1.3.1 Il tessuto industriale italiano. Le gabbie salariali di
Boeri-Ichino-Moretti
Da oltre un decennio l'Italia ha problemi di ecienza e di produttività e questo non solo a livello d'impresa, ma anche a livello di sistema e, dato che la competizione è oggi tra sistemi, il nostro Paese va male. La svolta, in questo senso, dovrebbe essere una riforma organica dello Stato attraverso la riduzione del cuneo scale, la lotta all'evasione, l'ecientamento della pubblica amministrazione e via discorrendo. Prioritario è anche il miglioramento dei fattori produttivi, ossia investimenti mira- ti, propensione all'innovazione e retribuzioni più intelligenti, quindi più legate alla produttività. La rappresentazione fornita spesso del mercato del lavoro in Europa è quella di un'area eterogenea, dove, nell'ultimo decennio, la dinamica del costo del lavoro su unità di prodotto ha avuto andamento molto dissimile tra i diversi Stati. Esso è rimasto piuttosto costante in Germania, crescendo invece intensamente nel- l'Europa mediterranea, acuendo una crisi economico-nanziaria fortemente connessa alla struttura del mercato del lavoro.
Il modello italiano è contraddistinto da alcune criticità che determinano comples- sità dicilmente superabili e compromettono la capacità di produrre performance competitive. Uno studio abbastanza recente condotto da Guido Corbetta, ha cam- pionato le prime 300 aziende di un insieme di Paesi tra i quali Svezia, Spagna, Italia, Gran Bretagna e Germania, permettendo una visione comparata delle modalità di conduzione manageriale65. Da esso si evince che, nella complessità europea, Ger-
mania e Italia hanno un certo grado di somiglianza, avendo una cospicua presenza di realtà medio-piccole, una concentrazione del manifatturiero paragonabile ed una percentuale quasi analoga di aziende quotate: 16,7 in Germania, 16,9 in Italia, a dispetto della Gran Bretagna, dove per una dierenza culturale, il rapporto è de-
65Si veda quanto scritto da G. SANTAMBROGIO sul sito The Rulling Compa-
nies Association, Italia, Germania, Stati Uniti. Stili e modelli di management a
confronto, http://rulingcompanies.org/italia-germania-stati-uniti-stili-e-modelli-di-management- a-confronto/.
cisamente più elevato. L'impianto imprenditoriale diverge soprattutto nell'assetto proprietario che vede prevalere in Italia un elevato controllo familiare, la carenza di public companies, un discreto numero di multinazionali, una riconosciuta presenza di aziende statali e di enti locali, mentre in Germania il 14% è rappresentato da public companies, il 19% da multinazionali, il 39% da aziende familiari. Le diversità sono lampanti sul fronte dei ricavi, con solo il 17% delle società del nostro Paese a supe- rare i 5 miliardi, laddove si raggiungono percentuali più che doppie in Germania. Ed il rapporto vale anche sugli scaglioni di fatturato minori. La proporzione si inverte, invece, se si guarda alla conduzione di tipo familiare nelle grandi realtà industriali, decisamente maggioritaria in Italia, in un sistema che non facilita l'approdo di capi- tali stranieri. Tutto ciò inuenza i processi di governo e, di conseguenza, condiziona il funzionamento dei sistemi premianti, facendo passare l'idea che abbiano più peso le dinamiche familiari o clientelari, piuttosto che criteri meritocratici sui quali puntano molto le aziende tedesche, sulla scia anglosassone, nel denire i percorsi di carriera. L'Italia deve riettere sulle proprie debolezze, le aziende devono compiere un salto dimensionale, la crescita della produttività dipende dagli investimenti in beni ca- pitali, in conoscenze, in ricerca e innovazione tecnologica. Nei paesi più evoluti, la crescita delle conoscenze e l'innovazione incidono più degli investimenti in capitale sico sulla crescita della produttività, invece, dai primi anni Novanta si è assistito a un cambiamento strutturale dell'economia italiana incentrato sull'apporto di una quantità maggiore di fattori produttivi piuttosto che sul miglioramento delle tecno- logie produttive o sull'introduzione di nuovi modelli organizzativi66. Generalmente
la crescita economica procede per stadi, nelle condizioni primordiali o di arretratezza un paese cresce accumulando capitale ed emulando il progresso tecnologico dei paesi più avanzati. Nell'avvicinarsi alla frontiera tecnologica, invece, la sviluppo passa per la creazione di nuovi prodotti e nuovi processi produttivi. Le caratteristiche strutturali dell'economia e scelte di politica economica a sostegno della R&S deboli hanno frenato la transizione naturale da uno stadio di maturazione lontano dalla frontiera a quella basata sull'innovazione. Una indagine promossa dalla convenzione CNEL-ISTAT67 mette in luce come l'economia italiana, benché abbia proseguito il
processo di accumulazione del capitale a ritmi positivi sino al 2011, ha perso progres- sivamente terreno rispetto le medie europee a causa di una perdita di ecienza nella gestione dei fattori produttivi, come mostrato dal declino della TFP68. La parabo-
66(Daveri, Jona- Lasinio, 2005; Antonecchia, Daveri, 2015
67Progetto CNEL-ISTAT sul tema Produttività, struttura e performance delle imprese espor-
tatrici, mercato del lavoro e contrattazione integrativa Report intermedio previsto dall'art. 2, comma 2, lett. b), della convenzione operativa siglata il 3 dicembre 2013.
68E' un buon indicatore del Pil. La TFP quantica la crescita del prodotto collegabile al miglio-
la decrescente della produttività del lavoro è stata soprattutto l'esito della perdita di ecienza dell'economia, misurata dalla contrattura della produttività totale dei fattori. L'apporto del capitale, è stato in linea con quello degli altri paesi europei, mentre non si è tenuto il passo nell'innovazione. Ad indicare che le ragioni di questa involuzione sono il risultato di un processo, partito negli anni '90, piuttosto che una crisi temporanea. Il sistema Italia, all'ora eciente nelle attività a basso contenuto tecnologico, in attività produttive di dimensioni medio-piccole non è stato resiliente, troppo legato ad un'idea di business inadeguata alla nuova scala dell'economia. 69
La conduzione familiare, la resistenza della proprietà a delegare, le ridotte dimen- sioni, alimentano una visione distorta del personale dipendente delle nostre aziende, considerato spesso solo come costo incidente e pertanto causa di delocalizzazioni frequenti. Al contrario una realtà contenuta, se da un lato non consente lo sviluppo di concreti piani di carriera, dall'altro dovrebbe facilitare l'emersione dei soggetti più meritevoli70. Per di più un'indagine ISTAT71ha attestato che il costo del lavoro
in Italia è in linea con la media europea ed, anzi, dal 2007 si assiste ad un ridimen- sionamento dei salari reali che teoricamente potrebbe migliorare la competitività delle nostre società sui mercati internazionali72. Il salario reale, è calato di quasi
il 6% negli ultimi 6 anni, andando sì a ridurre la domanda interna, ma divenendo leva competitiva non indierente per le nostre realtà industriali, almeno sulla carta. Purtroppo, non è suciente analizzare i livelli di salario reale per capire se un paese è più o meno concorrenziale. Se così fosse, non avrebbe dovuto scandalizzare la pro- posta di Andrea Ichino, assieme ad Enrico Moretti e Tito Boeri, avvalorata da uno studio per la fondazione Rodolfo Debenedetti rmato nel giugno 2014, sulla reintro- duzione di meccanismi simili alle gabbie salariali per il rilancio della produttività nel Mezzogiorno. Un'idea politica non praticabile tramite la contrattazione nazionale,
organizzativi innovativi. La TFP considera un ampio gruppo di parametri non direttamente quanti- cabili come l'ottimizzazione del processo produttivo, ecientamento nell'organizzazione del lavoro e nelle tecniche manageriali, economie di scala, esternalità positive e via discorrendo.
69Il nostro Paese cresce a tassi decisamente minori rispetto agli altri paesi dell'Unione europea.
Negli anni 1995-2005, il tasso di crescita medio annuo della nostra economia si è tenuto circa 0,8 punti percentuali al di sotto di quelli di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Uno squilibrio che è andato ampliandosi ulteriormente nel periodo 2005-2014, con uno spread che ha toccato 1,5%.
70Così G. PENNISI a commento di una elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base
dei dati pubblicati dal World Economic Forum Il lavoro italiano ha le caratteristiche di non essere secondo a nessuno. Due economisti [...] Charles Kindleberger e Ferenc Janossy, hanno dimostrato che il `miracolo economico' è stato determinato innanzitutto dalla capacità di apprendimento e dalla essibilità dei lavoratori italiani. Le classiche del WEF provano che l'eccesso di regole ha tarpato le ali essenziali per la crescita.
71Struttura del costo del lavoro ISTAT (2014)
72Tutto ciò a smentire la convinzione generalizzata dell'alto costo del lavoro in Italia: elevato
se confrontato a quello della Polonia, ma minore se paragonato a quello francese o tedesco. Nel periodo che va dal 1° trimestre del 2009 al 2° trimestre 2014, esso è aumentato solo leggermente, stabilizzandosi dal 3° trimestre del 2013.
ma solo incoraggiando accordi di fabbrica o aziendali. Secondo il paper non è vero necessariamente che ne risentirebbe il meridione in quanto, a detta degli autori, chi lavora sta meglio al Sud, ovvero per un soggetto che lavora è meglio farlo al Sud perché lo stipendio nominale è leggermente inferiore che al Nord, ma è decisamente più elevato lo stipendio reale73. Evidenze che descrivono una profonda anomalia
rispetto a sistemi europei nei quali gli stipendi sono legati alla produttività. Una pesante dierenza di ecienza tra nord e sud che, per l'indagine richiamata, di- cilmente può essere risolta solo con la essibilità dei salari in quanto al Nord, con un costo della vita superiore, è impossibile aumentare le paghe. Nel Mezzogiorno i salari reali più elevati accompagnati ad un minor costo della vita disincentivano a lavorare più attivamente, per esempio attraverso straordinari o simili, causando la minore produttività. Una analisi globale delle disuguaglianze non può ignorare altre variabili, come ad esempio la natura dei servizi. Per avere a Ragusa lo stesso livello qualitativo dei servizi sanitari di Milano si dovrebbe spendere 18,7 volte tanto. Ed è questo il motivo per cui salari reali più cospicui non si riverberano direttamente in una migliore qualità della vita o apprezzabilmente sui redditi. A sostegno della tesi Boeri, Ichino, Moretti bisogna giustamente ricordare che con lanti democratico piano di Sergio Marchionne a Mel e Pomigliano i risultati sono stati premiati dai bonus.74
Vi sono comunque pareri discordanti. La produttività discende dalle innovazioni tecnologiche, dall'organizzazione della produzione, dalla dimensione e dai settori di attività delle imprese, mentre i salari, generalmente vicino al livello di sussistenza, variano sulla base della forza contrattuale dei lavoratori. Gli stessi dati contenuti nel testo presentato dal presidente della BCE all'ultimo vertice europeo di Bruxel- les, se inquadrati in una prospettiva logica e temporale dierente, confermano che per circa tre decenni i salari reali in Europa e in tutti i paesi industrializzati sono cresciuti meno della produttività. Se si considera la dimensione relativa del salario, le evidenze empiriche disponibili illustrano una riduzione costante e generalizzata della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori75. Su questa linea il Inter-
national Labour Oce che nel rapporto Global Wage Report 2013 chiarisce come solamente in un numero ristretto di paesi (Danimarca, Francia, Finlandia, Regno
73S. RIZZO, Stipendi, l'Italia rovesciata Il Sud più ricco del Nord, Corriere della Sera,
26/06/2014.
74D. PIRONE, Marchionne: daremo a ogni operaio Fiat 10.000 euro degli utili dei prossimi an-
ni, <http://www.ilgazzettino.it/economia/marchionne_daremo_ogni_operaio_at_10_000_euro_degli_utili_prossimi_anni- 981460.html>, tratto da www.il gazzettino.it, 16/04/2015.
75Così M. DONATO, Fatica sprecata. Produttività e sala-
ri in Europa, <http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/fatica-
sprecata-produttivita-e-salari-in-europa/>, 17 marzo 2013, tratto da
Unito, Romania e repubblica Ceca) l'incremento della produzione del lavoro sia stato accompagnato da un aumento dei salari reali ed, anzi, nei paesi all'ora economica- mente più rilevanti del pianeta, Stati Uniti, Giappone e Germania, la produttività è cresciuta ed i salari reali sono scesi. In altri stati capitalistici la correlazione non esiste o è alquanto debole. L'andamento globale, scrivono, ha indotto una corre- zione nella distribuzione del reddito nazionale (con la parte dei redditi da lavoro in calo e quella del capitale in crescita), come risposta all'innovazione tecnologica, alla globalizzazione, all'allargamento dei mercati nanziari e, all'allentamento del tasso di sindacalizzazione che ha eroso il potere contrattuale dei lavoratori. Un'af- fermazione chiara di come la conittualità tra parti sociali sia ancora, per molti, imprescindibile. Lo studio conclude che data per certa la positività di una maggiore produttività, non esiste certezza empirica che essa implichi l'innalzamento dei alti salari, mentre tipicamente è vero il contrario, ossia un maggiore valore aggiunto prodotto per lavoratore occupato conduce a una minore occupazione che svigorisce la lotta salariale.
1.3.2 Produttività: i dati della questione
Dopo aver esposto i diversi punti di vista, sembra opportuno riportare, anche solo sinteticamente, alcuni dati da fonte Eurostat sui salari e sulla produttività. L'I- stituto confronta i valore della produttività reale per singolo addetto nei 28 paesi dell'Unione europea da cui emerge che, fatta 100 la produttività misurata nel 2010, l'Italia segna quota 102 nel 2004, raggiunge i 103 nel 2007, e scenda nel 2013 ad un valore di 98. Quindi, alla riduzione, prima ricordata, del 6% del salario fra il 2007 e il 2013, si aanca una diminuzione del 4,85% della produttività per operatore. Diversamente, per i tedeschi il salario nominale è cresciuto del 3% fra il 2007 e il 2013, con la produttività che si riduce, ma in misura minore rispetto al nostro Pae- se. E' un dato ingannevole dato che se si considera il contesto generale, nel quale le politiche occupazionali hanno dato i loro frutti, con calo della disoccupazione del 3%, a parità di produttività, un numero superiore di occupati intacca la produttività percentuale per operatore. Discorso analogo vale per la Spagna che presenta dati che se presi singolarmente sembrano più incoraggianti Nonostante questo la Germania è la locomotiva d'Europa, la Spagna no. Se la disoccupazione aumenta con tassi più elevati della produttività totale si dovrebbe assistere a variazione positive della produttività per addetto. Ecco che, se si considera pure la disoccupazione italiana, il confronto con la Germania diviene impietoso76. Esso emerge drasticamente anche
76Così S. ZECCHINI, L'indicatore dell'ecienza è in realtà un aggregato di più voci che be-
focalizzandosi sulla dinamica della produttività del lavoro espressa in termini di ore lavorate: dal 2001 il nostro Paese ha fatto registrare percentuali di crescita inferiori rispetto alla media dei paesi EU15 e, solo dopo la forte caduta generalizzata dei livelli di crescita in Europea a seguito della crisi nanziaria, la produttività italiana è tornata a crescere per un paio d'anni. Dal 2012 si è tornati a scendere a livelli antecedenti l'inizio millennio. Un dipendente italiano produce mediamente 32 euro di PIL per ora, al di sotto dei livelli dell'Eurozona e di poco maggiori della media nell'Europa a 27: francesi e tedeschi sono più avanti rispetto all'Italia, mentre ci seguono Spagna, Grecia e Portogallo. Tra i paesi più virtuosi gurano Lussemburgo (lontanissimo con i suoi 58,2 ¿/ora), Danimarca, e Irlanda. I paesi più simili per struttura all'Italia, quindi Belgio, Paesi, Francia, Svezia e Germania si stagliano tutti sopra quota 40. Come si vede, i 32 euro italiani sono parecchio distanziati. Il modello da seguire, preso atto delle similitudini e della documentata esperienza partecipativa, sembra essere dunque quello tedesco.