Capitolo 5: LA SERIALITÀ NEI MODELLI DI BUSINESS: COESISTENZA E
5.3 Il modello misto subscription/ad-supported
5.3.3 Produzione e distribuzione
La circolazione dei contenuti dei network, sia broadcast, sia cable, può avvenire attraverso diverse forme di sfruttamento dei diritti di trasmissione, che consentono di ottenere ricavi aggiuntivi rispetto alla prima messa in onda (first-run), spesso insufficiente a coprire i costi di produzione. La syndication, che più volte abbiamo citato nel corso del presente lavoro, è una strategia comune ai player della nicchia a modello misto che consente di prolungare il ciclo di vita del prodotto e di incrementare i ricavi attraverso la distribuzione su canali secondari. Dal momento che la prima finestra, quella della messa in onda, consente di coprire i costi solo attraverso i ricavi da pubblicità e, indirettamente, attraverso le transmission fee corrisposte dai cable provider, la secondary syndication consente di vendere il prodotto a un canale o a un distributore nazionale o straniero, che può disporne nel proprio palinsesto. Per i canali broadcast, che si presentano come Parent Company, ovvero come network a cui sono affiliate reti locali, la first-run syndication è pensata per la ritrasmissione del contenuto sulle affiliate, spesso con gli spazi pubblicitari inclusi nell’assegnazione. La off-network syndication prevede invece la trasmissione al di fuori della propria rete di stazioni locali a patto che la serie TV venduta e ritrasmessa abbia raggiunto un numero sufficiente di episodi che possa coprire un periodo di messa in onda di venti settimane (Ulin 2013). Tale numero è, come abbiamo detto, solitamente fissato a cento ed è strettamente legato alle politiche di durata e di produzione dei broadcast network. L’international syndication coinvolge la distribuzione al di fuori dei mercati locali e implica una strategia di sfruttamento che deve massimizzare i ricavi, ma anche discriminare il prezzo tra mercati, tenendo conto del valore dei singoli territori e delle loro specificità (Doyle 2013). Per i canali cable la syndication è ugualmente utile allo scopo di ottenere ricavi aggiuntivi rispetto alla prima messa in onda, ma anche di incrementare il valore immateriale e il prestigio della rete di appartenenza
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attraverso la crescita della reputazione presso quei pubblici che possono non fare parte dell’audience specifica del canale.
Le strategie di windowing servono a segmentare l’audience attraverso la dilazione nel tempo del contenuto distribuito, in modo da creare un effetto di scarsità del prodotto, accrescendone la domanda e massimizzandone i ricavi (Christophers 2012). Dal momento che una serie TV è costosa da produrre, ma non da riprodurre, il windowing può intendersi come una forma di discriminazione del prezzo che coinvolge la vendita a gruppi diversi di consumatori (Moschandreas 1994). Tuttavia, con la digitalizzazione, le nuove forme distributive dei contenuti e i cambiamenti nelle abitudini di consumo e di accesso da parte dell’audience a seguito dello sviluppo dei servizi di SVOD, questa segmentazione sta divergendo dalle pratiche tradizionali. Nella televisione degli anni ’90, per massimizzare i profitti i content provider pianificavano la sequenza distributiva in una serie di finestre dilazionate nel tempo secondo un modello che valorizzasse prima il consumatore premium e poi quello basic, come rappresentato in figura (Owen e Wildman 1992).
Figure 9 Le finestre distributive nella network era e nella post-network era (adattato da Doyle 2016)
Questa configurazione delle finestre inizia a mutare già con il digitale e trova il suo culmine con lo sviluppo delle piattaforme over the top. Le finestre distributive si moltiplicano e, con esse, anche la circolazione delle risorse economiche nella creazione di contenuti, ora spartite tra i sistemi di SVOD e quelli di direct retail (Doyle 2016). La configurazione delle finestre distributive, come mostra la figura, è oggi più complessa e comprende, oltre alla messa in
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onda tradizionale, una serie di passaggi sequenziali o contestuali in cui dal primo distributore si passa, anche contemporaneamente, alla vendita sul mercato internazionale secondo una logica day-to-day nel caso della serialità di maggiore richiamo, alla trasmissione su canali premium, su canali basic, e al passaggio sulle piattaforme di SVOD (subscription video on demand), ai canali fisici come il DVD e, infine, alla fruizione gratuita su portali AVOD (advertisement video on demand). Tale frammentazione non comporta tuttavia che questo schema sia seguito pedissequamente.
Tra le finestre distributive, quella del SVOD costituisce la più ambita, nonché quella in cui la concorrenza è più agguerrita perché garantisce maggiori ricavi rispetto alla sola pubblicità. Il caso di Hulu è, per le Media Company che ne fanno parte con quote di partecipazione, uno degli strumenti su cui trasferire contenuti da distribuire in streaming, ma anche Netflix rappresenta in questo senso una delle piattaforme di accesso al syndication market online tanto per la circolazione del contenuto sul territorio nazionale, tanto, specialmente, per quella internazionale. Tornando al caso CBS, a differenza delle altre reti, il canale non dispone di un servizio di streaming come Hulu e non ha stretto accordi con altri portali, ma ha puntato su un servizio proprietario, CBS All Access, con l’obiettivo di attrarre nuovi spettatori e nuovi acquirenti sul proprio prodotto (Miller 2016). Nel momento in cui i prodotti più ricercati, per emergere nel sistema competitivo, sono i big statement programs (Doyle 2016), l’importanza dell’investimento sulla qualità del contenuto diventa strategica per i player del modello misto che vogliano riposizionarsi. In questo senso, CBS punta alla riabilitazione della propria reputazione, in quanto broadcast network, attraverso un lavoro sulla qualità e sul brand che da una parte smentisce uno dei pregiudizi più diffusi nella glossa televisiva sul fatto che la cessione dei diritti nei canali secondari, specialmente presso i sistemi di SVOD, prediliga solo una serialità orientata al binge watching, dall’altra riscrive il concetto secondo cui i network distribuiscono solamente una serialità episodica e procedurale (Miller 2016). È tuttavia indubbio che la produzione di un’offerta high end che richiede finanziamenti rilevanti possa essere perseguita da quegli attori che possono investire su tali prodotti, ovvero i canali premium e i portali over the top. Per ragioni intrinsecamente legate al modello di business, le reti broadcast e basic non possono sostenere tali investimenti e, pertanto, si polarizzano più lontano dal quality factor e dalla quality audience su cui questi hanno invece costruito la propria strategia (Doyle 2016).
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Da quanto detto appare evidente come la proprietà del contenuto sia elemento focale nelle strategie di produzione e sfruttamento del prodotto lungo la catena distributiva. L’integrazione verticale tra produzione e distribuzione consente infatti alcuni vantaggi per il network, specialmente per quanto riguarda la gestione dei diritti. Nel mercato televisivo americano se ne hanno diversi esempi, uno dei più recenti è a tal proposito costituito proprio da CBS, che all’inizio del 2018 si trova a dirimere una causa da $30 milioni di dollari per aver mancato di pagare a Chuck Norris, star della serie Walker Texas Ranger, e alla sua casa di produzione, la Top Kick, il 23% dei profitti ottenuti dallo sfruttamento dell’opera, di cui la rete era primo distributore105. La controversia sorge dal momento che la rete non detiene la proprietà del contenuto, per cui sono state negoziate delle tariffe per la sua licenza. Si tratta di un caso ricorrente nell’industria televisiva, dove serie di successo possono costare al canale di trasmissione ben oltre i ricavi ottenuti dalla loro distribuzione. Due soggetti sono infatti coinvolti in questo processo: gli Studios, ovvero gli organismi atti alla produzione della serie, e i network, che le distribuiscono. Per finanziare la produzione, i network hanno storicamente adottato una pratica di finanziamento chiamata deficit financing, di cui abbiamo parlato nel capitolo iniziale. Secondo questa modalità di gestione dei costi di produzione, il network paga allo studio una licenza per commissionare la produzione di uno show, ottenendo in cambio il diritto della messa in onda (first run) e, tipicamente, anche il suo sfruttamento nella prima fase del ciclo di vita (rerun). Lo studio, invece, ne mantiene la proprietà e lo sfruttamento al di là dei termini negoziati con il canale distributivo. Il finanziamento del deficit permette al distributore di pagare una quota di partecipazione, generalmente pari a un terzo, per avviare la produzione e di ordinare il numero di episodi che è disposto a mandare in onda, mentre la restante parte è assorbita dallo studio, che può poi disporre del prodotto una volta esaurite le rerun pattuite, nei mercati secondari (Litman 1998). La soglia dei cento episodi è preferenziale per agevolare il processo di rivendita di una serie sul mercato delle syndication. Il deficit financing minimizza il rischio per il network nel caso di insuccesso; nel caso di successo, tuttavia, è lo studio ad avere un vantaggio nella gestione dei contratti, in quanto può rinegoziare i termini economici della licenza, distribuire a una rete con una maggiore disponibilità a pagare, come quelle via cavo o alle piattaforme di streaming, o vendere sui mercati stranieri. Il successo di una serie comprende inoltre un aumento dei costi di produzione, dovuti, ad esempio, alla gestione dei contratti dei talent
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(Caves 2000). Nelle industrie culturali si parla infatti di sindrome di Baumol per indicare il fatto che in questi settori, detti labour-intensive, i costi del lavoro tendono a crescere più velocemente di altri (Doyle 2013). La serie Friends, già citata, è uno degli esempi più evidenti di questa peculiarità, in quanto gli attori coinvolti, all’aumentare della fama della sitcom, hanno potuto di anno in anno stipulare contratti più remunerativi per la loro prestazione, da $22500 mila dollari a episodio nella prima stagione fino a $1 milione di dollari per la nona106. Salvo rari casi, la pratica del deficit financing è andata a vantaggio del committente, specialmente durante la network era, quando le reti broadcast erano gli unici compratori e potevano proporre finanziamenti nettamente inferiori agli effettivi costi di produzione di una serie. La strategia contribuisce a mantenere alte le barriere all’entrata nel mercato della produzione, dove solo le imprese di dimensioni rilevanti possono permettersi il rischio del fallimento e di partecipare al finanziamento di un programma (Doyle 2013).
Lungo la linea produttiva, a partire dagli anni ’80, si assiste a un mutamento rispetto alla suddivisione del lavoro tipicamente impiegata nell’industria televisiva, e le cui ripercussioni sono oggi ancora più accentuate dall’estensione degli apparati produttivi nel contesto internazionale globale (Mayer 2011). Il passaggio all’economia post-fordista a specializzazione flessibile ha infatti modificato il tessuto delle industrie culturali e creative (Caves 2000), intervenendo sui processi di integrazione verticale nelle strutture produttive. Questo mutamento, noto come disintegrazione verticale (Christopherson e Storper 1986; 1989), ha portato dalla produzione in-house a frammentare la filiera con l’obiettivo di fornire alle Media Company micro-servizi specializzati che limitano il rischio di investimento, ma ne mantengono il potere nella gestione dei processi. Nel momento in cui viene attivata una produzione, le imprese mediali si rivolgono infatti a un insieme di professionalità, chiamate below the line, che vengono contrattualizzate sulla base del progetto in corso. Questi lavoratori si occupano degli aspetti più operativi, generalmente le mansioni tecniche di una produzione, in contrasto con i lavoratori above the line, ovvero registi, produttori e attori, che vengono invece considerati tra i professionisti più prestigiosi (Caldwell 2008). L’avvio di una produzione prevede dunque la partecipazione di figure che vengono chiamate ad hoc e che vengono inserite in una struttura organizzativa a sua volta flessibile. Mentre la casa madre, ovvero la conglomerata mediale, compartecipa da un punto di vista finanziario, la
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singola produzione viene condotta attraverso la creazione di uno studio dedicato alla realizzazione del prodotto specifico e, una volta ultimatolo, essa viene sciolta (Martell 2010). Il panorama delle imprese può dunque essere raggruppato in tre tipologie di Studios: le Major, che integrano verticalmente produzione e distribuzione, le Independent Company, che non avendo tale funzione possono ottenere profitti attraverso la cessione dei diritti di distribuzione, e le Micro Company, costruite ad hoc per una produzione specifica, spesso co-finanziata da una Major e realizzata in collaborazione con altri Studios. Nella produzione di serialità e, più in generale, dei contenuti dell’industria dell’intrattenimento, si assiste dunque a un doppio processo, da una parte la scomposizione degli stadi a monte della filiera, che vengono frammentati per diminuire il rischio, dall’altra il mantenimento dell’integrazione verticale tra produzione e distribuzione all’interno delle Media Company per l’ottenimento della proprietà dei diritti dell’opera atti al suo sfruttamento e, dunque, alla gestione e al controllo dei costi, che vengono assorbiti grazie al coordinamento delle finestre distributive. L’integrazione verticale consente infatti di avere un accesso diretto all’audience e di poterne meglio individuare le caratteristiche, adeguando l’offerta alla sua composizione (Doyle 2013). Come vedremo, questo vantaggio è di grande importanza per i player che operano nel modello economico subscription based, specialmente i portali.
Da un punto di vista storico, il sistema produttivo americano ha visto per molto tempo, ovvero nel corso della network era, il predominio delle Media Company e della pratica del deficit financing e dunque l’esercizio del loro potere rispetto alle case di produzione indipendenti. Vale la pena tornare a tal proposito su una questione trattata nel capitolo 3: nel corso degli anni ’70, la FCC interviene per regolamentare il settore attraverso le Financial and Syndication Rules (fin-syn rules), che proibiscono ai network di avere quote proprietarie nei programmi mandati in onda in syndication presso le proprie stazioni affiliate nella fascia del prime time, la più seguita. Il provvedimento incentiva l’inserimento nei palinsesti delle stazioni locali di una programmazione prodotta da studi indipendenti, mentre limita la messa in onda di contenuti di proprietà delle Major. L’integrazione verticale torna però a essere dominante con l’abrogazione delle fin-syn nel 1995. Esse vengono definitivamente eliminate con il passaggio dal sistema oligopolistico delle Big Three alla multichannel transition, ovvero con la moltiplicazione dell’offerta tramite i canali via cavo. Come approfondito precedentemente, l’allentamento del sistema regolamentare provoca nel mercato una nuova ondata di conglomerazione, che vede la fusione tra Media Industry e, dunque, il ritorno a un
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sistema di produzione in-house da parte della casa madre proprietaria del network dove il programma sarebbe stato distribuito (Lotz 2014). Il ritorno all’integrazione verticale porta a una nuova forma di produzione, detta common ownership, ovvero la spartizione della proprietà di un contenuto tra la conglomerata mediale e la casa di produzione. Questa pratica, che ha portato a un accrescimento delle dinamiche competitive e alla ricerca di contenuti di successo, ha anche condotto a un’escalation nei costi di produzione, rendendo quasi impossibile la produzione di serialità da mandare in onda nel prime time alle case indipendenti. La proprietà comune consente infatti alla conglomerata di ottenere economie di scala grazie alla gestione del prodotto in tutte le sue fasi, dal concepimento alla promozione, fino alla distribuzione e al suo sfruttamento lungo il ciclo di vita. L’avvento del cavo e la sottrazione di domanda di mercato ai broadcast network cambia i processi produttivi e le strategie di programmazione.
Abbiamo già visto nel capitolo precedente quali novità siano state introdotte da un punto di vista stilistico nella serialità via cavo. Affrontando il discorso da un punto di vista economico, gli economisti dei media individuano analoghi mutamenti nel passaggio dal sistema oligopolistico del broadcasting a quello del narrowcasting della televisione via cavo. Il modello di Steiner (1952) aveva dimostrato che nel sistema di broadcast i canali tendevano a duplicare la programmazione, contrariamente a quanto succede nella teoria economica generale sulla competizione. La ricerca successiva ha corroborato tale teoria giungendo, nel corso degli anni ’60 e ’70, dunque ancora in piena network era, all’introduzione del modello del “minimo comun denominatore” (Beebe 1977; Owen e Wildman 1992), ovvero della ricerca da parte del canale di una “programmazione di massa, duplicativa e monotona” (Waterman 2006). I modelli che studiano la pay-TV (Chae e Flores 1998) mostrano invece che rispondendo direttamente alla domanda di un consumatore disposto a pagare per fruire della loro offerta, i canali a sottoscrizione di abbonamento danno forma a una programmazione che intercetta una molteplicità di gusti e che garantisce una maggiore diversity. Owen e Wildman (1992) sostengono tuttavia la necessità dell’esistenza di entrambi i modelli, quello ad-supported e quello a pagamento; l’assunto è condiviso da Doyle (1998), per cui la compresenza dei revenue model garantisce da una parte l’offerta di programmi per il grande pubblico, dall’altra la presenza di una programmazione più di nicchia. L’accrescimento della competizione porta però a una maggiore differenziazione tra programmi e alla ricerca di una qualità endogena nel prodotto da parte di tutti i player.
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Questo modello di scelta, che prende il nome di endogenous product quality model, viene perseguito proprio al fine di ottenere economie di scala e la massimizzazione dell’audience e della sua soddisfazione e viene utilizzato tanto nel segmento pay, quanto in quello ad-supported (Bourreau 2003). La competizione sulla qualità del prodotto, perseguita attraverso l’aumento della spesa per la produzione dei contenuti, può essere però attuata solo da quei player che riescono a sostenerne i costi, dunque da imprese integrate verticalmente. Alla luce di quanto detto nei capitoli precedenti, la conglomerazione e la qualità del prodotto sono elementi essenziali nell’industria televisiva contemporanea, non soltanto come strategie competitive, ma anche come strumenti di sopravvivenza nel contesto della digitalizzazione e delle piattaforme di video on demand. Tuttavia, sono gli stessi Media Economics a porre la questione della coesistenza dei modelli di business e aziendali come condizione per garantire la diversificazione nel mercato.