Parte III. Politica
1. L’evoluzione del pensiero politico di Mandeville: i primi scritti
1.2. La Ricerca sull’origine della virtù morale
1.2.1. Il ruolo degli skilful politicians e l’evoluzione del pensiero politico
Con tutte le probabilità la Ricerca sull’origine della virtù morale voleva fornire un’ulteriore prova del fatto che non esistono virtù innate di carattere altruistico che favoriscono la creazione di una società pacifica, ma solo passioni egoistiche, che possono servire allo stesso scopo se incanalate nei giusti binari; questa “armonizzazione” dei vizi e dei difetti dell’uomo nel buon funzionamento della nazione avviene sotto la supervisione degli skilful politicians: il dibattito più acceso tra gli interpreti del filosofo si snoda proprio attorno al ruolo di questi politici.
In tutto il primo volume della Fable of the Bees, Mandeville si presenta molto più come un semplice osservatore della natura umana, come un sociologo se vogliamo, ma il suo discorso non ha mai finalità politiche propositive, nemmeno in lontananza si intravede un “invito” a seguire una determinata linea di governo, né alcun intento normativo. In questa fase del suo pensiero, Mandeville cita molto più spesso l’intervento degli “abili politici”; questo si rivela essere un carattere che distingue gli scritti del primo periodo da quelli del secondo, dove lo stesso meccanismo di istituzione di una nazione fiorente e ordinata attraverso il perseguimento del self-interest da parte dei cittadini non necessita di supervisori: avviene spontaneamente. Di questo cambiamento di prospettiva del filosofo, che
ha conseguenze importanti nell’elaborazione del suo pensiero soprattutto politico, abbiamo testimonianze che provengono anche dagli scritti minori283, che sono stati poco letti dai suoi contemporanei, e che sono meno “filosofici”, e pertanto anche meno tenuti in considerazione dalla maggior parte degli studiosi, e che possono tuttavia confermare l’esistenza di due momenti abbastanza distinti nel pensiero mandevilliano. Si può individuare, a grandi linee, una suddivisione “temporale” tra le opere di Mandeville, gli anni ’20 come il momento della svolta. Tuttavia vi è un’altra distinzione che si sovrappone alla prima, che è relativa agli argomenti trattati: la Fable I, nelle sue diverse edizioni, è un’opera più sociologica, in cui anche i saggi del 1723 seguono lo schema di quelli del 1714, ovvero presentano una critica feroce di qualche istituzione vigente (come nel Saggio sulle scuole di carità), o di qualche opinione difesa da alcuni filosofi dell’epoca, come la benevolenza e la socievolezza (Indagine sulla natura della società), così come la Ricerca è stata una confutazione dell’esistenza delle virtù morali. I Liberi pensieri, pubblicati, nella loro prima edizione (che poco differisce da quelle successive), nel 1720, dunque prima degli ultimi due saggi presenti nella Fable I, possono essere considerati come scritto “inaugurale” del nuovo periodo mandevilliano, principalmente per il diverso approccio negli argomenti trattati, decisamente meno provocatorio. I capitoli dedicati alla politica di quest’opera, che pure sono solo gli ultimi due, presentano già una differenza sostanziale da quello che si legge nella Fable I: nei
Liberi pensieri il tema politico è direttamente affrontato, mentre, ad esempio, nella di poco
posteriore Indagine sulla natura della società, il discorso è più antropologico e sociologico. Nella Fable II (1728) e negli altri scritti che seguono (come la Ricerca sull’origine
dell’onore) gli argomenti trattati sono molto vari, ma permane una maggiore “serietà” e una
minore inclinazione alla provocazione, e, per quanto riguarda la sola politica, le idee di Mandeville sono decisamente più evolute rispetto a quel poco che si legge nella Fable I – nella Fable II, anzi, vengono riprese molte posizioni già sostenute nei Liberi pensieri.
Come si è già visto nella sezione dedicata al pensiero economico, l’elemento responsabile dei cambiamenti che si riscontrano nella filosofia di Mandeville è una sorta di ampliamento di prospettiva, che lo conduce progressivamente a spingersi al di là dell’immediato presente nelle sue osservazioni, e a cercare delle “riposte” che sfociano in un lasso temporale più
283
Tra gli scritti minori, ma giudicati tali solo dal punto di vista dell’esposizione del pensiero politico, o, volendo, strettamente filosofico, si potrebbero inserire, in ordine di pubblicazione, The Virgin Unmask’d: or,
Female Dialogues betwixt an Elderly Maiden Lady, and her Niece (1709); A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions, Vulgarly call’d the Hypo in Men and Vapours in Women (1711); A Modest Defence of Publick Stews (1724). Queste opere non sono inferiori alle altre dal punto di vista dei contenuti, trattano
semplicemente di argomenti diversi. Tra queste si possono senz’altro annoverare anche gli articoli pubblicati nel Female Tatler tra il 1709 e il 1710, che hanno soggetti diversi.
dilatato. Mandeville rifiuta in modo sempre più deciso le spiegazioni che basano su momenti definiti o su singole “figure chiave” processi lunghi e complessi come la nascita, e soprattutto il funzionamento, della società civile: da qui infatti si spiega il rifiuto del contrattualismo, come quello del mito di un legislatore che per primo abbia dato vita a un
corpus di leggi su cui si baserebbe la costituzione. Ma questa “apertura” del pensiero
mandevilliano avviene in maniera altrettanto graduale, e non si riscontra apertamente nei primi scritti284, mentre è via via più esplicita negli ultimi. Questo non significa che esista un vero contrasto tra le prime opere e quelle successive. A dispetto di quanto affermato da alcuni studiosi, Mandeville non è mai stato un “interventista”, e se in ambito economico l’intromissione dello stato era prevista, e in parte anche auspicata, per il buon funzionamento di alcuni settori (gli scambi con l’estero, ad esempio), vi erano esigenze meramente commerciali all’origine di questa necessità di intervento, ma nulla che gettasse radici profonde in un’ideologia promotrice di uno stato “forte” come unica via per ottenere pace, ordine e benessere. In ambito politico questo margine di intervento statale viene progressivamente ridotto al minimo, per lasciare spazio all’idea, che acquisisce col tempo una sua fisionomia più precisa, che ordine, pace e benessere possono realizzarsi con un buon apparato burocratico, e senza che i governanti, uomini guidati dall’interesse personale e dotati di poco discernimento come la media dell’umanità, abbiano un grande peso nel determinare gli equilibri della nazione.
La Ricerca sull’origine della virtù morale trova una sua collocazione nell’evoluzione del pensiero del nostro filosofo che non stride affatto con l’interpretazione di questi come un precursore di ideologie liberali, aperte all’idea di ordine spontaneo. Nemmeno in quest’opera, dove si parla appunto degli “abili politici”, si possono cogliere dei segni concreti che permettano di affermare che Mandeville sia un interventista. Nella Ricerca gli “abili politici” hanno infatti sì un ruolo attivo nel processo di creazione dei concetti di virtù e vizio, tuttavia si tratta di figure molto mitiche e poco reali.
Anche nel numero 62 del Female Tatler, che essendo uscito nel 1709 è con tutte le probabilità antecedente alla Ricerca – seppure non si possa essere certi dell’anno preciso in cui quest’ultima è stata scritta, conoscendo noi solo l’anno di pubblicazione -, possiamo leggere un cenno interessante a come, attraverso le passioni umane, si possa creare la società anche tra creature così poco adatte ad essa come gli uomini. Il gentiluomo di Oxford, una
284
Vista la difficoltà sopra esposta a individuare un preciso momento di svolta nel pensiero di Mandeville, potremmo chiamare opere “del primo periodo” quelle uscite prima del 1720, con una eccezione per i saggi aggiunti nell’edizione del 1723 della Fable I; la denominazione “del secondo periodo” spetta invece agli scritti successivi al 1720.
delle figure attraverso cui Mandeville espone la sua opinione negli articoli del periodico, afferma infatti che «by the multiplicity of their Wants as well as Appetites, their differing from one another in Humour, Inclinations and Opinion, the vast Love every one of them has for himself, the fickleness of their Minds and the discontentedness of their Nature […], they [gli uomini] are of all Animals the only Species, of which even the greatest Numbers may be made Subservient to one another, and by Skilful Management compose a lasting Society»285. Questo passo conferma che, in un primo momento, Mandeville riteneva che dovesse esserci una forma di intervento governativo per creare una “lasting society”, ma nemmeno in questa sede egli espone i particolari del management, cosa che ne conferma la poca importanza all’interno di una sua eventuale teoria politica: è vero che il filosofo olandese non veste mai i panni del teorico, ciò nonostante esiste qualcosa di molto simile a una teoria politica in alcuni scritti del secondo periodo, e lì lo skilful management dei politici non viene mai richiamato.
Gli studiosi si trovano abbastanza divisi circa la considerazione delle idee presenti nella
Ricerca sull’origine della virtù morale. Vi sono, in generale, alcuni che cercano di trovare
una continuità tra le affermazioni presenti negli scritti del primo periodo (tra cui spicca il primo volume della Fable of the Bees) e quelli successivi, dando però un peso maggiore alle idee esposte nei primi, e cercando di interpretare gli scritti del secondo periodo come non in contrasto con quelli precedenti, senza riconoscere alcuna significativa evoluzione. Tra coloro che seguono questa linea spicca Jacob Viner (e altri che hanno accolto la sua interpretazione, come, recentemente, Christina Petsoulas, di cui si tratterà in seguito), che propende per una visione un po’ desueta286 del pensiero economico-politico di Mandeville, schierandosi contro l’idea che egli fosse un precursore delle idee riguardanti l’ordine spontaneo della società che presero forma a fine Settecento. Per dimostrare la sua tesi Viner cita le affermazioni che si trovano nella Ricerca sul ruolo degli skilful politicians e le mette a confronto con quelle della parte II della Fable (che è del 1728, uscita dunque quattordici anni dopo) per cercare di mostrare che in quest’ultima opera non vi sia alcuna apertura all’ordine spontaneo, ma che anzi venga confermato il ruolo attivo della classe politica nell’amministrazione dello stato, e non trova che differenze superficiali tra le idee presentate nei diversi scritti, pur elaborati a una certa distanza di tempo.
285
B. Mandeville, The Female Tatler No. 62 (November 25th – 28th, 1709), ed. by M.M. Goldsmith in By a
Society of Ladies. Essays in The Female Tatler, cit., p. 99.
286
La posizione di Viner è infatti in contrasto con quella di quasi tutti i più importanti studiosi del pensiero politico di Mandeville, tra cui, per citarne alcuni, F.B.Kaye, F.A. Von Hayek, N. Rosenberg, A. Chalk, R. Hamowy, N. Barry.
È vero che in tutto il primo volume della Fable si trovano continui riferimenti al dextrous
management of the skilful politicians, ma è abbastanza significativo che il discorso non
prosegua mai con esempi e attribuzione di ruoli. Le conclusioni tratte da Viner sono opinabili, dal momento che egli dà più importanza alla Ricerca e alla Fable I che agli scritti successivi. In The Long View and the Short lo studioso non riconosce alcuna differenza tra le diverse opere, e pretende di confutare l’inclinazione al laissez-faire di Mandeville, che compare solo nella fase matura dei suoi lavori, appellandosi agli scritti del primo periodo in cui il filosofo olandese parla degli skilful politicians:
It is a common misinterpretation of Mandeville in this respect to read his motto, “Private Vices, Publick Benefits”, as a laissez-faire motto, postulating the natural or spontaneous harmony between individual interests and the public good. […] In his text, Mandeville repeatedly stated that it was by “the skilful Management of the clever Politician” that private vices could be made to serve the public good, thus ridding the formula of any implication of laissez-faire.287
Un’altra interpretazione è fornita da Castiglione, che riconosce il carattere più letterario con cui si parla, nella Ricerca, di un gruppo di legislatori che dovrebbe presiedere alla fondazione della società, e che sostiene il carattere più orientato alla considerazione degli
unespected outcomes delle azioni umane del pensiero socio-politico di Mandeville.
Nonostante questo Castiglione afferma anche: «ciò non toglie che questa propensione evoluzionistica può accordarsi con l’intervento razionale degli attori sociali nel tempo presente»288, affermazione meno condivisibile, poiché, nel corso degli anni, Mandeville conferma la sua sfiducia nel potere della razionalità umana, e appare chiaro, soprattutto nel volume II della Fable, che non è l’intervento pianificato il responsabile dell’ordinamento che si constata nella società odierna.
Nel lasso di tempo che intercorre tra la stesura della Ricerca e quella dei Liberi Pensieri e della Fable II Mandeville sviluppa delle nuove riflessioni, tuttavia, già ne L’alveare
scontento, dove si mostrano gli effetti benefici dei vizi sulla società, sono presenti le radici di
quella che diverrà con gli anni una visione dei fenomeni sociali che, a ragione, verrà considerata un importante antecedente delle teorie “dell’ordine spontaneo”289 – sebbene nel poemetto del 1705 sia appena accennata. Come scrive Hayek:
287
J. Viner, The Long View and the Short, The Free Press, Glencoe, Illinois 1958; p. 341. 288
D. Castiglione, La fortuna di Bernard Mandeville, in «Pensiero Politico», Vol. 21, No. 3, 1988; pp. 366- 375; p. 374.
289
La sua [di Mandeville] tesi generale principale emerge solo gradualmente e indirettamente, come se fosse un effetto secondario del paradosso sostenuto inizialmente, secondo il quale quelli che sono i vizi privati sono spesso benefici pubblici. […] Egli sosteneva, infine, che l’intero ordinamento della società, ed anche tutto ciò che chiamiamo cultura, era il risultato di sforzi compiuti dai singoli che non tendevano a questo fine.290
1.3. L’Indagine sulla natura della società
Nel 1723 esce una seconda edizione del volume I della Fable, nella quale, oltre a un notevole ampliamento delle note, si trovano altri due saggi: quello sulle scuole di carità già esaminato, e l’Indagine sulla natura della società. In questo saggio non si trova un’esposizione esauriente delle idee politiche di Mandeville, bensì la confutazione di alcuni assunti di matrice shaftesburiana a proposito delle virtù e della socievolezza: dunque ci troviamo in ambito più propriamente morale-antropologico, che costituisce il terreno da cui nasceranno poi le riflessioni politiche.
Non è la prima volta che Mandeville si appresta a negare che l’uomo sia una creatura socievole, infatti già nell’edizione del 1714 si trovano numerosissimi riferimenti a questo argomento, come, ad esempio, nella Prefazione: «Coloro che esaminano la natura dell’uomo […] possono osservare che ciò che lo rende un animale socievole non è desiderio di compagnia, buon carattere, pietà, affabilità e altre grazie di bell’aspetto, ma che le qualità più vili e odiose sono i talenti più necessari per renderlo adatto alle società più grandi e [...] più felici e fiorenti»291.
L’Indagine inizia con una confutazione di Lord Shaftesbury, del cui sistema Mandeville si dichiara fermo oppositore. Ciò che viene con più forza contestato è il fatto che egli chiami virtù tutto ciò che risulta utile al bene pubblico292, incorrendo così in un doppio errore: quello di utilizzare con troppa facilità e senza il minimo rigore il termine virtù per azioni che spesso non hanno nulla di virtuoso (è assai problematico infatti definire “virtuosa” ogni cosa
290
F.A. Hayek, Dottor Bernard Mandeville in Nuovi studi, cit., pp. 274-275. 291
B. Mandeville, Prefazione alla Fable I, cit., p. 3; «they that examine into the Nature of Man, abstract from Art and Education, may observe, that what renders him a Sociable Animal, consists not in his desire of Company, Good-nature, Pity, Affability, and other Graces of a fair Outside; but that his vilest and most hateful Qualities are the most necessary Accomplishments to fit him for the largest, and, according to the World, the happiest and most flourishing Societies», The Preface to the Fable of the Bees, cit., pp. 3-4.
292
Cfr. B. Mandeville, Indagine sulla natura della società, in La favola, cit., p. 229: «Lord Shaftesbury chiama virtuosa ogni azione compiuta in considerazione del bene pubblico e chiama vizio ogni azione egoista che escluda del tutto tale considerazione»; «In pursuance of this Supposition, he [Lord Shaftesbury] calls every Action perform’d with regard to the Publick Good, Virtuous; and all Selfishness, wholly excluding such a Regard, Vice», Nature of Society, in Fable I, cit., p. 324.
che procura benefici), che deriva dall’errore, ben più grave, di valutare la moralità di un’azione a posteriori, considerandone gli effetti senza risalire al suo movente, l’unico che può dire qualcosa sulla sua virtuosità. Virtù e vizio, nel pensiero di Shaftesbury, finiscono per essere due “realtà permanenti”, dove il τò κάλον degli antichi viene visto come un valore intrinseco che l’uomo dovrebbe poter ricercare nelle cose e ragionevolmente trovare. Non è questa, tuttavia, l’idea shaftesburiana che il filosofo olandese si occupa di confutare maggiormente, dal momento che è estremamente facile dimostrare che non esiste tale valore intrinseco in azioni e tradizioni, ma che queste vanno contestualizzate, e di tutto va rintracciato il movente per poterne esprimere un giudizio morale.
Analizzando la storia dell’uomo, così come la società, si può notare subito che non esistono concetti assoluti di bene e di buono: l’oscillazione del gusto è rispecchiata dal continuo susseguirsi di mode diverse che influenzano il giudizio su arti e costumi; altrettanto si può dire delle usanze e tradizioni dei popoli, per cui gli uni giudicano immorali quelle degli altri (come nel caso della poligamia): non solo la ricerca del bello come valore assoluto si rivela impossibile, ma anche quella del giusto crea non pochi problemi. Con le parole di Mandeville, «la nostra approvazione e la nostra disapprovazione dipendono principalmente dalla moda e dal costume, dall’insegnamento e dall’esempio dei nostri superiori e di quelli che crediamo migliori di noi per una ragione o per l’altra»293. «Nella morale», prosegue infatti il filosofo, «non c’è maggior certezza»294, e le cose non sono mai del tutto buone o cattive, utili o nocive, poiché anche le calamità naturali, per quanto distruttive e tragiche, finiscono per giovare ad alcuni rami del commercio, come Mandeville mostra con l’esempio dell’incendio di Londra, e allo stesso modo anche le caratteristiche positive dell’essere umano sotto una certa angolazione si rivelano negative, e viceversa. Quello che più di tutto denota la debolezza delle riflessioni di Shaftesbury e solleva la reazione di Mandeville è che «l’idea, del tutto priva di fondamento, che gli uomini possano essere virtuosi senza rinunce, apre il varco all’ipocrisia»295, e allo stesso modo è ipocrita non ammettere i benefici che si traggono da comportamenti viziosi e meschini. L’idea che le passioni possano essere messe a tacere senza fatica e senza che questo comporti grossi sacrifici per chi lo fa, è una pura falsità, che Mandeville contesta con forza. Egli ritiene che ogni vera rinuncia abbia bisogno
293
Ivi, p. 234; «our Liking or Disliking of things chiefly depends on Mode and Custom, and the Precept and Example of our Betters and such whom one way or other we think to be Superior to us», Nature of Society, in
Fable I, cit., p. 330.
294
Ibidem; «In Morals there is no greater Certainty», Nature of Society, in Fable I, cit., p. 330. 295
Ivi, p. 235; «The imaginary Notions that Men may be Virtuous without Self-denial are a vast Inlet to Hypocrisy», Nature of Society, in Fable I, cit., p. 331.
di una ricompensa che sia almeno all’altezza di ciò che si perde, poiché solo le passioni deboli possono venire soggiogate senza troppo sforzo, e quindi senza alcuna virtù.
Nell’Indagine sulla natura della società Mandeville ritorna sul tema delle passioni, principalmente per smascherare la disonestà del sistema shaftesburiano, in cui il ritratto della natura umana è assai poco fedele al modello che ogni giorno si presenta dinnanzi agli occhi dell’osservatore. Shaftesbury non vuole ammettere che la virtù richieda fatica, perché si rende conto che ciò ne renderebbe la pratica troppo difficile. Questa aurea mediocritas viene presa di mira da Mandeville, secondo cui «le tranquille virtù raccomandate nelle
Characteristicks servono solo ad allevare parassiti e potrebbero preparare un uomo per le
insipide gioie di una vita monastica oppure, nella migliore delle ipotesi, potrebbero farne un giudice di pace di campagna»296. Il filosofo olandese non si ferma qui nel suo attacco a