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4/ LE INDUSTRIE CULTURALI E CREATIVE

4.2/ PROBLEMI DI DEFINIZIONE

Solo partendo da questi spunti appare evidente il fatto che tentare di strutturare una definizione univoca e universalmente condivisibile per le industrie culturali e creative è un’operazione insidiosa che rischia di non giungere a compimento. Prima di tutto sarebbe, infatti, necessario chiarire con certezza il nesso tra creatività e cultura6, ma anche una volta sciolta questa questione rimane quella che Pratt (2005) ha nominato “breadth question”. Il problema riguarda quali realtà sono da includere e quali da escludere nel processo di definizione, giacché il rischio è di restringere troppo il campo oppure, al contrario, di allargarlo fino a rendere la definizione poco significativa. Diversi possono essere i criteri definitori, ma finora tutti afferiscono ad un determinato punto di vista e non riescono a mettere a fuoco l’insieme di complessità che si inseriscono nel discorso sulle industrie culturali, il quale affonda radici concettuali in diverse discipline.

C’è da interrogarsi, dunque, sulla necessità di insistere nella ricerca di una definizione unica, quando si potrebbe semplicemente riconoscere che diversi territori possono dare diverse interpretazioni al fenomeno, in linea con la propria storia, la propria cultura e il proprio livello di sviluppo economico e formulare, di conseguenza, una propria definizione e una propria strategia di sviluppo basata sulle industrie culturali e creative.

Per comprendere meglio il fenomeno e le problematiche connesse, tuttavia, può essere d’aiuto valutare alcune definizioni rilevanti proposte sul tema.

6 Quella proposta da Garnham è una delle interpretazioni, ma rimane ancora aperta la possibilità di considerare

La definizione del Department of Culture, Media and Sports (DCMS) britannico, esito di una delle più autorevoli azioni di policy sul tema (la sopracitata Creative Industries Task Force), apparsa nel Creative Industries Mapping Document (1998), descrive le industrie creative come:

“…those activities which have their origin in individual creativity, skill and talent and which have the potential for wealth and job creation through the generation and exploitation of intellectual property.”

La definizione in sé ha un significato piuttosto generico e punta ad identificare dei termini chiave per dare corpo ad un discorso più ampio sulle industrie creative senza costringerlo entro parametri limitanti; viene completata, poi, da un elenco di 13 settori che costituiscono il corpus delle industrie creative7. Essi sono:

 Advertising  Architecture

 Arts and Antiques markets  Crafts

 Design

 Designer Fashion  Film and Video

 Interactive Leisure Software (Electronic Games)  Music

 Performing Arts  Publishing

 Software and Computer Services  Television and Radio

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Come accennato segnalando l’analisi di Garnham (2005) sulla scelta del governo britannico di utilizzare il termine “creative” al posto di “cultural”, più il dibattito si avvicina a quello contemporaneo, più si preferisce usare l’espressione “industrie creative”. Autori come Hesmondhalgh e Pratt (2005) hanno espresso delle perplessità sulla possibilità di sostituire il termine “culture” con il concetto di creatività, ritenuto troppo vago e “all-inclusive”. Molto spesso, però, il termine “creatività” deve essere interpretato come parte di una nuova terminologia, adottata principalmente in ambito politico, per comprendere quelle attività legate ai mestieri creativi, come anche le più tradizionali industrie culturali; la nuova veste, o una versione sintetica, dell’espressione “industrie culturali e creative”.

Elementi quali “creativity” (la creatività), “skill” (le abilità innate o le competenze acquisite) e “talent” (il talento), diventano caratterizzanti per quel capitale umano impiegato nel settore creativo. Si riconosce poi alle attività di tale settore un ruolo positivo a livello economico, in qualità di generatrici di occupazione e benessere. Un altro elemento fondamentale è la proprietà intellettuale, che contraddistingue e, in sede legale “certifica”, il contenuto culturale e creativo incorporato nel prodotto.

Non bisogna dimenticare come le iniziative politiche in questo contesto fossero fortemente orientate ad evidenziare la presenza di un cospicuo valore economico derivante da tali attività, ragion per cui non è inclusa la voce “heritage”, tradizionalmente connessa a una forma di sostentamento sussidiaria e non economicamente autosufficiente, oppure, ad esempio, le “visual arts” rientrano in una categoria business-oriented come “arts and antiques markets”. L’esclusione delle istituzioni culturali comprese nell’acronimo GLAM8 e l’inclusione di attività del tipo “software and computer services”, inoltre, è stata vista da molti come un tentativo di ampliare il più possibile il bacino di attività delle industrie creative per comprendere quei settori basati sulle ICT e più portati alla generazione di profitto, capaci, quindi, di rendere il più manifesto possibile il valore economico di tali industrie (Garnham 2005).

Caves (2000) ha identificato il settore delle industrie creative come composto da organizzazioni i cui prodotti e servizi contengono in primis uno sforzo artistico o creativo. A tali prodotti e servizi, poi, noi associamo generalmente un valore culturale, artistico o di intrattenimento. Caves riconosce, quindi, la possibilità, individuata come un fattore negativo da Adorno e Horkheimer, che il consumo culturale si risolva anche in una forma di intrattenimento. Si nega, quindi, il fatto che la dialettica della cultura d’élite contro la cultura di massa sia determinante nella questione definitoria. Premesse simili sono adottate anche da Towse (2003) il quale, focalizzandosi sull’aspetto della “mass-production”, ammette la possibilità che vi siano diversi livelli di intensità artistica nel contenuto del prodotto creativo. Per Towse l’industria culturale: “mass-produce goods and services with sufficient artistic content to be considered creative and culturally significant”. E aggiunge: “The essential features are industrial-scale production combined with cultural content”. Il contenuto culturale, che a questo livello di definizione sembra emergere da un giudizio arbitrario del singolo piuttosto che da criteri oggettivi, viene individuato come la risultante della partecipazione di un artista o creativo (a seconda del settore culturale) nella produzione dei beni, ma può anche emergere dal significato sociale che contraddistingue il

consumo dei beni. In alcuni casi, dunque, il contenuto culturale scaturisce da una logica top-down (dall’intenzione del creatore riconosciuta dai fruitori/consumatori), in altri da una logica bottom- up (nel momento in cui il consumo/fruizione del prodotto assume una valenza culturale giustificando la sua originaria ascrizione al settore culturale).

Hesmondhalgh (2007) ha giustamente notato come le politiche si approccino al tema delle industrie culturali e creative partendo da premesse culturali differenti. Diversi gli input nelle policy, diversi gli output definitori. L’autore individua due filoni principali: il primo legato allo sviluppo del tema in Nord America, “primarly focused upon the concentration of wealth and power in the cultural and media industries, and its link to broader system of corporate control and political power”. Un secondo filone, invece, sviluppato in Europa che si concentra maggiormente sulle dinamiche industriali e sul rischio, le complessità e le contraddizioni associate alla produzione culturale nelle economie capitaliste. Non dobbiamo dimenticare, insomma, che ogni territorio, essendo caratterizzato da condizioni materiali di esistenza differenti, possiede diversi modelli culturali come peraltro, viceversa, diverse culture hanno generato diversi scenari economici e sociali. La specifica evoluzione culturale di intere regioni (si fa riferimento qui principalmente a suddivisioni continentali), ha dunque, un consistente peso nel processo di definizione del significato di industria culturale e creativa. Questo fatto, com’è evidente, complica la questione. Sebbene non sia impossibile proporre una definizione chiara, la teoria si rivela spesso uno strumento insufficiente nel portare avanti il discorso oltre un certo livello.