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Sezione I. L’informatore di polizia, il collaboratore di giustizia ed il testimone di giustizia in Italia

A. Quadro storico I presupposti della collaborazione

collaborazione sistematica – vagliare l’affidabilità delle notizie provenienti dall’ambiente criminale e l’attendibilità volta per volta.

La materia relativa ai compensi in denaro è stata disciplinata in modo chiaro nello specifico settore del contrasto ai traffici di sostanze stupefacenti, dove più facile sarebbe stato introdurre delle semplici tabelle per una conversione in denaro della sostanza sequestrata, tenendo conto della tipologia e della quantità della stessa. Pur non rifuggendo da simili schemi, le circolari emanate sullo specifico argomento dalla Direzione Centrale per i Servizi Antidroga del Ministero dell’Interno hanno preferito portare l’attenzione sulla disarticolazione delle associazioni per delinquere dal momento che esse prevedono che «I compensi agli informatori potranno essere graduati commisuratamente: - al numero e all’importanza delle persone arrestate, alla pericolosità dell’organizzazione criminale» e che «In ogni caso la disarticolazione di un sodalizio criminoso farà premio sulla quantità di droga sequestrata. Le stesse circolari postulano un sinallagma tra la notizia confidenziale fornita dalla fonte ed il risultato conseguito dagli investigatori, dal momento che il compenso all’informatore va commisurato anche in funzione «al ruolo più o meno determinante ricoperto dalla fonte fiduciaria nella riuscita del servizio»»167.

Infine va anche considerato che, almeno in questo campo, non è prevista alcuna ricompensa per l’informatore di polizia nel caso in cui l’operazione porti ad un risultato solo parziale, il recupero cioè di un quantitativo più o meno importante di sostanza stupefacente ma che senza che siano stati individuati gli autori del traffico o meglio i partecipi all’associazione criminosa. Le circolari specificano infatti che «Il compenso non potrà essere riconosciuto: (…) qualora l’operazione si sia conclusa senza l’identificazione/arresto del/dei responsabili»168.

§ 3. Il collaboratore di giustizia

A. Quadro storico. I presupposti della collaborazione

167 Circolare del Dipartimento della pubblica sicurezza - DCSA del 12 gennaio 1998, All. A. 168 Circolare del Dipartimento della pubblica sicurezza - DCSA del 12 gennaio 1998, All. A.

152 Per quanto riguarda la figura del collaboratore di giustizia, malgrado le critiche della dottrina, l’evoluzione legislativa è stata caratterizzata come abbiamo visto da un allargamento progressivo del campo di applicazione delle norme che prevedono riduzioni di pena nei casi di collaborazione procedurale.

Dapprima i vantaggi per i collaboratori sono stati introdotti per i sequestri di persona finalizzati all’ottenimento di un riscatto (art. 630, c.p., modificato dalla l. n. 894 del 30 dicembre 1980). Successivamente, all’inizio degli anni 90, l’applicazione di norme favorevoli ai collaboratori è stata introdotta per i reati in materia di stupefacenti (artt. 73 e 74, T.U. n. 309 del 9 ottobre 1990) e per tutti gli ambiti della criminalità di tipo mafioso (art. 8, D.L. n. 152 del 13 maggio 1991, convertito nella Legge n. 203 del 12 giugno 1991).

La questione della sicurezza dei collaboratori e dei loro familiari era stata nel frattempo parzialmente affrontata dalla l. 486/1988, mediante la facoltà, conferita all'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, di adottare o di far adottare dagli uffici competenti tutte le misure idonee ad assicurare la «incolumità delle persone esposte a grave pericolo per effetto della loro collaborazione nella lotta contro la mafia o di dichiarazioni da esse rese nel corso delle indagini di polizia o di procedimenti penali, riguardanti fatti riferibili a organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso» (art. 2): tale previsione era però resa del tutto virtuale dal fatto che l’Alto Commissario era organo non dotato di risorse materiali e strutturali, circostanza che ne impedì l’effettivo ed efficace funzionamento.

Con il termine “collaboratori di giustizia” vengono indicati gli autori di reati che decidono di collaborare con la giustizia (autorità di polizia o giudiziaria), denunciando i membri dei gruppi criminali dei quali essi hanno fatto parte o altri criminali e che, in cambio, ottengono diversi benefici, come:

- riduzioni di pena,

- miglioramento del regime penitenziario,

153 Come si è visto sopra, le disposizioni in favore di collaboratori di giustizia, inizialmente previste solo per specifici reati poi per la categoria dei reati commessi con finalità di terrorismo, sono stati progressivamente estese a svariati reati.

Si esamineranno di seguito il contenuto della normativa sui collaboratori di giustizia nel settore della criminalità organizzata introdotta nel 1991 e subito dopo la legge del 2001, attualmente in vigore, frutto dell’esperienza decennale maturata, che ha modificato la disciplina della collaborazione per far fronte ai numerosi inconvenienti emersi nell’applicazione della legge.

La normativa introdotta nel 1991 da due decreti legge169 costituiva una prima disciplina organica sulla protezione dei collaboratori di giustizia e prevedeva tre tipologie di misure170:

- misure di protezione e di assistenza per il collaboratore e per la sua famiglia, - miglioramenti del regime penitenziario,

- riduzioni delle pene.

Uno dei primi meccanismi di incentivazione alla collaborazione con riguardo ai reati di mafia introdotto con l’art. 8 del D.L. 152/1991, era la previsione di una attenuante speciale. In particolare, per la concessione dei benefici a chi si era reso responsabile del delitto previsto dall’art. 416 bis del codice penale e degli altri delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste nello stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, la legge chiedeva una collaborazione processuale da parte di un accusato che «dissociandosi dagli altri si adopera per evitare che l’attività delittuosa non abbia delle conseguenze ulteriori» per raccogliere degli elementi decisivi per «la ricostruzione dei fatti» e «per l’individuazione e la cattura degli autori dei delitti». In tali casi la condanna all’ergastolo è sostituita dalla reclusione

169 D.L. 15 gennaio 1991, n.8 , conv. in legge 15 marzo 1991, n. 82 su «Nuove norme in materia di sequestri a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia». D.L. 13 maggio 1991, n. 143, conv in legge 12 luglio 1991, n. 203 su «Norme urgenti per la lotta alla criminalità organizzata (…)».

170 ARDITA S., La nuova legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia, in Cassazione Penale, 2001, p. 1698.

154 da 12 a 20 anni e le altre pene sono ridotte da un terzo alla metà (art. 8 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991 n. 203).

La normativa in vigore nel 1991 prevedeva che la concessione dei benefici penitenziari in favore del “collaborante” fosse legata all’ottenimento di uno status, attribuito/conferito da una specifica commissione.

Per meglio comprendere l’evoluzione del dibattito in dottrina nella prima metà degli anni 90 e la crescente giurisprudenza in materia di collaboratori di giustizia occorre ricollegarsi al quadro storico precedentemente delineato ed alla criminalità organizzata italiana del periodo. Solo comprendendo il peso della storica sentenza emessa dalla magistratura siciliana nei confronti dell’organizzazione criminale più nota nel panorama nazionale e per alcuni aspetti anche in ambito internazionale, la mafia siciliana ed in particolare la sua storica componente palermitana – sentenza il cui impianto veniva in gran parte confermato dalla giurisprudenza della Suprema corte – si potranno collegare le conseguenze che hanno avuto sul quadro normativo e sul conseguente dibattito le scelte strategiche operate da tale organizzazione criminale.

Ad un trattamento di estremo rigore per i mafiosi “irriducibili” si contrappose allora un trattamento premiale per quelli che collaboravano con la giustizia (imputati ma anche condannati).

Il trattamento di vantaggio riguardava

- sia la fase della custodia cautelare in carcere (obbligatoria per i mafiosi “irriducibili”, solo facoltativa, addirittura eccezionale per i mafiosi “pentiti”),

- sia la fase della determinazione della pena (con sensibili aggravi o attenuazioni delle sanzioni previste per il reato commesso a seconda dell’atteggiamento processuale tenuto)

- sia infine in quella dell’esecuzione della pena (a seconda della “qualificazione” del condannato soggetta a un regime differenziato rispetto all’ordinario sia con riguardo alla possibilità di ottenere benefici penitenziari sia con riguardo alla applicabilità delle normali regole di trattamento in istituto)

155 Ancora una volta le norme non potevano facilmente coordinarsi all’interno di un sistema processual-penalistico basato sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Per un sistema elaborato ed ispirato tenendo in considerazione esperienze fatte in altri paesi nei quali l’azione del pubblico ministero non è vincolata dallo stesso principio (in particolare prendendo spunto dall’esperienza statunitense) un grande problema poteva essere dato dall’autonomia delle determinazioni di ciascuna autorità giudiziaria, con il conseguente pericolo di una eccessiva difformità nelle valutazioni sullo spessore del collaboratore e sul tipo di misure di protezione adottabili171.

Analizzando la disciplina contenuta negli artt. 9-11 del d.l 8/1991, risulta chiaro che all’autorità giudiziaria era riservato solo un potere di proposta (e di consulenza) mentre il potere di deliberazione del programma era affidato ad un organo amministrativo (la Commissione Centrale). A questo organo collegiale spetta l’adozione del programma a seguito di valutazione sulla inidoneità delle ordinarie misure tutorie e dopo la valutazione della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del programma, cioè “volontà di collaborare”, “spessore della collaborazione” e “rischi per l’incolumità” corsi dal collaboratore.

Nell’individuazione delle misure premiali e del momento tutorio non risultava quindi semplice infine individuare i confini tra i poteri dell’autorità giudiziaria e quelli delle varie autorità amministrative coinvolte in quest’ultimo aspetto (anche tenendo conto del gran numero di congiunti da proteggere e delle scelte sulle modalità dell’assistenza e delle forme di tutela carceraria ed extracarceraria)172.

Alla fine del 1994, soprattutto per venire incontro alle accresciute esigenze di tutela dei numerosi collaboratori di giustizia e dei loro familiari, vennero emanate con decreto le norme dirette ad individuare i criteri di formulazione del programma di protezione di coloro che collaborano con la giustizia173 con le modalità di formazione

171 D’AMBROSIO L., Il Decreto 687/1994 sulla protezione dei collaboratori di giustizia, in

Cassazione Penale, 1995, p. 786.

172 D’AMBROSIO L., cit., p. 786.

173 Decreto Ministeriale 24 novembre 1994, n. 687, emanato dal Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia secondo quanto previsto dall’art. 10 del D.L n. 8/1991

156 del programma e l’istituzione di una commissione centrale per la definizione ed applicazione del programma (art. 1 DM 687/1994).