 13 febbraio 1599 - Roma, 22 maggio 1667), fu papa dal 7 aprile 1655 alla sua morte. Il suo pontificato fu caratterizzato dalla forte ostilità con la Francia del Card. Mazzarino prima e di Luigi XIV (Re Sole) poi e dalla lotta contro il Giansenismo. È rimasto famoso per la sua opera di mecenatismo nei con-fronti dell’architetto e sculture Gian Lorenzo Bernini, a cui si devono moltissime opere in stile barocco della città di Roma, fra cui l’altare della Cattedra nella Basilica di San Pietro e la costruzione del magnifico colonnato nella piazza antistante la basilica vaticana. Sempre al Bernini è dovuta la tomba del pontefice nella medesima cattedrale.

51 ASC-Senigallia, Memorie Diverse, III, (N. 721), c. 9. «Privilegio concesso a titolo oneroso dietro pagamento di 7000 scudi d’oro, stampe ... al Venerabile Collegio Germanico di Roma di poter esportare fuori dello Stato della Chiesa ogni anno, ed in perpetuo, 1000 rubbia di frumento già raccolto o che sarà raccolto nei possedimenti della Abbazia di Fonte Avellana nello Stato di Urbino, senza nessun impedimento, liberamente, e senza nessun altro pagamento, tassa, dazio o gabella presenti o futuri». Se si tiene presente quanto scritto nelle Note biografiche di Palmesi a proposito dell’ex appannaggio napoleonico, cioè che con 5.000 scudi Barto-lomeo Tanfani acquistò 5 azioni che fruttarono 13 poderi di media estensione (tra i 7 e gli 8 ettari ciascuno), se ne deduce che all’epoca con 7.000 scudi si poteva acquistare una proprietà agricola di vasta estensione, consistente in una decina poderi, ciascuno tra i 12 ed i 13 ettari, completi di casa colonica con coloni, attrezzi e bestiame. Poiché una rubbia di grano equivaleva a circa 2800 quintali, e dato che il prezzo di un quintale di grano, in tempi normali non di carestia, era di scudi 2,50 dell’epoca (Gianfranceschi, cit., p. 47, ma l’a.

usa per il conteggio le rubbia romane non quelle di Senigallia, v. Glossario), i Gesuiti per il rilascio di questo privilegio offrirono al pontefice l’equivalente di un anno di raccolto (q.

2.800 x sc.2,5 = sc. 7000). Il vantaggio però derivava dal fatto che, essendo un Privilegio Perpetuo, negli anni successivi i Gesuiti non avrebbero pagato altri oneri e, soprattutto, avrebbero potuto vendere il grano al di fuori dello Stato della Chiesa, sui mercati esteri più remunerativi, in particolare verso la penisola d’Istria e la Dalmazia, all’epoca sotto la Repubblica di Venezia, dove il grano scarseggiava e veniva pagato di più.

o altri cereali aumentava all’inverosimile nelle annate di scarso raccolto o di carestia.

In questi casi le esportazioni del grano venivano praticamente bloccate e la produ-zione commissariata, perché si doveva innanzitutto rifornire Roma e le più impor-tanti città dello Stato e della Legazione di Urbino, ed il suo prezzo veniva calmierato e fissato dallo Stato. Ogni municipio poi aveva la sua Abbondanza, uno speciale ufficio comunale, dotato di magazzini per l’ammasso dei cereali da utilizzare in caso di necessità per sfamare la popolazione. I suoi Abbondanzieri, ufficiali affiancati da due compratori - detti provveditori dei grani - dotati di cassa propria, reperivano sui mercati, scortati da soldati, le quantità di grano necessarie alla comunità nelle

In questi casi le esportazioni del grano venivano praticamente bloccate e la produ-zione commissariata, perché si doveva innanzitutto rifornire Roma e le più impor-tanti città dello Stato e della Legazione di Urbino, ed il suo prezzo veniva calmierato e fissato dallo Stato. Ogni municipio poi aveva la sua Abbondanza, uno speciale ufficio comunale, dotato di magazzini per l’ammasso dei cereali da utilizzare in caso di necessità per sfamare la popolazione. I suoi Abbondanzieri, ufficiali affiancati da due compratori - detti provveditori dei grani - dotati di cassa propria, reperivano sui mercati, scortati da soldati, le quantità di grano necessarie alla comunità nelle