Fuori del testo: traduzione e paratesto
1. Traduzione e paratesto: come evolve la ricezione del romanzo
1.2. La voce del traduttore: prefazione, postfazione, nota del traduttore
Allo spazio peritestuale atto espressamente a fornire una presentazione discorsiva del testo tradotto viene attribuito genericamente il termine di “prefazione”, pur trattandosi di testi che possono trovare la propria collocazione non soltanto all’apertura del volume, ma anche alla fine. Nel dizionario del paratesto tale spazio viene definito nel modo seguente:
una scrittura preliminare a un’opera per mezzo della quale sono fornite una serie di informazioni atte a presentarla. […] A questa stessa funzione possono corrispondere altri elementi del paratesto, non necessariamente situati in apertura del testo. Questi hanno di solito i nomi di introduzione, premessa, nota dell’autore (del traduttore o del curatore o dell’editore), presentazione, avvertenza, ma anche postfazione, postscriptum e postille346.
Sottolineando l’indiscutibile valore pragmatico di questi testi, Elefante nota come generalmente la decisione sull’opportunità di inserire o meno una prefazione spetta prevalentemente, e in ultima istanza, all’editore347. Dell’editore è pure la scelta su chi
incaricarne alla scrittura: lo status di chi scrive ha infatti un ruolo fondamentale nella definizione del destino del testo e, ad esempio, critici letterari o altri scrittori affermati appaiono più legittimati, da un punto di vista bourdeusiano, a dare un’interpretazione o una chiave di lettura al testo. L’editore può però anche decidere di affidare la presentazione del testo al traduttore stesso, compiendo una sorta di passaggio di testimone, da uno spazio ancora situato nella sfera editoriale a uno che viene a delinearsi come più prettamente proprio del traduttore. Se, nel caso specifico delle traduzioni, le prefazioni hanno un ruolo determinante, rispondendo allo scopo di «introdurre il lettore non familiare con la lingua e con l’autore alla sua opera, funzionando appunto come un mediatore»348, nel caso in cui la prefazione sia scritta
dal traduttore stesso, i modi in cui vi si esplica questa funzione possono essere analizzati in relazione alle scelte traduttive rintracciabili nel testo. Un aspetto essenziale da indagare è ad esempio come sia percepita la «dimensione di alterità
346 C. De Maria/R. Fedriga, op. cit., p. 171-172. 347 C. Elefante, op. cit., p. 87.
348 S. Nergaard, La costruzione di una cultura: la letteratura norvegese in traduzione italiana, Guastaldi, Rimini
- 165 -
dell’opera tradotta, se se ne faccia menzione o se venga invece passata sotto silenzio, a profitto di una “naturalizzazione” del testo»349.
È evidente che la necessità di analizzare quest’aspetto diventa particolarmente stringente proprio nel caso della letteratura per ragazzi, in cui la definizione del rapporto con l’alterità culturale rappresenta un tema estremamente delicato e dipendente, come si è visto, da un lato dalle competenze e dalle capacità di lettura del giovane destinatario, dall’altro da quello che le istanze atte alla produzione e alla valutazione dei testi per ragazzi ritengono siano le competenze da cui partire, o eventualmente da acquisire, rispetto all’idea di infanzia elaborata all’interno della cultura d’arrivo350.
Data l’importanza accordata alla presentazione del traduttore in uno spazio peritestuale come quello della prefazione, non è di scarso rilievo per il presente lavoro sottolineare come tale tipo di testo compaia in un solo volume del corpus esaminato. Prima di venire a una descrizione approfondita di questo caso – la prima traduzione tedesca (1910) – è opportuno riflettere sul significato di tale mancanza. Essa sorprende soprattutto perché contravviene alle aspettative da cui è partita la presente ricerca: il corpus scelto, come si è detto, è stato selezionato intenzionalmente dalle prime edizioni del romanzo (in particolare per quanto riguarda l’Italia) nell’ipotesi che queste contenessero un ricco apparato paratestuale volto alla presentazione di un’opera nuova e al suo inserimento nel campo letterario d’arrivo attraverso strumenti di legittimazione esterni al testo propriamente detto. Le caratteristiche dei paratesti italiani presentate fin qui e la mancanza di prefazioni (non solo del traduttore, ma di qualsiasi altra figura) lasciano invece ipotizzare che il testo sia entrato nel campo letterario italiano in un primo momento senza un’esplicita destinazione al giovane pubblico e che questa destinazione si sia sviluppata soltanto negli anni, anche attraverso altre forme mediatiche. Quest’ultimo aspetto, che riprendo dalla già citata ipotesi di Ottai, è pertinente peraltro alla parabola del successo di Molnár.
Significativo è infatti l’esempio, che non prenderò in considerazione nell’analisi testuale, di un volumetto edito nel 1937 dal titolo Con i ragazzi della via Pal. Si tratta di una riduzione del romanzo per le scene, edita dalla Società Editrice La Scuola
349 Ivi, p. 91.
350 L’argomento è affrontato in maniera esaustiva nel terzo capitolo del già citato volume di Pederzoli
intitolato appunto Le rappot à l’Autre: stratégies de médiation culturelle dans la traduction de la littérature d’enfance
- 166 -
(Brescia)351, ad uso appunto scolastico. Il volume appartiene alla collana “La
biblioteca dell’arte dei piccoli” e mi è stato possibile recuperare la prima parte di questa riduzione, dal titolo I tre bagni di Nemecech. Anche soltanto l’esame di questo volumetto arricchisce non di poco il nostro discorso, dimostrando come ormai nel 1937 il romanzo di Molnár fosse stato assorbito nella sfera pedagogico-scolastica anche in altre forme mediatiche. Ma è la prefazione al volume a essere particolarmente significativa. In essa il curatore si rivolge direttamente a uno studente immaginario di nome Giovannino, spiegando che i ragazzi della via Pál sono ragazzi «come te, e come i tuoi amici Franco, Nino e Titti: soltanto giocano più seriamente»352. Una frase che riduce immediatamente la distanza culturale tra il testo
d’origine e quello d’arrivo, spostando il discorso su un piano prettamente pedagogico-moraleggiante. E infatti poco dopo si esplicita l’intento educativo del romanzo:
Ebbene in questi ragazzi della via Pal tu puoi imparare tante cose, come un nuovo gioco: il senso dell’onore, la fiera gentilezza delle armi, il piacere della disciplina, che amate pochissimo quando ve la credete imposta e vi piace tanto e con tanta serietà la seguite quando siete voi ad eleggervela. Tu puoi imparare quello che è già in te in germe, e che nessun predicozzo varrà ad istillarti: che importa se il biondo Nemecech è ungherese? Come lui ce ne son tanti nel mondo! Lo sono un po’ tutti i ragazzi che amano la loro patria e credono alla santità della loro bandiera. Solo quelli che vivono il gioco come la stessa vita e vivono la vita con la passione che pongono i fanciulli nel gioco, possono credere e amare, possono diventare eroi, suprema ambizione di tutti i popoli353.
Toccando un tema che riprenderò tra poche pagine, quello del rapporto tra disciplina (autodisciplina) e autorità, il prefatore compie qui un’operazione pedagogica molto sottile: egli fa appello alla morale interna, al «germe» che già è in lui. Associando però l’idea di bontà intrinseca all’animo del bambino direttamente al sentimento di amore di patria egli compie un’operazione ideologica non di poco conto. In queste parole la bontà morale presuppone lo Stato. Come vedremo però nelle prossime pagine, a dedicarsi alla traduzione del romanzo saranno personaggi che, su questo punto, dimostrano di avere posizioni molto differenti.
351 Di questa casa editrice Mariella Colin afferma: «In Lombardia si sta affermando una nuova casa
editrice di obbedienza cattolica: La Scuola. […] fondata nel 1904 dal clero intransigente di Brescia, dopo la guerra si specializza nella produzione per le scuole e per i ragazzi ed è in espansione a partire dal 1929. Manifesta la sua adesione alla politica educativa del regime, e dopo l’istituzione del libro di Stato otterrà che venga attribuita una percentuale importante nella fabbricazione e la diffusione dei libri di religione e di cultura militare», in M. Colin, op cit., p. 267-268.
352 G. Ugolini, Coi ragazzi della via Pal, parte prima: I tre bagni di Nemecech, La Scuola, Brescia 1937, p. 4. 353 Ibid.
- 167 - 1.2.1. Nel corpus: la prefazione di Schmitt
Rispetto all’esempio presentato, la prefazione del traduttore Eugen Heinrich Schmitt si situa su tutt’altro piano, a dimostrare un’oscillazione del posizionamento del romanzo di Molnár tra letteratura per ragazzi e letteratura per adulti. Proprio in questo spazio di significazione viene alla luce la particolarità della letteratura per ragazzi, il suo collocarsi su un duplice piano di comunicazione.
Quanto già affermato rispetto alla traduzione del sottotitolo, cioè che essa chiarisce, forse più agli adulti che ai ragazzi stessi, la destinazione del romanzo ai giovani lettori, viene subito messo in discussione in questa lunga prefazione (otto pagine) che apre il volume. Questa comincia sorprendentemente con un esplicito invito ai giovani lettori a saltare le prime pagine per tuffarsi subito nella lettura e tornare sulle sue considerazioni introduttive solo tanti anni dopo:
Unseren jugendlichen Freunden möchte ich vor allem den Rat geben, dieses Vorwort, am besten, zu überblättern und frisch an die Geschichte zu gehen. Und es wieder einmal vorzunehmen und zu lesen, wenn ihnen dieses Buch – nach Jahren – längst nur mehr ein liebes Andenken sein wird. Schon deswegen, weil dies Vorwort zu viel vom Inhalt der Erzählung ausplaudert354.
Non si tratta per Schmitt soltanto di evitare un’anticipazione della trama. In questa prefazione viene tematizzato il rapporto profondo tra il traduttore e il testo tradotto in uno scritto che si rivolge esplicitamente al pubblico adulto. È molto interessante il modo in cui Schmitt giustifica il fatto di prendere parola in questo spazio. Egli dichiara che in un’opera rivolta ai ragazzi una prefazione è assolutamente inammissibile («überhaupt unstatthaft»), tantomeno quando «es doch dem Verfasser selbst nicht in den Sinn kam»355. I testi per ragazzi, prosegue il traduttore, dovrebbero
assumere infatti una chiara posizione già attraverso il proprio contenuto. Lo scopo della prefazione non è nemmeno quello di presentare l’autore al pubblico, considerata la fama di cui egli già gode al di fuori dei confini ungheresi. E nemmeno, ancora, tale prefazione è ritenuta necessaria perché «eine geistige Pflanze vom ungarischen auf den deutschen Boden verpflanzt wird»: non si tratta di un esplicito intervento di mediazione tra due culture. L’operazione del traduttore è ancora più complessa: egli vuole presentare un testo che è stato generalmente accolto come
354 E. H. Schmitt, Vorwort des Übersetzers, in F. Molnár, Die Jungens der Paulstraße, H. Walther, Berlin
1910, pp. 5-12, qui p. 5.
- 168 -
testo per la gioventù («im Kreise der Jugend»), al più vasto pubblico, perché riconosce «in dieser Schrift ein Werk von ganz allgemeinem literarischen Wert»356.
Dunque la prefazione di Schmitt è assolutamente rivoluzionaria rispetto alla tradizionale diffusione di letteratura per ragazzi. In contraddizione con quanto viene esplicitato nel sottotitolo egli non vi spiega il motivo per cui il testo si addice ai ragazzi, ma al contrario ne stravolge la destinazione spiegando perché sarebbe invece una lettura consigliabile anche per gli adulti. E questo sorprende ancor di più se si considera che ci troviamo di fronte alla primissima traduzione del romanzo, quando l’opera non è ancora entrata nel canone della letteratura per ragazzi. Un tentativo fallito, se si pensa che questa traduzione, come abbiamo detto, resterà per lungo tempo dimenticata. E tuttavia un tentativo di grandissima importanza all’interno della discussione culturale dell’epoca, dal momento chela destinazione agli adulti non è proposta nell’ottica di un dolce ritorno agli anni felici della gioventù, ma con un preciso intento educativo e morale:
Was aber das weitere Publikum angeht, so sei hier an folgendes erinnert. Das, wonach unsere Zeit dürftet und was ihr not tut, ist geistige Verjüngung. Heute, in unserem immer greisenhafter sich anmutenden Zeitalter, gilt ganz besonders das Wort des Heils: „Ihr müsset werden wie die Kinder!“357
L’auspicio di un «ringiovanimento spirituale», ribadito attraverso la citazione biblica, è chiaramente di derivazione cristiana, come lo è nel testo la riflessione sugli altri temi del romanzo e in particolare su quello centrale: la guerra. Schmitt dichiara subito la propria posizione e si definisce combattente senza riserve per il regno della pace annunciato da Isaia, «[…] dieser immer mächtiger aufläuchtende Ideal unserer Tage (dem wir, ach! leider noch so fern zu stehen scheinen)»358.
Nonostante il rifiuto deciso, quello della guerra è per lui un tema eternamente attuale nell’età giovanile, quando le singole tappe attraversate dai giovani nella loro crescita interiore assumono sempre e comunque forma di battaglie. Non vi è dunque alcun tono di rimprovero, spiega il traduttore, nel constatare il forte tratto patriottico che caratterizza il romanzo – rimprovero che altrimenti l’impostazione ideologica di Schmitt, come vedremo, avrebbe richiesto. Egli invece motiva e descrive quasi con compiacimento la forma di patriottismo contenuta nel romanzo; vi individua quei tratti universali che possono essere di interesse al di là dei confini nazionali:
356 Ivi, p. 6. 357 Ivi, p. 7.
358 Ivi, p. 8. Qui viene tematizzato il rapporto tra anarchismo e cristianesimo, che approfondiremo, pur
- 169 -
Es ist in erster Linie die intensive Vaterlandsliebe jenes turanischen Stammes, die eben wegen der sprachlichen Isolierung des ungarischen Volkes (nur Finnen und Türken sind ihm sprachverwandt) so mächtig zum Ausdruck kommt. Aber dieser Zug ist schließlich doch ein allen Nationen gemeinsamer. Die engere Heimat der Jungen der Paulstraße ist der „Grund“, ein Baugrund als Spielplatz der Gegenstand dieses sehr lokalen Patriotismus, und dieser Grund ist zunächst das Symbol des weiteren Vaterlandes359.
L’osservazione di Schmitt parte da dati storici: il nazionalismo ungherese, come abbiamo avuto modo di osservare nel primo capitolo, è stato molto forte e l’epoca dualista ha in un certo senso legittimato l’oppressione delle minoranze presenti all’interno della parte ungherese della monarchia imperial-regia360. Nell’opera di
Molnár il traduttore non crede tuttavia di poter riconoscere una mera propaganda riduttiva e tendenziosa, per la quale sarebbero state altresì necessarie ben altre considerazioni morali («sittliche Bedenken»). Il «genio artistico» di Molnár porta invece l’opera ben oltre: l’autore mostra, secondo Schmitt, come le qualità morali dei giovani germoglino sotto il mantello del gioco e della lotta in quanto gioco. La scelta di effettuare questa traduzione ha dunque quasi forza di pamphlet nelle parole del traduttore, che si schiera contro le forme distorte e degenerate di patriottismo riscontrabili nella sua epoca. Un romanzo di questo tipo può invece contribuire a combattere proprio quelle forme inaccettabili di patriottismo: «Und das ist der allein richtige, der allein natürliche, ja der allein gründliche, weil genetische Weg, auf welchem widermenschliche Formen des Patriotismus auf ihrem eigenen Boden bekämpft und so allein allmählich endgültig entwurzelt werden können»361. Il
romanzo mostra secondo il suo traduttore le qualità più nobili dell’uomo. Sono queste qualità che devono prevalere nel momento in cui si combatte, perché «Mensch sein, heißt ein Kämpfer zu sein». La lotta non può essere eliminata dalla vita, ma nemmeno la vita, nelle sue delizie, nelle sue qualità morali, deve essere sacrificata in nome della lotta. Come sul Grund c’è spazio per tutti – dice Schmitt – così sulla terra
359 Ivi, p. 9.
360 Si legge ad esempio nel famoso romanzo di Joseph Roth, La cripta dei cappuccini: «Baron Kovacs,
junger Militäradel ungarischer Nationalität, klemmte das Monokel ein, wie es immer seine Gewohnheit war, wenn er etwas besonders Wichtiges sagen zu müssen glaubte. Er sprach das harte und singende Deutsch der Ungarn, nicht so sehr aus Notwendigkeit wie aus Koketterie und Protest. Dabei rötete sich sein eingefallenes Gesicht, das an unreifes, zu wenig gegorenes Brot erinnerte, heftig und unnatürlich: „Die Ungarn leiden am meisten von allen in der Doppelmonarchie“, sagte er. Er war sein Glaubensbekenntnis, unverrückbar standen die Worte in diesem Satz. Er langweilte uns alle, Chojnicki, den Temperamentvollsten, wenngleich ältesten unter uns, erzürnte es sogar. Die ständige Antwort Chojnickis konnte nicht ausbleiben. Wie gewohnt, wiederholte er: „Die Ungarn, lieber Kovacs, unterdrücken nicht weniger als folgende Völker: Slowaken, Rumänen, Kroaten, Serben, Ruthenen, Bosniaken, Schwaben aus der Bacska und Siebenbürger Sachsen“. Er zählte die Völker an gespreizten Fingern seiner schönen schlanken, kräftigen Hände auf». In: J. Roth, Das Kapuzinergruft, Köln, Kiepenheuer & Witsch [1950] 1987, p. 18.
- 170 -
c’è spazio per tutte le nazioni, «die sich in so entsetzlichen Waffenschlächtereien bekämpfen»362. Contro le orribili carneficine della guerra, il pensiero pacifista di
Schmitt si esprime nell’utopia di una fratellanza universale, in cui le individualità dei popoli non devono scomparire, ma fondersi, come i colori nella luce bianca, «in der Lichtgloriole einer geistig veredelten Menschheit […], die mit diese Gliederung in einer Fülle ihren ganzen Reiz gewinnt»363.
Il traduttore presenta dunque il “proprio” romanzo in chiave inequivocabilmente antimilitarista e pacifista. Come dice egli stesso, si tratta di un tema estremamente attuale al suo tempo, «unserem immer greisenhafter sich anmutenden Zeitalter»364.
Con queste parole il traduttore situa il suo testo all’interno di quel dibattito su letteratura per ragazzi ed educazione alla guerra o al pacifismo di cui abbiamo reso conto nel primo capitolo. Anche lui utilizza la metafora del germoglio, ma rispetto al prefatore della riduzione teatrale per ragazzi, il senso è capovolto. Qui il gioco, e la guerra in particolare, trovano il loro senso in quanto metafore della vita come lotta. Altra e diametralmente opposta è invece un’interpretazione che vede il giocare alla guerra come una reale preparazione alla vita da soldato, una vita in cui la realizzazione del cittadino passa attraverso il servizio alla propria patria.