• Non ci sono risultati.

Sono m olte orm ai le ragioni c ritic h e che ci induco­ no a ritenere com e i ve nticinq ue anni già passati dal­ la sua m orte fisica non abbiano co n trib u ito molto, in verità, a d efinire il vero posto di Raffaele Viviani nella storia del teatro del nostro secolo.

La com plessità e la varietà stessa della sua opera hanno fa tto in m odo che essa restasse « a p e rta » non solam ente com e in in te rro tto m essaggio per i posteri, sp ettato ri o lettori, ma com e prism a a più facce per gli esegeti più obbedienti a questa o a quella ideolo­ gia, so p ra ttu tto p olitica. Così chi ha ristretto il teatro di V iviani a un mero fenom eno dialettale e chi invece ha vo lu to rip o rta rlo a un superstite neo-verismo sulle o ccasioni offerte da una città tro p p o ricca di «colore locale » e altri invece vi ha c o lto un viluppo di nodi dem agogici, di proteste sociologiche, di continua me­ tafora p o litica perfino dove il tessuto fantastico resta­ va più lim pidam ente e sem plicem ente un consonante dolore con il dramma di Napoli e delle sue creature.

T utti, alla fine, co n c o rd in e ! ritenerequest'autore au­ todidatta, quest'attore uscito dalla strada e non dalle accadem ie dram m aturgiche o dalle scuole di recita­ zione, un interprete m aiuscolo e capitale di una « na­ poletanità fondam entale »: quella che va assai oltre il gioco, sia pure incantevole o conturbante dell'enfasi

sentim entale o gestuale in co ntrap p un to con una to ­ pografia antica e com plicata, insigne e umiliata, gran­ de e turpe insieme nella sua corrosione trim illenaria.

La gente che popola il teatro di Viviani insomma può apparire a esser vista sul palcoscenico — il suo, di ieri o di altri, oggi — una plebe grandeggiante den­ tro la storia e non solo per le sue virtù improvvise ed effim ere quanto proprio per i suoi vizi, perenni e co­ stanti in param etri accesi e scoperti. Ma è una plebe per la gran parte operosa o che ha voglia e smania di un lavoro sovente im possibile o negato ed è plebe che, anche se chiassosa e lacera, non è mai sbracata o vile, come se sentisse correre dentro il proprio san­ gue una nobiltà che soltanto gli eventi avversi di una lunga storia hanno addorm entato o fuorviato.

Ma, oggi, direi, venticinque anni dopo quella morte che veramente privò il teatro italiano di uno dei suoi m aggiori cam pioni, se restiam o fu o ri dagli equivoci ideologici che forse, per un'operazione artistica come quella di Viviani non potevano evitarsi e se guardiam o a ll’intensità suggestiva e persuasiva di certe recenti e recentissim e riproposte del suo teatro comincerem o forse a poter calcolare con m aggiore giustezza critica l'im po rtan za della sua presenza a ll'in te rn o di una c u l­ tura autentica, non più ristretta nei chiusi ambiti ac-

cadem ici e non più sbandierata sulla strada come im­ provvisa acquisizione di parte ma restituita a una m i­ sura umana, d ’intelligente verità storica e, soprattutto, poetica.

E certe interpretazioni che baluginano ancora nella nostra m em oria (di q u a n d ’eravam o fa n ciu llin i e nostro padre ci conduceva in un te a trin o dalle parti del vec­ ch io porto, il « Teatro Um berto » o di quando giovani a Don Raffaele ci legam m o con un a ffetto che affondava le sue radici in un consenso festoso alla sua ricca per­ sonalità anche umana oltre che artistica) si legano ad altre im m agini d ell'età m atura e m isurate oltre che con l’a ccre sciu ta m isura cu ltu ra le con l'im pegno professio­ nale: così che alla fine, via via conducendo approssi­ m azioni e scandagli non so ltan to sentim entali ma c riti­ ci d e n tro quella ardente sostanza, ci troviam o a dispo­ sizione un ricch issim o m ateriale che tuttavia, anche se a doperato con garbo, con cautela e con reverenza non fin is c e certo d'esaurire quel « ritra tto in piedi » che c ia scu n o di noi sp ettato ri o lettori del teatro di Raffaele V iviani vorrebbe p oter disegnare e per sé stesso più che per gli altri, conducendo il rapporto con lui e con le sue com m edie fin o a q u e ll’ideale equazione in cui può poi consistere la decifrazione. I’ a cqu isizion e e il n u trim e n to di un messaggio poetico con la nostra d is p o n ib ilità em ozionale.

Perché sì, anche con la sua m aschera che fu defini­ ta « un p ro filo da fa ra on e della IV dinastia » e che sol­ tanto due g ra nd i s c u lto ri, Vincenzo Gemito e Saverio Gatto riu s c iro n o a rip ro d u rre co n una prodigiosa inter­

pretazione plastica, Viviani forzava di colpo l’attenzio­ ne di chi lo guardasse, da lontano sul palcoscenico o da vicino, per la strada o in casa: e dove gli occhi in­ quietissim i e inq uie tan ti e i c iu ffi di capelli ribelli sulla fronte fortem ente inclinata e quel riso scrosciante e sensualissim o che sulle labbra torceva le parole che ne uscivano, facendole diventare un in in te rro tto to r­ rente di lava, erano già tu tto uno spettacolo umano, il m istero di una personalità dai guizzi im prevedibili, dal­ le accensioni subitanee, dalle disperazioni fu re nti ma rapide.

Tutto, voglio dire, fin da quel volto m obilissim o e già quasi em blem atico nelle sue caratterizzazioni som ati­ che alludeva a una rib olle nte m ateria fantastica e a una p ullulan te verità di vita, c o n g iu n te insieme p ro prio da quegli sguardi rapinanti e da quelle risate p opolare­ sche. E i gesti e tu tti i m ovim enti di quel corpo che poteva quasi dissossarsi e co n to rc e rs i com e nel ritm o di una co n tin u a adolescenza d ’a crobata della strada a quel volto si legavano. E, in ce rti m om enti la fissità statuaria di alcuni suoi in te rro g a tiv i ta citi irrigid iva an­ che il busto e le gambe, delle q uali una quasi si stec­ chiva e l’altra si piegava al g in o c c h io , p rovocatoria, o la scioltezza m a linco nica e b uffonesca di certi suoi « s c u g n iz z i» c a p rio le g g ia n ti c o n tro le avversità, in una « jo ie de vivre » s co pp ie tta n te in m ille m ortaretti fra gli stracci portati com e m antelli d ’erm ellino. O ancora i passettini in cro cia ti, di danza sul filo , dei suoi eroi del­ la strada, p ortati a vivere o ltre la notte dei vicoli in una dim ensione quasi astratta, certam ente già al lim ite di

Raffaele Viviani in due sculture di Saverio Gatto

un espressionism o partenopeo che continuam ente al­ ludeva a una « pe tite comédie humaine» o meglio a una perenne « opera da tre soldi» dove la kermesse del dolore sopravanza ogni apparente festosità, ogni sgargiante felicità.

Già qui, n ell'u om o continuam ente attore, personag­ gio di sé stesso e maschera, Raffaele Viviani si faceva m edianico m ediatore della verità umana di sé e di Na­ poli, della sua riposta e sulfurea matrice.

Non che tu tto grondasse pianto e disperazione o che tu tto fosse una protesta di poveri per ottenere ri­ sarcim enti o pietà ma fu nel suo teatro anche m alizio­ sa ironia, im peto m onellesco che piegava al riso il tra­ gico q u o tid ia n o di una grande città che s'andava rag­ g riccia n d o in una sua provinciale apatia e fu anche una disperata b uffonaggine sui casi della vita della po­ vera gente. La stessa decadenza econom ica della città che, smesso il ruo lo e il rango di capitale nella quale c o nflu iva da tu tto il Reame, non fosse che per esser preda d i-p a ra s s iti e di scrocconi, pressocché tutta la popolazione d e ll’e ntroterra più prossim o e almeno una volta — non fosse che per im barcarsi da em igranti — dalle zone più lontane, diventò in Viviani un fatto an­ che co m ico oltre che dram m atico, la frode si fece to l­ lerabile e perfino amabile buffoneria, la povertà si m utò in una c o lo rita rassegn.azione al fato o meglio al­

la mala sorte, la fam iglia il vicolo basso » si fecero

un g ro vig lio di ansie e di co m p licità dentro lo strenuo co raggio di vivere alla ventura, ogni giorno una form a diversa di esistenza e dentro la stessa luce impietosa

d ell'indulgenza co rretta da assurde speranze, da un’ apparente e corale cordialità, da una difesa fatta più di passioni che dal raziocinio co ntro le continue, insi­ stenti avversità.

E, passando in una c o ntin ua osmosi dalla strada al palcoscenico, quella che s'è chiam ata la piccola com­ media umana napoletana diventò in Viviani un grosso fatto artistico da che era soltanto un grosso ma effi­ mero fatto umano. Fu p ro prio nel 1917, quasi sessant’ anni fa dunque, che con l’atto unico « O vico» aspetti e fig ure di un vicolo napoletano passarono dall'anoni­ ma realtà to pografica e anagrafica alla grande realtà teatrale: e quel m iracolo già accaduto altre volte nella storia del teatro a Napoli con Trincherà e Davino, Cammarano e Altavilla, Petito e Scarpetta, cioè quel trasferim ento sulla scena della gente napoletana nella pienezza del suo conte nu to um ano collettivo, si ripe­ tette con Raffaele Viviani che c o m in ciò così a suggeri­ re per Napoli un'angolazione sanguigna e patetica, convulsa e tenera, di m ascherata e insieme di autenti­ cità dove am bienti e personaggi stanno a combaciare non in una astratta e so ltan to probabile somiglianza ma fin is c o n o col creare una identità di sangue, sul filo della persuasione d e ll’arte: arte scenica e poetica in­ sieme, com e soltanto rare volte accade in maniera di­ retta e ineludibile.

E qui vorrei dire che, anche sciog lie nd o si dal fasci­ no di quella s trao rdina ria personalità di attore e di re­ gista « epico » a una m aniera di connaturale Brecht che fu Viviani, m olti di quei p u n tig lio s i suoi testi e co-

p ioni e canovacci resistono anche a una lettura non da palcosce nico , dove il d ia letto tenta di farsi lingua auto no m a o te nta di inserirsi d en tro la tram a stessa della ling ua italiana e là si o ttien e la prova che, anche fu o ri dal luo go d eputato, cioè fu o ri dal palcoscenico, quella sp le nd ida vocazione potette diventare anche teatro da leggersi o ltre che te atro da potersi rappre­ sentare fu o r della m ente di ciascun lettore, senza altro soccorso che non sia poi q ue llo della sua stim olante carica espressiva.

P ro p rio m entre Napoli, dal p rim o dopoguerra in poi, sem brava andar sem pre più rin u n c ia n d o alle sue pre­ rogative e fu n z io n i di c ittà p ilo ta della c u ltu ra e mentre non resisteva che l’in tre p id o c o ra g g io di Croce e dei suoi sodali e allievi e am ici, ecco il teatro di Viviani, teatro p opolare nel senso più vero del term ine, un tea­ tro che nasceva dalla m ateria d olen te della città e del­ la sua gente ma qua e là scoppiava in allusive risate e non tem eva il m utare in ca p rio la la m im ica più dispe­ rata e in ca ch in n o e lazzo il lam ento e il pianto più cu­ po o su gg erire m aliziose rivo lte là dove tu tto sembrava perdersi n ell'o bb ed ien za al co n fo rm ism o . Oggi che il b ila ncio per V iviani è ch iu so da ve nticinq ue anni pos­ siam o andare a ca lco lare la sua incandescente azione dra m m aturgica sulle te stim o nia nze di « Scalo m aritti­ mo » del 1918, de « L a festa di P ie d ig ro tta » del 1919, di « P e s c a to ri» del 1924, di « L a Festa di M ontevergi­ n e » del 1927, di « M o rte di C arne va le » del 1928, di « G u a p p o di c a rto n e » del 1932 — che è anche l’anno de « L ’u ltim o s c u g n iz z o » e de « L 'im b ro g lio n e one­ s to » — e via via fin o alla « T a v o la dei p o ve ri» del 1946 che fu l’ u ltim a sua grande, irride nte ma pietosis­ sim a co m m ed ia e passando attraverso quei capolavori che fu ro n o e restano « C a m p a g n a n ap ulitan a » del 1919 (l'a n n o de « L o sp o s a liz io » ) « D o n G ia c in to » del 1923 e forse sopra ogni altro q u e ll'a ffre s c o goyesco di vita povera e girovaga che fu « M usica dei ciechi » del 1927.

Ne ricaviam o che il suo fu un teatro che stabiliva un c o n tin u o e preciso c o n tra p p u n to fra le proprie doti di osservatore e di tra s fig u ra to re e le occasioni che Na­ poli g li offriva , in un p u n g o lo co ntin uo , fatto di voci e di gesti, di pensieri e di sentim enti. Nello scam bio che egli operava fra sé stesso poeta e la vita del popolo c' era una legge di c o n tin u a e perfetta recipro cità per cui o g n i o cca sio n e di vita napoletana comm oveva la fa nta ­ sia di quel fig lio del p o p o lo e quella fantasia a sua vol­ ta colm ava di verità p o e tich e universali ogni occa­ sione.

Viviani, insom m a, non si rifiu ta v a mai a queste solle­ cita z io n i, per m in ute o vo lg a ri che fossero o potesser

apparire ma a sua volta le trascendeva tutte, superava la barriera d eteriore del « c o lo re locale » o se vi obbe­ diva era in una violenza di im m ediatezza espressiva, in una deform azione necessaria a c o g lie re la radice più profonda, il s ig n ific a to a n tic o e perenne di un m odo ine gu ag liab ile di vivere sociale.

M alizia e pietà, potrebbe ben d irsi, fu ro n o le arm i di questo teatro che assumeva la povera gente a p ro ta ­ gon ista di avventure ta lvo lta e ccita te fin o alla furia, f i­ no alla tragedia, den tro la flu id ità e l'in con sisten za

stessa delle classi so c ia li. Plebe urbana e plebe conta­ dina stanno a fare da te ssuto co n n e ttiv o alla piccola gente che già, ma co n q u a n ta fa tica , si distacca dalla plebe: da q u e lla plebe tu tta v ia sem pre ricca di senti­ m enti e m b le m a tic i alla quale co n tin u a m e n te guarda il teatro di V ivian i, con o c c h io lu c id o di fe bb rile attenzio­ ne e se ta lv o lta il suo o c c h io co m m osso fin o alle lacri­ me sfio ra le altre classi e cco che la m alizia tende allo sberleffo, alla ca ric a tu ra , la povera gente si salva attra­ verso il g ro tte s c o per riv o lta rs i c o n tro i sopraffattori, i

(fotografia di Maria Stefanile, 1937)

« p ro fitta to ri » (come ne « La tavola dei poveri » dove il Marchese Isidoro Fusaro, poverissim o e tuttavia stre­ nuamente ancorato a m ascherare la sua povertà da­ vanti a tu tti, al cam eriere G iovanni che gli dice: « Per­ donate... se volete app ro fitta re » risponde categorico, come in una epigrafia solenne di sé stesso « lo non a p p ro fitto mai »).

Ed è allora im portante so ttolineare che egli rappre­ sentando certi fatti non fu mai portato a giudizi apo­ d ittici, fanatici, bensì trasfig ura nd o giunse piu tto sto a quella virile pietà che, anche se nascosta, fa alla fine giganteggiare le più um ili fig ure da lui inventate p ro ­ prio a gara con la vita anagrafica: Mastu Rafèle del « V ic o » , Pascale di « S c a lo m a rittim o » , il guantaio Peppeniello de « Lo sposarizio », Don G iacinto dell' atto unico om onim o, « C a rn e v a le » della « M o rte di Carnevale » e così via, in una tip o lo g ia reperibile in ogni m om ento, in una Napoli p e rco rrib ile perfino to p o ­ graficam ente ancora oggi e tuttavia diventata, per me­ rito di Viviani, una sorta di luogo dello spirito, in d i­ spensabile polo m agnetico con attrazioni e repulse im ­ mediate o continue, n e ll’am bito appunto di una parti­ colare società.

Società violentem ente so tto po sta a soprusi da

secoli, nel gioco fitto e in trica to di tu tte le dom inazioni di sfruttam ento ma anche società vivissim a e non im ­ porta se alcune battute sono colm e di amarezza, se al­ cune situazioni spingono il dram m a di vivere fin verso la tragedia del vivere a Napoli perché ormai sappiamo tu tti com e Viviani, fu o r d ’ogni e tiche tta populistica che gli si è voluto a viva forza a pp iccica re resta un uomo del popolo, illu m in ista a suo m odo. Non ingannino certe ingenue obbedienze ad alcune sollecitazioni ve­ nutegli da un falso ordine sociale, da un falso rinnova­ mento della facciata urbanistica, dal falsissim o risana­ m ento di alcuni costum i perché a llo ra il suo teatro fu piu tto sto una esercitazione di reto rica (come si vide in « N a p o li in fra c » del 1926 e ancora in « G uappo di c a rto n e » e « L ’u ltim o s c u g n iz z o » del 1932 e «S iam o tu tti fratelli » del 1941).

Ma se andiam o a rise ntire o a rileggere quanto me­ no « Scalo m arittim o » che fu una delle sue prim issim e cose vi ritroverem o s c in tilla n ti gem m e del suo talento d ram m aturgico. Come ho avuto m odo di dire, Viviani lavorava allora al Teatro U m berto, che sorgeva in un a ffo lla to q uartiere p ortua le dì una Napoli catalana e durazzesca, greca, fe nicia, saracena e angioina, una Napoli fa tta da un in tric o di fo n d a c i e di angiporti, di m oli e di m andracchi, con odore di gom ene inca tra ­ mate e di ca rrub e e m olti degli sp ettato ri che già veni­ vano ad ascoltare e ad app la ud ire quel singolare e 73

sconcertante attore avevano bottega nei pressi del tea­ tro o nel dedalo delle antiche viuzze scendevano ogni m attina per inventarsi un lavoro a filo di un qualsiasi in co n tro : così che di sera, fra le ventuno e la mezza­ notte la sala del « T e a tro U m b e rto » pullulava come un fondaco o com e un m olo, p ro p rio come quello scalo graziosam ente e piam ente dedicato a una Madonna, ma p icco la e scura di pelle com e una ragazza di quei posti, a una « Im m acolatella » che splendeva come un m iraggio in cim a a un e d ific io g rig io e rosso.

V oglio appunto so tto lin ea re com e Viviani in quella sua com m edia o dram m a di e m igra nti, nervosa e vena­ ta da im peti di m alizia a co rreg ge re il patetico sostan­ ziale, interpretasse in m isura p oetica il dramma econo­ m ico che talvolta sem brò c o lo ra rsi di assurde speran­ ze, quasi che l’em igrazione fosse una febbre benefica e non la testim onianza ine qu ivoca bile di una irrim edia­ bile decadenza m eridionale. Ma non si trattò di un freddo docum ento, semmai l'accusa è velata dalla pietà e la rappresentazione dei personaggi vittim e è di una purezza espressiva già m olto alta.

E già questa verità diciam o s o cio lo g ica (ma meglio sarebbe chiam arla sem plicem ente umana) è dom inante del teatro di Raffaele Viviani, che fu teatro di povera gente che si sforza di guardarsi dentro, a fondo. E, in­ sieme con questa insieme con questa « gens neapoli- tana » veramente tutta la città (e fu detto assai bene dal fig lio V itto rio che p ro p rio davanti al pubblico del « T e a tro U m b erto » « la città per la prim a volta veniva rappresentata in una violenta deform azione espressi­ va, strada per strada, rione per rione; rivelata nella realtà m o lte p lice e c o n tra d d itto ria dei suoi esemplari um ani e da un poeta che ne distruggeva daH’interno la fo rm a d eg li a p rio rism i convenzionali e le s tratifica ­ zioni m ito lo g ic h e , per ricrearla ex novo raccontandola