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La pubblicità come atto di concorrenza fra imprese: la normativa statuale in materia di concorrenza sleale.

2. I diversi ambiti di tutela della pubblicità.

2.2. La pubblicità come atto di concorrenza fra imprese: la normativa statuale in materia di concorrenza sleale.

Al di là della riconosciuta tutela costituzionale, il fenomeno della pubblicità trova una prima forma di disciplina statuale in quella prevista all’interno del codice civile in materia di concorrenza sleale.

Il fondamento di una simile tutela si rinviene, del resto, nella natura stessa della concorrenza, quale effetto, cioè, dell’esistenza di un libero mercato caratterizzato dalla presenza di più soggetti economici in rapporto di competizione fra di loro194. Competizione che può avere come contesto, appunto, anche il settore della pubblicità, la quale, dunque, ben può essere

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Si veda, Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., il quale osserva che la distinzione tra libertà di espressione e propaganda sarebbe un mero “espediente

definitorio”, utilizzato al solo fine di ridurre la tutela costituzionale.

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Trattasi, in altri termini, di quelle fattispecie, ormai diffusissime, della pubblicità redazionale, della pubblicità occulta e del product placement, delle quali si tratterà nei successivi paragrafi.

intesa quale fattispecie di concorrenza fra più imprese e, in particolare, quale strumento di comunicazione tra gli imprenditori ed i destinatari dei propri prodotti e/o servizi.

Secondo una diversa prospettiva, poi, il fatto stesso che il mercato non sia in grado di comprendere tutte le offerte di prodotti e servizi configura la concorrenza e la relativa disciplina come strumento per stabilire quale comportamento debba considerarsi lecito e quale, invece, vietato, sulla base di quanto previsto dagli artt. 2598 ss. c.c.. Anche sotto questo profilo, peraltro, la comunicazione pubblicitaria viene a configurarsi quale strumento utile a valutare la liceità o illiceità di determinati comportamenti.

E’ ormai acquisito, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, il principio secondo cui due sono i presupposti affinché possa ritenersi sussistente un rapporto di concorrenza: l’uno di natura soggettivo, l’altro, invece, di carattere oggettivo.

In particolare, con riferimento al primo dei menzionati requisiti, esso attiene alla qualifica dei soggetti del rapporto: perché possa applicarsi la disciplina dettata in materia di concorrenza sleale, è, infatti, richiesto che tali soggetti siano, entrambi, imprenditori, ovvero soggetti che esercitano “professionalmente un’attività economica organizzata al fine della

produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082 c.c.). Attività

che, ovviamente, deve essere svolta “in concorrenza” con quella dell’altro soggetto del rapporto.

Quanto, invece, al requisito oggettivo, esso attiene alla natura del rapporto concorrenziale, il quale ben può sussistere non solo quando le parti abbiano come diretti destinatari i medesimi clienti potenziali, ma anche quando le possibilità di competizione fra i due soggetti del rapporto siano soltanto

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potenziali. In una simile prospettiva, si è arrivati a ritenere sussistente il rapporto di concorrenza anche qualora le attività svolte dai soggetti siano soltanto “analoghe”195 e/o rivolte alla medesima categoria di destinatari196.

Come noto, la disciplina contenuta all’interno del codice civile contempla tre distinte fattispecie di concorrenza sleale197, ovvero, più in particolare: la prima, relativa all’ipotesi della cosiddetta imitazione servile e/o degli atti confusori in genere; la seconda, riguardante l’appropriazione di pregi altrui e la denigrazione; la terza, infine, che introduce una sorta di clausola generale198 che attiene a qualsiasi violazione di regole di correttezza professionale.

La ratio di simili previsioni deve rinvenirsi nella esigenza di evitare che i destinatari delle attività imprenditoriali possano essere tratti in inganno, ad esempio, circa la provenienza dei prodotti e/o servizi.

Spostando l’attenzione sul fenomeno pubblicitario, la natura stessa di tale comunicazione, ovvero quale strumento principale attraverso cui l’esistenza di un prodotto e/o servizio viene portata a conoscenza del pubblico

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Di qui, la distinzione tra concorrenza cosiddetta attuale, siccome relativa ad imprenditori svolgenti la medesima attività commerciale, e potenziale, caratterizzata, invece, da una mera affinità tra le due attività, valutabile sotto il profilo temporale, territoriale e/o merceologico.

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Ricorre una simile ipotesi nella concorrenza cosiddetta “a livelli economici diversi”. Nel senso di riconoscere la sussistenza di un rapporto di concorrenza, si veda Trib. Verona, 15.5.1987, in GADI, 1987, 2173.

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Art. 2598 c.c. (“Atti di concorrenza sleale”):

“Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di

brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

destinatario, potrebbe indurre a ricomprendere la stessa nell’ambito di tutela di cui all’art. 2598, n. 1, c.c., atteso che ben possono realizzarsi atti confusori laddove diversi imprenditori tra di loro in rapporto di concorrenza realizzino, in relazione a propri prodotti e/o servizi, messaggi promozionali simili.

Analogamente, la pubblicità potrebbe, altresì, essere ricondotta nell’ambito di tutela previsto dal n. 2 dell’art. 2598 c.c., relativo, cioè all’ipotesi della denigrazione e dell’appropriazione di pregi altrui. Il riferimento è, in primo luogo, alla peculiare fattispecie della pubblicità comparativa, sulla quale ci si soffermerà più avanti199, siccome tesa, appunto, ad esaltare qualità di prodotti e/o servizi di una determinata impresa a detrimento di altri concorrenti. Discredito che può essere realizzato ricorrendo, appunto, allo strumento della denigrazione e/o della appropriazione di pregi dell’impresa concorrente, che ben possono contraddistinguere, altresì, la fattispecie della pubblicità ingannevole.

Infine, la riferita natura di clausola generale della disposizione contenuta nel n. 3 dell’art. 2598 c.c. consente di ricondurre la comunicazione pubblicitaria anche all’interno di tale fattispecie, in relazione alla quale, peraltro, si è a lungo dibattuto circa l’individuazione dei parametri e dei criteri alla stregua dei quali individuare gli atti di concorrenza sleale che ricadano nella predetta previsione200.

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In questi termini, Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 1993. 199

Si rinvia, sul punto, al § 4.2.. 200

In particolare, mentre taluna parte della dottrina ha individuato, quale contenuto della clausola di “correttezza professionale”, i principi etici condivisi dalla collettività, talaltra ha ritenuto, piuttosto, che punto di riferimento della clausola generale contenuta al n. 3 dell’art. 2598 c.c. fossero i costumi propri di una determinata categoria di soggetti. L’attuale orientamento di dottrina e giurisprudenza sembra, peraltro, nel senso di individuare nella clausola di correttezza professionale l’insieme di quei principi etici prevalenti in determinate categorie di imprenditori.

Cionondimeno, nonostante, come visto, la pubblicità possa astrattamente configurare ciascuna delle fattispecie di concorrenza sleale contemplate dall’art. 2598 c.c., è bene rilevare come la peculiare natura della comunicazione pubblicitaria, quale strumento, cioè, tale da persuadere il destinatario circa le qualità di un determinato prodotto e/o servizio, consenta di escludere che essa possa essere ritenuta, in ogni caso, atto di concorrenza sleale. Tanto, anche tenuto conto del fatto che proprio il regime del libero mercato consente agli imprenditori di avvalersi di strumenti leciti per veicolare verso i propri prodotti le scelte dei consumatori.

Conseguentemente, soltanto nel momento in cui la pubblicità sarà tale da incidere sulla libertà di discernimento del destinatario, potrà essere ritenuta censurabile alla luce della disciplina in materia di concorrenza sleale, configurandosi, in tale ipotesi, addirittura una forma di tutela di rango costituzionale, costituendo, la libertà di giudizio, un limite all’esercizio dell’attività economica201.

2.3. La disciplina statuale della pubblicità: dal D.Lgs. 25 gennaio 1992,

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