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le sCelte Delle region

4.7 Punti di forza e di debolezza dei distretti in agricoltura

L’esame dei punti di forza e di debolezza della distrettualità in agricoltura condotto in questo e nel successivo paragrafo, si riferiscono solo alle risultanze di questa prima fase della ricerca, dunque alla metodologia distrettuale che è stata sin qui analizzata della at- traverso la legislazione nazionale e le normative regionali, ma prescindono da ogni tipo di verifica empirica, che sarà svolta in seguito.

Da questa ricerca emerge che i distretti in agricoltura “modellati” dalle Regioni han- no, in linea di massima, alcuni punti di forza:

• Un metodo flessibile. Il distretto, per genesi e definizione normativa, trova il proprio significato laddove può essere applicato alle singole realtà locali. Le Regioni hanno adattato lo strumento distrettuale a realtà settoriali e territoriali assai diverse e con-

cepite secondo ispirazioni politiche differenti e cangianti nel tempo. Perciò, nell’indi- viduazione e nell’utilizzo di questo strumento ai governi regionali è concesso un così ampio grado di autonomia che non ha pari nello strumento LEADER.

• Un metodo omogeneo. Pur perseguendo obiettivi e percorsi particolari, nel loro in- sieme le Regioni hanno fatto proprio un modello metodologico che ha tratti comuni e sostanzialmente omogenei.

• Un metodo per progettare. La progettazione è al cuore del metodo distrettuale e ha carattere: integrato, strategico e, in gran parte dei casi, programmatico e si fonda su dinamiche di governance multilivello .

Come indicato dal fatto che tutte le Regioni chiedono di fare progetti triennali aggior- nabili, i distretti sono concepiti come una struttura stabile di organizzazione dell’economia locale, finalizzata, in molti casi, a divenire un punto di riferimento costante nella program- mazione delle politiche regionali.

In linea di principio, i complessi meccanismi e le faticose concertazioni in cui si snoda il percorso di formazione di un distretto potrebbero essere così defatiganti da prefigurare la possibilità anche di numerosi insuccessi.

Ma, per quanto possa sembrare paradossale, proprio la lunghezza dei tempi che oc- corrono per compiere l’intero percorso per la loro costituzione, potrebbe essere considerato un punto di forza.

Il tempo è la moneta con cui si paga la ricerca di accordo tra soggetti con interessi e profili ben diversi, ma comunque destinati a confrontarsi - o scontrasi – costantemente.

Allora si può considerare che, superata una sorta di “selezione naturale”, i distretti che sono stati istituiti potrebbero possedere requisiti di una certa solidità per durare nel tempo. Quest’affermazione potrà essere oggetto di una verifica concreta nella seconda fase della ricerca.

Al contrario, un evidente punto di debolezza dei distretti in agricoltura deriva dalla semplice constatazione che, a dieci anni dalla promulgazione della legge di orientamento, il fenomeno è ancora di incerta e controversa percezione. E non esiste neppure una base infor- mativa costantemente aggiornata sulla realtà dei distretti in agricoltura che indichi quante Regioni abbiano disciplinato la materia, la raccolta delle fonti giuridiche regionali, quanti e quali distretti siano stati individuati.

La più interessante e costante pietra di paragone per valutare criticamente i distretti in agricoltura sembra essere il metodo LEADER, almeno per due aspetti:

- si dovrebbe considerare che LEADER ha ancora alcune lezioni da insegnare perché è un metodo che ha guardato ai territori rurali come a un milieu innovateur (Ayda- lot, 1986), riconoscendoli capaci di attivare processi di innovazione sociale (Di Iacovo, 2011), che possano essere considerati l’innesco di autentici percorsi di sviluppo endo- geno;

- LEADER, attraverso il costante sistema di monitoraggio e valutazione anche da parte di organi terzi, e grazie alla successiva azione di correzione adottata dalla Commissio- ne, ha consentito un miglioramento progressivo dei dispositivi per il suo funzionamen- to, attivando così un prezioso processo di apprendimento allo stesso tempo collettivo e istituzionale (Jambes, 2001; Garofoli, 2006) reso possibile anche dalle relazioni di rete e di cooperazione tra i GAL.

Dal confronto con LEADER si evincono tre punti di debolezza, certamente genetici, dei distretti in agricoltura:

• non formano rete tra sé: non hanno scambi né possono contare su forme di coopera- zione territoriale;

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• non possono fare affidamento su una prospettiva certa nel medio periodo di incentivi e sostegni, né sono inseriti in un quadro programmatico di ampio respiro istituzionale. Ne consegue una maggiore difficoltà e incertezza nel realizzare i risultati ai quali ten- dono le strategie progettate a livello locale;

• non fanno affidamento su un sistema di monitoraggio e di valutazione da parte di sog- getti terzi. Tutte le Regioni stabiliscono l’obbligo di un monitoraggio sull’applicazione della legge, ma ciò non può dare luogo né a effettive valutazioni di efficacia del metodo - soprattutto nei casi in cui la normativa regionale non prevede già una linea finanzia- ria dedicata ai distretti in agricoltura – e tantomeno a rilevazioni omogenee capaci di offrire elementi di valutazione più generalizzati.

Da tutto ciò consegue che, in definitiva, ai distretti manca un sistema di upgrade, ben- ché sia una realtà che si espande nel sistema produttivo nazionale in modo costante da venti anni e nonostante il candidarsi di nuove Regioni che estendono anche all’agricoltura l’espe- rienza di distretti industriali.

Oltre a questi punti di debolezza genetici, che derivano dalle scelte dei legislatori e dalle caratteristiche tipiche di questo metodo, i distretti in agricoltura si scontrano, ancora oggi, con un gap culturale - questo sì - rispetto agli altri settori economici.

La ricerca sui distretti industriali, ha portato alla luce la loro capacità di produrre va- lore attraverso esternalità, per porre in risalto il nesso peculiare che talvolta si genera tra “chi-cosa-dove si produce”. Questi contributi hanno avuto un impatto rilevante nel mondo scientifico e non hanno incontrato particolari difficoltà ad essere accolti dal mondo econo- mico, posto che proprio le imprese dei più importanti distretti industriali oggi sostengono la ricerca e gli studi sul fenomeno.

Al contrario, in agricoltura il percorso non ha potuto essere così fluido. Il rapporto tra imprese agricole e territorio necessita probabilmente di ulteriori riflessioni, perché sia generalizzata la semplice constatazione delle positive relazioni che si instaurano grazie all’attivazione di giacimenti di valore racchiusi nel capitale ambientale, sociale, umano, che identifica e rende diversa e speciale una valle abruzzese da un angolo della pianura Padana. Certo è plausibile che cinquant’anni di PAC possano aver generato assuefazioni e aspettative adattive che rallentano e rendono viscoso il processo di cambiamento, e l’affer- mazione dello sviluppo rurale. In questo contesto si può considerare una maggiore difficoltà di affermazione della distrettualità, anche se - chiarito che «il calabrone vola» ed essen- done note le ragioni – grazie al modello distrettuale sarebbe più facile creare «imprese più competitive in territori più competitivi» (Toccaceli, 2010b).

Capitolo 5

i Distretti in agriColtUra verso il 2020: Prime inDiCazioni

Le proposte legislative per la riforma delle principali politiche dell’Unione Europea presentate dalla Commissione nell’autunno 2011, proiettano i temi della distrettualità e delle reti oltre l’orizzonte presente, creando le condizioni concrete per riflettere sulle nuove prospettive che potranno aprirsi per l’esperienza distrettuale agricola maturata nella mag- gior parte delle Regioni italiane.

Le nuove proposte, che sono state formulate dopo articolati percorsi di consultazione, si caratterizzano per molteplici elementi di discontinuità rispetto al passato e si inseriscono in un saldo quadro strategico comunitario che sarà sinteticamente presentato.