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Parte II. Economia

2. Mercantilismo e laissez-faire

2.1. Gli interpreti di Mandeville

2.1.1. Pro mercantilismo

Nel già citato volume Mercantilism, Heckscher sostiene che il sottotitolo della Fable -

private vices, public benefits - sia un assunto tipicamente mercantilista, che propone di

dirigere i comportamenti umani verso la realizzazione del benessere dello stato attraverso un’accurata guida. Heckscher prosegue citando la celebre affermazione mandevilliana “Private vices, by the dextrous Management of a skilful Politician may be turned into Public Benefits”, sottolineando l’importanza dell’abile gestione dei vizi operata dal politico144.

L’interpretazione di Heckscher, che tende a vedere in Mandeville un mercantilista, è stata di ispirazione a molti altri studiosi. Thomas Horne, richiamandosi a Heckscher, afferma all’inizio del capitolo “Mandeville and Mercantilism” della sua monografia The Social

Thought of Bernard Mandeville: «In Mandeville the psychological analysis of self-love is

explicitly joined to a social and economic theory which, I will argue, is similar to what has been called the mercantilist conception of society»145. Il motivo di questa affermazione è l’emancipazione, auspicata da Mandeville e professata a gran voce dai mercantilisti,

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Heckscher afferma che i mercantilisti «were obviously anxious to find reasonable grounds for every position they adopted», ivi, p. 308.

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Sul rapporto tra mercantilismo e razionalismo, e invisible hand e antirazionalismo (sebbene lo chiami “irrationalism”), si veda anche H.M. Robertson, Aspects of the Rise of Economic Individualism. A Criticism of

Max Weber and his School, Cambridge University Press, Cambridge1933; p. 64.

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E.F. Heckscher, cit, p. 291. 145

dell’economia da morale e religione, che faceva in pratica decadere la condanna di carattere etico al self-love146.

Horne nega che in Mandeville ci siano tracce della teoria che sostiene che il self-interest dei singoli individui si possa conciliare col bene pubblico, e, anzi, favorirlo. I richiami all’intervento degli abili politici presenti nel primo volume della Fable sono per lo studioso una prova lampante dell’errore insito nel collegare Mandeville al laissez-faire. Horne critica l’inserimento di Mandeville in questa corrente in quanto è convinto che «The spontaneous reconciliation of economic interests supposes the benevolence of nature»147: secondo lo studioso infatti l’idea della armonizzazione spontanea degli interessi privati su cui il liberalismo economico fonda la richiesta di maggiore libertà e contrasta l’intromissione statale a sua volta affonda le radici nell’idea di una natura umana benevola (che, se lasciata libera di agire, non comprometterà la pace della nazione), e per questo motivo si rifiuta di accostare Mandeville a questa teoria148.

Horne riconosce un certo anelito di Mandeville verso un mercato più libero, riferendosi alla sua opposizione alla rigidità dei mercantilisti circa il rapporto tra importazioni ed esportazioni. Secondo lo studioso questo non deve però condurre a pensare, di conseguenza, al filosofo olandese come a un sostenitore del libero mercato; Horne trova anzi che questa tendenza più “liberista” di Mandeville sia perfettamente in linea con l’ultima fase del mercantilismo. Horne è convinto anche che, a proposito delle importazioni di merci di lusso, che i mercantilisti osteggiavano ma a cui Mandeville era favorevole, il filosofo olandese si limitasse a chiarire che i danni provocati dal lusso derivavano da un controllo governativo non abbastanza forte, che non riusciva a far quadrare il bilancio nei commerci internazionali; per questo motivo non lo considera un vero punto di rottura col mercantilismo. A sostegno della sua tesi lo studioso cita il seguente passo della Fable I: «ciò che si addebita al lusso spetta invece alla cattiva amministrazione e alle colpe di una cattiva politica. Ogni governo deve conoscere perfettamente e perseguire costantemente l’interesse del paese. I buoni

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Horne, tuttavia, non considera che Mandeville non si limita a non condannare il self-love da un punto di vista etico-religioso, ma si spinge anzi a considerare il potere benefico dell’amore di sé anche qualora esso sia lasciato privo di grossi freni, cosa negata invece dai mercantilisti.

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T.A. Horne, cit., p. 72. 148

Si vedrà in seguito che la visione della natura umana non è che uno degli elementi su cui si costruisce una teoria che aspiri alla realizzazione di un ordine economico e sociale, e che in nessun caso lo spontaneous order presuppone la benevolenza degli esseri umani. Adam Smith, che quasi all’unanimità viene definito liberista, pur avendo una concezione della natura umana diversa da quella di Mandeville, scrive a chiare lettere che non è la benevolenza che sovrintende ai meccanismi commerciali, ma l’interesse personale, e dunque non è questa il fattore responsabile dell’equilibrio spontaneo. Sul rapporto di Mandeville con mercantilismo e laissez-faire vedasi anche il saggio di L. Colletti, Mandeville, Rousseau e Smith in Ideologia e società, Laterza, Roma-Bari 1975, dove lo studioso analizza in particolare gli aspetti della teoria di Mandeville ripresi da Adam Smith.

politici, con una direzione accorta, stabilendo delle imposte elevate su certi beni, o proibendoli del tutto, e diminuendo le tasse su altri, possono sempre volgere e deviare come vogliono il corso del commercio»149.

Jacob Viner è un altro importante interprete del pensiero di Mandeville noto per la sua opposizione a considerarlo un precursore del laissez-faire, sia in ambito economico che politico. In The Long View and the Short egli afferma che i motivi per cui Mandeville è stato visto come un sostenitore del libero scambio riguardano due aspetti del suo pensiero economico: il primo coinvolge la considerazione del self-interest e dei desideri individuali come promotori di attività commerciali, il secondo ha a che fare col fatto che Mandeville era convinto che «a better allocation of labor among different occupations would result, at least in England, if left to individual determination than if regulated or guided»150. Secondo Viner questi elementi erano propri anche del mercantilismo, tanto più se si prende in esame il particolare tipo di mercantilismo che fiorisce nell’Inghilterra del XVII secolo. Lo studioso afferma che:

it would be misleading also to apply to eighteenth-century writers modern ideas as to the dividing line between “interventionists” and exponents of “liberalism” or “laissez-faire”. As compared to modern totalitarianism, or even to modern “central economic planning”, or to “Keynesianism”, the English mercantilism of the late seventeenth and eighteenth-century was essentially libertarian. It is only as compared to Adam Smith, or to the English classical and the Continental “liberal” schools of economics of the nineteenth-century, that it was interventionist.151

L’interpretazione di J. Viner è stata ripresa, nel corso degli anni, da diversi studiosi. Salim Rashid152, sulla scia dello studioso americano, sostiene che non si possa parlare di laissez-

faire con riferimento a Mandeville, perché il suo pensiero economico è giudicato troppo

debole, e la sua tensione alla libertà economica viene ascritta al semplice desiderio di tenere il più possibile fuori dall’ambito socio-economico l’influenza dei moralisti. Come Viner, anche Rashid tende a contrastare l’idea di una evoluzione del pensiero economico

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B. Mandeville, La favola delle api (Nota L), cit., pp. 73-74; «what is put to the Account of Luxury belongs to Male-Administration, and is the Fault of bad Politicks. Every Government ought to be thoroughly acquainted with, and stedfastly to pursue the Interest of the Country. Good Politicians by dextrous Management, laying heavy Impositions on some Goods, or totally prohibiting them, and lowering the Duties on others, may always turn and divert the Course of Trade which way they please», Fable I (Remark L), cit., pp. 115-116.

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J. Viner, The Long View and the Short, cit., p. 340. 151

Ibidem. 152

S. Rashid, Mandeville’s Fable: Laissez-faire or Libertinism?, in «Eighteenth-Century Studies», Vol. 18, No. 3 (Spring 1985), pp. 313-330.

mandevilliano, e afferma che, ad ogni modo, il testo che più degli altri merita di essere preso in esame è la Fable I, sicuramente il più letto dai contemporanei di Mandeville.