CAPITOLO 2/ CULTURA, ECONOMIA E SVILUPPO – LA SITUAZIONE ITALIANA
1/ LO SCENARIO NAZIONALE
1.2/ IL SETTORE CREATIVO IN ITALIA
Il settore manifatturiero in Italia ha sempre fatto largo uso del design nei suoi prodotti, con degli esiti memorabili. Il design industriale si caratterizza per la sua natura a metà tra quella puramente artistica e quella più artigianale e manuale. Il concetto di creatività, dunque, assume ben presto una rilevanza fondamentale in ambito italiano grazie al suo stretto contatto con il mondo della produzione industriale.
Il settore del design, tuttavia è piuttosto complesso da delineare esaurientemente, innanzitutto perché vi è un design legato al prodotto e uno legato al processo, e poi perché non lo si considera tanto un settore, quanto una sorta di modus operandi, applicabile a diversi ambiti: la produzione, i servizi, la comunicazione. Solo considerando, il primo aspetto, quello della produzione, diventa difficile sostenere che la creatività in ambito italiano non abbia un peso rilevante. Prodotti cult come la Vespa Piaggio, lo spremiagrumi Alessi, la radio-cubo Brionvega, solo per citarne alcuni tra i più noti, sono divenuti degli oggetti iconici, tanto da rendere lecito parlare di una forte e diffusa cultura materiale. Si tratta di oggetti di uso comune elaborati da dei designers che sono stati capaci di conferire loro un elevato valore simbolico proponendoli in una veste innovativa e accattivante. L’export italiano di prodotti di design nel mondo è stato stimato al 3,2% sul totale mondiale, valore tale da rendere l’Italia fino a qualche anno fa il secondo paese al mondo rispetto a questa voce14. Esiste anche un prestigioso premio (il Compasso d’Oro), istituito dall’Associazione Design Industriale nel 1954 per premiare il design di prodotto delle aziende italiane.
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Vi sono alcuni elementi che caratterizzano lo sviluppo del design industriale in Italia. Innanzitutto la complementarietà tra industriali e professionisti. I prodotti di design spesso nascono dal connubio tra un’azienda orientata all’innovazione e una personalità del settore artistico-creativo, non necessariamente designer di professione; molto spesso si tratta di architetti (come Carlo Scarpa, Giò Ponti, et.) o di artisti a metà tra le due professioni (Fortunato Depero, Bruno Munari, etc.). È possibile individuare due filoni principali: uno che comprende i designers di professione, consapevoli del loro ruolo, che agiscono principalmente nei grandi centri urbani, un altro, invece, costituito da artigiani e tecnici, che operano nei contesti distrettuali (periferici) e diventano de facto designers per le loro capacità creative estetiche e progettuali (Maffei & Simonelli, 2002). Va sottolineata, a questo punto, l’importanza che ha avuto il modello distrettuale nello sviluppo industriale italiano. I distretti industriali italiani sono molti e compongono una mappa di specializzazioni in diversi settori produttivi che hanno arricchito di significato le produzioni nazionali. Questo grazie all’elevato scambio di informazioni tacite che si sviluppano nelle agglomerazioni di piccole e medie imprese in specifici territori. La localizzazione, quindi, è la caratteristica più significativa. Essa deriva dalla presenza di particolari materie prime che hanno stimolato determinate produzioni piuttosto che altre, e di capitale immateriale, il cosiddetto “capitale Marshalliano”, ovvero lo scambio di conoscenze esplicite, ma soprattutto implicite, e le interrelazioni che si concretizzano in un grado di specializzazione produttiva superiore a quello che si potrebbe ottenere con altre premesse.
Tale visione, peraltro, conferma l’importanza del capitale umano divenuta un tema cardine della knowledge economy. Nel distretto industriale, infatti, convergono anche fattori di tipo sociale e culturale alimentati dalle sinergie che si vengono a creare tra imprese e individui, tra distretto e comunità locale (Becattini, 2000b). Creazione e diffusione di know-how, reti di relazioni e ovviamente sviluppo di menti creative capaci di coniugare innovazione e tradizione sono gli elementi che hanno costruito il design industriale in Italia ed hanno aperto la strada alla fase post-industriale dello sviluppo economico italiano. Il panorama nazionale è costellato di distretti specializzati, che contribuiscono alla definizione del quadro di un Paese nel quale la creatività è diffusa, nonostante si percepisca un certo divario tra il livello di sviluppo industriale del Nord e del Sud.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è parlato del declino del made in Italy. Ciò significa che il modello produttivo basato sui distretti industriali ha perso il suo potere competitivo (Bonaccorsi & Granelli, 2005). Il versante sul quale il modello pare deficitare maggiormente è quello
del’innovazione. Mentre alle sue origini il distretto industriale si configurava per una particolare forma di innovazione senza ricerca, quindi senza consistenti investimenti, ora pare proprio accusare una stringente necessità di riformulare la sua strategia in questo senso. Il distretto industriale è un modello prettamente italiano che ha poche rispondenze nelle economie degli altri paesi. Mentre il resto d’Europa andava costruendo grandi economie di scala, l’Italia ha puntato sullo sviluppo di piccole e medie imprese condensate in specifici territori e specializzate in un medesimo settore. Non potendo competere sul prezzo esse hanno puntato molto su due particolari tipi di innovazione. Un’innovazione legata al processo, favorita dalla co-localizzazione e dal continuo scambio di informazioni tra produttori di macchine e produttori finali dei prodotti, secondo una formula di “learning by interaction”. L’altro tipo di innovazione, formale ed estetica, si è sviluppata sul prodotto basandosi, come si è visto prima, sul design e su un rinnovamento periodico della gamma di prodotti, grazie a un processo innovativo collettivo e di esplorazione continua. Tale modello di innovazione, caratteristico per i suoi bassi investimenti, per la bassa appropriabilità dei vantaggi competitivi legati alle innovazioni e per l’instaurazione di cicli brevi di prodotto, ha esaurito progressivamente il suo potenziale di competitività. Innanzitutto perché è difficile sostenere a lungo un ciclico rinnovamento dei medesimi prodotti e poi perché il design è molto più semplice da imitare rispetto ad esempio ad un’avanzata tecnologia produttiva.
L’economia italiana, dunque, ha un consistente bisogno di creatività per riformulare i propri modelli di sviluppo e permettere alle aziende di essere competitive in uno scenario economico globale. Sarebbe necessario tenere presente che il pensiero creativo è un processo comune sia al settore culturale che a quello produttivo. Quello che cambia, com’è evidente, è l’esito concreto del processo. Innovazione e creatività, dunque, dovrebbero diventare due voci ineludibili dell’agenda politica.