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Ferenc Molnár, tra fama internazionale e modernità

3. I ragazzi della via Pál Nasce la prosa moderna per l’infanzia

3.3. Una proposta interpretativa

Come ho mostrato nelle pagine precedenti, freschezza della scrittura e vividezza dei caratteri con cui vengono tratteggiati i personaggi sono le particolarità su cui i vari recensori si trovano d’accordo quando esaltano la novità del romanzo rispetto alla tradizionale letteratura per l’infanzia. Altre tematiche che vengono toccate nelle recensioni – coeve e non – sono come si è visto quella del patriottismo, quella di un più ampio sistema di valori, trasmesso attraverso la storia in maniera non didascalica, quella della nostalgia con cui si guarda all’infanzia trascorsa.

Per trovare un orientamento in questa complessità di temi e per selezionare peraltro le problematiche più pertinenti ai fini di questa trattazione è opportuno, però, stabilire una distinzione precisa innanzitutto tra i modi di scrittura e i temi trattati. Si

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tratta chiaramente di una distinzione forzata, perché tali elementi sono ovviamente ben integrati tra loro e dipendono e si rimandano l’un l’altro. Pertanto, ai fini di questo distinguo, ho scelto un elemento conduttore, che rappresenta un orientamento di lettura, un filo rosso che finora è capitato di incontrare soltanto a margine nelle analisi del romanzo. Mi riferisco al carattere plurilingue del romanzo, alla sovrapposizione di diversi gerghi, al fatto che alcuni temi centrali siano veicolati da quelli che potremmo definire “corpi estranei” linguistici. È chiaro che quella del plurilinguismo non può e non deve essere l’unica chiave di lettura del testo. Essa è in ogni caso particolarmente funzionale agli obiettivi del presente lavoro. Da un lato perché un’analisi delle traduzioni deve passare necessariamente attraverso un’attenta analisi linguistica – e sono questi elementi che generalmente vanno persi in traduzione –; dall’altro perché l’aspetto linguistico è veicolo di temi e ambienti che fanno dialogare il romanzo con una tradizione letteraria molto più ampia di quella a cui si tende a ricondurlo, sarebbe a dire la discussione attorno ai temi del patriottismo e della guerra. O, ancora meglio, questi temi possono essere letti in un’ottica molto più complessa di quella apertamente pedagogica.

Nelle pagine seguenti riprenderò dunque i suggerimenti che la critica ha dato sia sul piano dell’interpretazione sia dal punto di vista narratologico, cercando di ricodurli al fenomeno del plurilinguismo come punto di osservazione privilegiato, come chiave di lettura che permette di rafforzare o contrastare alcune posizioni della critica stessa. Attraverso quest’operazione cercherò dunque di isolare, per così dire, quei punti più problematici che vengono a galla in particolar modo nel momento della traduzione e che analizzerò nei capitoli successivi.

3.3.1. Il plurilinguismo

In una delle più efficaci descrizioni della città di Budapest, in apertura del romanzo, Molnár tratteggia la vivacità della metropoli con le seguenti parole:

Mintha kiszabadult kis rabok lettek volna, úgy támolyogtak a sok levegőn és a sok napfényben, úgy kószáltak bele ebbe a lármás, friss, mozgalmas városba, amely számukra nem volt egyéb, mint kocsik, lóvasutak, utcák, boltok zűrzavaros keveréke, amelyben haza kellett találni236.

236 [Come se fossero stati dei piccoli schiavi liberati, barcollavano in tutta quell’aria, in tutta quella luce,

vagabondavano in quella città rumorosa, fresca, movimentata, che per loro non era altro che un miscuglio caotico di auto, tram a cavalli, strade, negozi, in cui bisognava ritrovare la via di casa.] Le traduzioni delle citazioni dal romanzo riportate in questa sezione sono tutte mie e sono da intendersi come semplici traduzioni di servizio, che hanno l’obiettivo di riportare il più chiaramente possibile quanto si evidenzia nell’analisi dell’originale. Per quanto riguarda i riferimenti bibliografici, data l’infinita quantità di edizioni ungheresi, ritengo di scarsa utilità la citazione dei numeri di pagina da

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Vorrei soffermarmi sull’aggettivo zűrzavaros, che significa “confusionario, caotico”, ma che rimanda anche all’idea di confusione babelica, che in ungherese si rende appunto con l’espressione bábeli zűrzavar. Confusione nel senso di “confusione linguistica”, quindi. È anche questa una componente della Budapest di fine secolo (come abbiamo già visto) e se è vero che Molnár non vi insiste particolarmente sul piano descrittivo, il suo stile realistico lo porta a dare concreti segnali di questa babele prettamente austro-ungarica. Sono segnali che permettono di trovare interessanti implicazioni sul piano interpretativo.

La complessità linguistica del romanzo di Molnár è messa in luce da Veronika Polay in un saggio dedicato alla traduzione dei Ragazzi della via Pál in tedesco237. La sua

analisi pone il problema della traduzione interculturale e considera il romanzo di Molnár, in quanto rappresentazione di un mondo reale, espressione di un’intera comunità linguistica con cui il traduttore deve necessariamente confrontarsi. Polay distingue questo tipo di romanzo da quei romanzi, soprattutto per ragazzi, che creano un mondo altro, utopico (porta come esempio Harry Potter), in cui il traduttore, una volta trovata la chiave per riproporre la creatività linguistica dell’autore, vi si muove più liberamente di quanto non faccia quando deve confrontarsi con un sistema linguistico realmente esistente.

In forma molto condensata, Polay tratteggia una caratteristica centrale del romanzo, il suo carattere plurilingue, che è espressione di un preciso contesto socio-culturale e in quanto tale pone una sfida al traduttore che ha di per sé, secondo Polay, il sapore della sconfitta. Il motivo per cui questa sconfitta ha un forte peso in termini di ricezione del testo tradotto è che la rappresentazione di una pluralità di lingue all’interno di un testo fizionale rappresenta molto più di un accessorio stilistico e lavora sul piano del significato in relazione diretta con i valori socio-culturali contenuti nel testo238. Se peraltro, come nel caso dei Ragazzi della via Pál, quello del

una edizione qualsiasi e preferisco riportare invce le indicazioni dei capitoli. È infatti molto più agevole operare una ricerca dei singoli brani attraverso la versione digitalizza, scaricabile dal sito http://kalaka06julius.homestead.com/files/palutcai.htm.

237 V. Polay, Übersetzung von literarischen Werken – Übersetzung von Kulturen, in TRANS. Internet-Zeitschrift für Kulturwissenschaften, 15/2004, in URL: http://www.inst.at/trans/15Nr/07_2/polay15.htm#t3.

Polay prende in considerazione la traduzione del 1928 di Edmund Alkalay.

238 Cfr. D. Delabastita/R. Grutman, Fictional representations of multilingualism and translation,

in Fictionalizing Translation and Multilingualism, numero speciale di Linguistica Antverpiensia New Series, 4, 2005, pp. 11-35: «Crucially, it also provide a comment about our socio-cultural values and the state of the world we live in. In that respect, fictional representation of multilingualism on the one hand, and of its translation on the other, ultimately lead us back to a common reality, that is, if we under stand ‘translation’ not just as an abstract or ‘technical’ operation between words and sentences, but as

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plurilinguismo non è un tema centrale all’interno della trama, ma è piuttosto un modo di scrittura, esso trasmetterà sistemi di valori, o prenderà posizione su di essi, in maniera meno dichiarata ed eclatante e dunque con un maggiore rischio di essere trascurato in traduzione.

Se si può definire il plurilinguismo come compresenza di più lingue nello stesso testo, occorre affrontare anche il problema di cosa si intenda per “lingue”. Grutman tra gli altri propone di considerare, «for the sake of text-internal analysis»239 non soltanto le

lingue codificate, ma tutte le varietà linguistiche in generale, sottolineando peraltro quanto sia labile la distinzione tra languages e language varieties240. Grutman propone un

concetto di lingua il più possibile aperto e flessibile, che possa comprendere non soltanto la tassonomia delle lingue “ufficiali”, ma anche «the incredibile range of subtipes and varieties existing within the various officialy recognised languages», che spesso arrivano a sfidare qualsiasi tipologia linguistica241. Ne sono un esempio le

interferenze linguistiche nelle popolazioni migranti, esempio che, come si vedrà a breve, sarà rilevante anche per I ragazzi della via Pál.

Dunque aprire il concetto di plurilinguismo alle varietà linguistiche è di importanza cruciale per l’analisi del testo, mentre importa poco che si tratti di «“national”, “dead” or “artificial” languages, slang, dialects, sociolects, or idiolects, that make up the multilingual sequences»242. Ciò che importa, afferma Grutman, è la loro interazione

nel testo. L’analisi testuale non deve tanto registrare la presenza di linguaggi altri rispetto a quello “principale”, quanto comprendere le relazioni tra essi, sia dal punto di vista tematico (ciò di cui si parla) che dal punto di vista rematico (ciò che se ne dice). Nel primo caso, andrà a indagare come tali varietà linguistiche interagiscono tra loro e come intervengono sull’azione narrativa, in che rapporto sono i personaggi che le parlano, quali realtà socio-culturali rappresentano. Nel secondo caso, a livello rematico, bisognerà comprendere dove si colloca la voce del narratore, che relazione si crea, attraverso il quadro plurilingue, tra la situazione narrativa e la materia narrata, quali elementi di significazione sono veicolati da questo particolare materiale

cultural events occourring, or significantly not occourring, between people and societies in the real world», qui p. 14.

239 Ivi, p. 16.

240 Ad assumere questa impostazione in ambito italiano è ad esempio Edoardo Sanguineti, che in

merito al plurilinguismo afferma che ci si trova di fronte «a una problematica di stili, meglio che di lingue, o più veramente ancora, a una problematica di linguaggi». Del resto l’italiano, a differenza di altre lingue, offre la possibilità di distinguere tra lingue e linguaggi, in maniera funzionale al nostro discorso. Cfr. Edoardo Sanguineti, Il plurilinguismo nelle scritture novecentesche, in Id., Il chierico organico.

Scritture e intellettuali, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 282-297, qui p. 283. 241 D. Delabastita/R. Grutman, op. cit., p. 15.

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linguistico243. Da questo punto di vista, afferma Grutman, non è importante

nemmeno la quantità di forestierismi nel testo, quanto piuttosto il ruolo che essi vi svolgono, il loro valore funzionale.

L’effetto di realismo costituisce soltanto una possibilità, come sostiene ad esempio George Kremnitz:

Der Wechsel von einer Sprache zu einer anderen innerhalb eines Textes ist ein textstrategisches, mithin letztlich ein stilistisches Verfahren, das man gewöhnlich als Element von Realismus im Text ansehen kann, daher findet es sich besonders in Dialogen. Allerdings kann es auch (oder ausschließlich) als Faktor der Verfremdung verwendet werden. Eine dritte Möglichkeit liegt schließlich darin, dass ein Autor seine sprachliche Virtuosität zeigen will; er spielt dann mit Sprachen244.

Se Kremnitz semplicemente elenca le diverse possibilità funzionali del passaggio da una lingua all’altra, non distinguendo nettamente il piano stilistico da quello della struttura testuale, Gutman è più deciso nell’affermare la necessità del superamento del criterio realistico. In un saggio dedicato proprio alle motivazioni di questo fenomeno, egli definisce il plurilinguismo «variation externe qui fait écho à la stratification interne des langues naturelles»245. In letteratura esso è stato funzionale al

genere della prosa, in cui si riscontra «une plus grande capacité d’absorption linguistique»246. Ma il plurilinguismo nel romanzo può essere molto più di uno

specchio del contatto linguistico realmente esistente nella società e le strategie testuali che lo scelgono non sono necessariamente finalizzate a restituire in maniera acritica una dimensione sociale diglossica247. Bisogna esaminare «comment la mise en mots

propre à la littérature déplace les enjeux socio-économiques de la diglossie externe […] Loin de

243 Grutman pone una serie di domande molto pertinenti: «How is the verbal space of the text divided

between the different languages? How does the text linguistically orchestrate the various character and narrative voices? If different languages are made to resonate at the various textual, paratextual and intertextual levels (prefaces, citations, annotations, metafictional passages, etc.) that make up the text, how and why is that done? What is the function or effect of all this?»

244 Cfr. G. Kremnitz, Mehrsprachigkeit in der Literatur. Wie Autoren ihre Sprachen wählen, Edition Praesens,

Wien, 2004, p. 14. Qui Kremnitz si riferisce specificatamente al plurilinguismo intratestuale – ossia alla pesenza di elementi linguistici diversi all’interno dello stesso testo –, ma il volume menzionato è dedicato poi in particolare al plurilinguismo intertestuale, cioè alla scelta di alcuni autori di scrivere testi diversi in lingue diverse.

245 R. Grutman, Les motivations de l’hétérolinguisme: réalisme, composition, esthétique, in F. Brugnolo/V.

Orioles (a cura di), Eteroglossia e plurilinguismo letterario, II. Plurilinguismo e letteratura, Atti del XXVIII Convegno interuniversitario di Bressanone 6-9 luglio 2000, Il Calamo, Roma 2002, pp. 329-349, qui p. 329.

246 Ivi, p. 330.

247 Nel saggio in questione Grutman suggerisce di utilizzare un nuovo termine che chiarisca la

posizione polifunzionale del fenomeno: «Pour éviter de réduire ces stratégies textuelles à la dimension purement sociale du contact linguistique (la diglossie), je parlerai d’hétérolinguisme, en reconnissat par là qu’un texte littéraire est un espace où peuvent se croiser plusieurs (niveaux de) langues: cela peut aller du simple emprunt lexical aux dialogues en parlers imaginaires, en passant par les citations d’auteurs étrangers», ivi, p. 331.

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se contenter d’enregistrer la rumeur sociale, les meilleures œuvres sont ambiguës voire opaques: c’est précisément ce qui leur donne une plus-value248».

Sono due le motivazioni fondamentali che Grutman individua oltre l’effetto di realismo, quella della composizione e quella estetica. Il motivo della composizione, o più precisamente “focalizzazione”, permette di spiegare l’utilizzo dell’eteroglossia come strumento di posizionamento del narratore rispetto alla materia narrata.

La motivazione estetica richiede invece di inserire l’opera all’interno di una precisa tradizione, all’interno di codici appartenenti a una precisa poetica, che aggiungono al semplice carattere denotativo della “illusion référentielle” dei valori connotativi249.

Egli descrive il rapporto tra le tre motivazioni secondo una distribuzione su due piani differenti, quello dei motivi strutturali e quello dei motivi accessori:

[…] les motivations réaliste, compositionelle et esthétique ne se situent pas tout à fait sur le même plan. D’abord, il convient de distinguer la première des deux autres, qui ne reposent pas (uniquement) sur une homologie avec le monde externe. Il existe toutfois une autre différence, moins évidente mais non moins importante. Rappelons nous la distincion faite par Tomachevski entre les “motifs associeés” (nécessaires ou structurels) et les “motif libres” (contingents ou accesoires). […] De ce point de vue, la motivation esthétique et la motivation réaliste partaigent un trait que les sépare de la motivation compositionelle. Alors que cette dernière crée des motifs associés à la structure de l’œuvre […], les motif issus des deux premières formes de motivation constitueraient des variantes libres, sans lien intrinsèque avec le fond de l’historie des œuvres où ils apparissent250.

Essendo quindi l’aspetto della composizione elemento strutturale rispetto alle motivazioni estetiche e mimetiche, la presa in esame dei contesti narrativi deve seguire anche l’analisi delle motivazioni intrinseche, e non il contrario. Bisogna dunque abbandonare totalmente l’idea di un Lokalkolorit di superficie e cercare d’indagare gli aspetti significanti delle scelte di Molnár.

3.3.2. Comunità linguistiche

Il plurilinguismo nel romanzo di Molnár si presenta innanzitutto in forma di stratificazione. Dal macrolivello dell’ungherese di Molnár, quindi degli inizi del Novecento (quelli che Polay chiama realia verbali), si procede per successivi sottolivelli: il budapestino dell’epoca (con una precisa connotazione spaziale e temporale), come sua sottodeterminazione il budapestino dei ragazzi (varietà

248 Ivi, p. 336 (corsivo mio).

249 Ivi, p. 342. «Il faut entendre par là que “l’illusion référentielle” (Barthes) sur laquelle repose le

réalisme exige de l’œuvre qu’elle soit transparente, immédiate, dénotative, alors que le propre du texte littéraire est justement d’être opaque, médiat, connotatif»

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diastratica, definita da Polay Gruppensprache, la lingua usata in una comunità ristretta di parlanti) e infine, come ultima sottodeterminazione, il gergo militare utilizzato dai ragazzi in determinate situazioni di gioco (linguaggio settoriale). Tutti questi livelli hanno in comune l’utilizzo d’inserti di termini tedeschi che testimoniano lo scambio continuo tra la cultura ungherese e quella austriaca, nonché la diffusione trasversale di questo scambio su tutti gli strati della popolazione e dunque anche tra i bambini. È chiaro che la configurazione linguistica del romanzo deve tanto al contesto di creazione dell’opera e alla sua ambientazione e saranno anche questi “effetti di realismo” a meritare un esame attento nel momento della resa in traduzione – in particolare, come si vedrà, per quanto riguarda il contesto italiano degli anni Venti e Trenta, in cui Budapest rappresenta una sorta di luogo/non-luogo in cui vengono dislocate tematiche ed esigenze tutte italiane251. Per l’analisi che segue è necessario

tuttavia superare il livello realistico, pur partendo proprio dalla descrizione di questa Budapest babelica.

Innanzitutto possiamo constatare che quello che è un modo di scrittura viene a interessare fortemente i contenuti, in particolare quelli che si celano dietro una pretesa di Lokalkolorit, che si rivelano i più “insubordinati” sul piano interpretativo. Gli aspetti plurilinguistici che segnalerò nei paragrafi seguenti determinano l’ingresso nel romanzo di elementi dissonanti rispetto all’armonia del mondo fanciullesco, che pure però ne costituiscono parte integrante, quotidiana.

Lo ha descritto molto bene Antonella Ottai, nel suo interessantissimo volume dedicato alla fortuna della commedia ungherese in Italia tra le due guerre:

I suoi riferimenti cronologici (1889, in pieno regno austroungarico dal punto di vista storico e nella piena pubertà dell’autore – nato nel 1877 – dal punto di vista biografico) sono altrettanto precisi di quelli topografici ed enunciano sin dalle prime pagine la congiuntura storica in cui il romanzo si origina. L’area semantica della “prigione delle nazioni”, come veniva definito l’impero asburgico, si attiva a partire dalle prime pagine: l’italiano che vende dolciumi davanti alla scuola e lo slovacco che fa il guardiano al deposito di legname sono personaggi e consuetudini di una conformazione imperiale che si specifica attraverso le nazionalità meglio che attraverso i nomi propri; l’organetto suona note ungheresi ma ne travolge la malinconia nei ritmi viennesi; la banda nemica,

251 Ottai rende benissimo questo concetto nella distinzione tra commedia ungherese e commedia all’ungherese. Scrive Ottai: «Quando la commedia proveniente dall’Ungheria diventa una tipologia

“all’ungherese” della commedia italiana – il che si verifica grosso modo nella seconda metà degli anni Trenta, dopo che è maturato il passaggio di testimone dal teatro al cinema – è palese che, in termini di probabilità, se nulla si deve alla realtà nazionale, nulla tanto meno si deve alla cultura magiara e che punto di partenza e punto di approdo sono poli intercambiabili di un immaginario di viaggio organizzato e convogliato nelle gite aziendali dei treni popolari; o meglio, l’arte della commedia è l’arte di trasferirsi armi e bagagli in un paese che, a livello di cultura mass-mediatica, è conosciuto grazie a una produzione che, a sua volta, è riuscita a intraprendere la via dello standard commerciale», Ottai,

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responsabile di selvagge incursioni, viene chiamata «Camicie Rosse» perché il suo intraprendente capitano indossa l’indumento «garibaldino» evocando la leggendaria impresa – alla quale avevano partecipato anche volontari ungheresi – perpetrata contro i Borboni più di venti anni prima. Anche le lingue sono rivelatrici: il temibile «fare einstand», che nel gergo dei ragazzi ha un significato così inesorabile, è un termine tedesco e tedeschi sono altri termini militari che compaiono nel romanzo, esibendo la lingua dell’impero nelle occorrenze più pertinenti252. La narrazione reca inoltre segni di una

cultura urbana e metropolitana e la città di Budapest – la quale, all’epoca in cui Molnár scriveva I ragazzi della via Pál, era nel pieno di uno sviluppo vertiginoso che l’aveva trasformata in una metropoli moderna con una rapidità insolita ai processi di urbanizzazione europei – si profila nell’orizzonte scuro dei suoi palazzi come un universo “altro” per chi è abituato ai varchi aperti della pianura ungherese; al punto che l’autore interrompe il racconto per spiegare il valore di un campo di giochi a quella parte di lettori che non ha esperienza della città253.

Tre sono gli elementi cui ci si può riferire attraverso l’analisi linguistica: il rapporto tra comunità linguistiche (nel loro sviluppo sociale); il rapporto tra centro e periferia, autorità ed eversione (espresso attraverso un uso particolare di elementi linguistici estranei); il ruolo della metropoli. Il riferimento così suggestivo alla “prigione delle nazioni” è in perfetto accordo con la descrizione che Seibert fa di quel particolare rapporto con l’autorità, di quel conflitto tra centro e periferia dell’Impero che