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Pubblicità vinicola

Emanuele Battistelli

Le pubblicazioni ebdomadarie vinicole hanno la virtù della seduzione, pari alla bevanda che esaltano e difendono; si immedesimano nella abundantia cordis che questa promana nell'inti-mità familiare e conviviale che si indugia a mensa e nei ritrovi dionisiaci, e, più che altro, ripropone all'ammirazione del lettore il diorama spettacolare della vite, la cui onnipresenza o quasi nel territorio italiano ha una giustificazione economica innegabile, non meno che simbolica. E che altro possono essere, se non un simbolo della latinità mediterranea della pianta e della relativa bevanda, l'insediamento dell'una e l'e-laborazione dell'altra nel territorio agricolo ita-liano?

Ogni regione attribuisce a se stessa l'orgoglio di proiettare sul mercato interno e su quello internazionale la gamma più o meno folta di tipi della sua produzione enologica; ne fa una storia

e se ne ripromette un avvenire. Si direbbe che ogni regione la voglia prendere a parametro della sua peculiarità e vocazione, per cui, ad esempio, l'enologia alpina arieggia quella renana; la pro-duzione enologica subalpina ripete il cliché di quella di Borgogna; i vini di Toscana, noti per antica fama, rivaleggiano con quelli delle col-line giurassiche di Francia; i vini marchigiani, di aristocrazia recente, inseriscono il versante adriatico nell'olimpo dionisiaco italiano. E gli esempi comparativi potrebbero continuare.

A proposito dei vini marchigiani diremo — per inciso — che recentissima è la loro penetra-zione anche oltre frontiera, grazie alla scoperta di pregi organolettici che nel passato non ven-nero mai soppesati, a causa forse della stessa ritrosia della popolazione costituzionalmente ne-gata all'esibizionismo, alla pubblicità delle sue superiori risorse. Ma da questa lunga e remota

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V i g n e t o di Bianchelio del M e t a u r o ( M o n t e p o r z i o , Pesaro).

riservatezza bisognava pure uscire, per non costi-tuire della catena enologica nazionale se non l'anello più debole quello, per lo meno, di minore notorietà e autorità. Per non uscirne bisognava proprio che la regione si incaponisse a ricalcare le orme del passato, quelle cioè di una politica economica del piede di casa, o volesse autolesio-narsi in un settore a lei non meno congeniale di quanto lo sia quello toscano al territorio omonimo.

Dato e non concesso che enologicamente il versante preappenninico dell'Adriatico non è eia meno di quello del Tirreno, gli enti promozionali dell'economia marchigiana hanno voluto, rom-pendo ogni indugio, rivendicargli il diritto di competizione nel grande campionato produttivo nazionale, non solo incoraggiando la moltiplica-zione dei vigneti nelle grandi oasi collinari della regione, ma anche aristocratizzandone la pro-duzione e la trasformazione, limitandola t u t t a v i a a pochi ma nobili tipi, in contrasto con la moda corrente e tollerata intesa all'inflazione.

Inflazionata è ad esempio la discriminazione enologica piemontese dal momento che al Bar-bera si attribuiscono tre tipi, ognuno con il suo predicato territoriale, indulgendo più alla patro-nimia che alla diversità, peraltro inesistente, dei caratteri organolettici. L'unico Barbera che ha una sua contraddistinta personalità, che lo avvi-cina al Barolo e al Gattinara, è il « Castello di Gabiano ». Anche al Dolcetto se ne vorrebbero attribuire altrettanti. Ma se t u t t i i vini rossi piemontesi — come le canzoni — si assomigliano non fosse altro che per analogia di retrogusto, non parrebbe necessario pervenire a discrimina-zioni nell'ambito d'uno stesso vitigno d'origine.

Troppi campanilismi sopravvivono in questo set-tore che ha bisogno invece di pochi ma validi protagonisti per competere con quelli francesi, renani, e imporsi alla predilezione del pubblico. C'è, perciò, da sperare che non si voglia ricono-scere ufficialmente una denominazione d'origine perfino a vini di limitata produzione e privi di nobiltà antica e schietta, come il Chiari del Chic-rese, il Chiomonte e il Meana della Valsusa, il Pelaverga e il Quagliano del Saluzzese.

Pochi ma buoni; più che buoni superlativi dovrebbero essere i vini a denominazione con-trollata e garantita. Per il che è necessario por-tare l'enologia nazionale a livello di quella fran-cese e mini-germanica (renana), tanto più clic essa può disporre di una materia prima che su-pera le altre in magnificenza, grazie ai privilegi del suolo e del clima che la tengono a battesimo. Tanto il clima quanto il terreno giocano nella produzione uvifera un ruolo a parti paritetiche. Forse quello del terreno è un ruolo maggiore laddove il calcio si accompagna alla silice e al-l'argilla per formare un tessuto conforme o quasi a quello marnoso. È infatti sui terreni di marna tanto abbondanti in Piemonte (Monferrato, Lan-ghe) e in Francia (Borgogna, Champagne) — più che su quelli loessistici (i quali ammantano, ad esempio, le colline torinesi) — che la vite dà il meglio qualitativamente di sé.

Ma non è su queste considerazioni di riferi-mento agronomico che desideriamo oggi indu-giare.

Ci piace piuttosto sottolineare l'efficacia della pubblicità vinicola, con il veicolo meno chiassoso ma più persuasivo e signorile, qual è quello edi-toriale o della monografia-catalogo.

V i g n e t o a c o n t r o s p a l l i e r a nella classica z o n a del V e r d i c c h i o (Castelli di Jesi).

A sostegno di questa nostra personale opi-nione ricorderemo che, or sono poco meno di venti anni, usciva per iniziativa dell'Assessorato all'agricoltura della Regione Trentino-Alto Adige una pubblicazione originale — un felice compro-messo appunto tra la monografia e il catalogo — consacrata alla vitivinicoltura alpina all'insegna d'uno slogan coniato per la circostanza: « Tren-tino Dolomiti e vino ».

La pubblicazione fece scalpore anche per la magnificenza delle illustrazioni in tricromia e per la magniloquenza delle didascalie. Il Terol-dego, principe dei vini rossi d'una stirpe com-posta di ben 14 tipi cadetti, e il Terlano, a capo d'una stirpe non meno eletta ma limitata a 7 elementi, ebbero il loro monumento pubblicitario e la loro fama oltrevalicò i confini della regione. Non potevamo allora sospettare che l'esem-pio precursore tridentino potesse essere emulato da un'altra regione che ha preferito ad ogni altro veicolo di persuasione occulta quello edi-toriale, per associare in una onesta valorizza-zione regionale l'enologia al turismo, l'arte alla storia, le a t t r a t t i v e dell'ambiente a quelle della gastronomia. La pubblicazione cui alludiamo e sulla quale ora ci soffermeremo ha il merito di

essere anche più originale dell'altra e di essere, a differenza, poliglotta. Ne « Le Marche e i loro vini » è evidente e commovente il proposito della regione — dei suoi organi più impegnati e rap-presentativi — di ricordare se stessa, con la sua storia, la sua arte, le sue vocazioni economiche, al turismo italiano e straniero che ancora l'i-gnora; di proporre la sua eletta produzione vini-cola alla predilezione del consumo in patria e all'estero.

Il testo centrale della pubblicazione è parto della penna del prof. Bruno Ciaffì da lui intinta nel calamaio della devozione filiale e della com-petenza specifica. L'incarico di redigerlo non po-teva essere affidato che all'autore de « Il volto agricolo delle Marche ».

La pubblicazione ricca di illustrazioni in poli-cromia si divide in 3 parti:

— l'introduzione, in cui gli enti promozionali — Unione regionale delle Camere di commercio, ed E n t e di sviluppo agricolo — spiegano e giusti-ficano l'iniziativa pubblicitaria, la quale vuol essere una specie di press-agent delle risorse più tipiche locali: dal turismo all'enologia;

— la seconda, nella quale l'autore con sobrietà elegante di stile — non per nulla egli è

conterra-neo e seguace di Celso Ulpiani che fu l'interprete suggestivo e felice delle « Georgiche » virgiliane — compie una rassegna documentata e precisa, collocandola sullo sfondo paesaggistico delle quattro province, dei vini bianchi e rossi. Pre-valenti, per produzione, i primi sui secondi:

Verdicchio della Vallesina (o dei Castelli di Iesi), Verdicchio di Matelica, cioè dell'alta valle stessa, nei quali si fondono armoniosa-mente i caratteri di gagliardia dei vini bianchi del sud, e la squisita vivacità dei vini bianchi del nord.

Bianchello del Metauro, con il quale la meno picena delle provincie — quella pesa-rese — si inserisce nel diadema enologico re-gionale.

Bianco dei colli maceratesi, dei colli cioè che ispirarono al Leopardi i canti immortali de a L'infinito » e della « Vita solitaria ».

Bianco Falerio, con la quale la provincia picena più storica e tipica presenta il suo bla-sone enologico.

Rosso Conero, che ricorda nel gusto e nel color granata — pur derivando dalle uve del

Montepulciano e del Sangiovese — gli austeri vini piemontesi, figli del prolifico Nebbiolo.

Rosso piceno, che del precedente è un'edi-zione più generosa conformemente all'origine sua più meridionale, la sua culla essendo laggiù sulle colline del Tronto in vista della cimosa marina che ripete le suggestioni floristiche della Riviera ligure di Ponente.

Sangiovese dei colli pesaresi, edizione mon-tefeltrina del vitigno più romagnolo dei vitigni italiani.

Vernaccia di Serrapetrona, in cui c'è forse l'anima sarda del vitigno di cui ripete il nome, il quale nella grande isola mediterranea è il più rappresentativo. Il tipo marchigiano nella meri-t a meri-t a apologia del Veronelli è un « gran vino, degno di cru, degno di fama »;

— la terza parte, la minore, è un'autentica passerella degli otto vini citati inquadrati gastro-nomicamente ed esteticamente, nonché una pas-serella dei produttori più qualificati che solida-riamente fanno dei rispettivi vini quello che il loro conterraneo Arturo Vecchini — oratore patrizio — fece della parola: un'arte per avvin-cere e convinavvin-cere.