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LE RECENTI PRONUNCE DEL TRIBUNALE E DELLA CORTE D'APPELLO DI VENEZIA SULLA TUTELA DELLA

DENOMINA-ZIONE D'ORIGINE DEL VINO AMARONE DELLA VALPOLICELLA

A seguito del percorso di analisi dei diritti di proprietà industriale, sia dal punto di vista del diritto sostanziale, sia da quello degli strumenti di tutela in sede proces-suale, interessa, in questa sede, scendere ancora più nel vivo della questione, analizzando due recenti pronunce che hanno avuto molto risalto, specialmente nel territorio di riferi-mento, ma anche su quotidiani nazionali e riviste di settore. Si fa riferimento alla sentenza n. 2283 del 2017 e alla sentenza n. 4333 del 2019, pronunciate rispettivamente in primo e secondo grado dalla Sezione specializzata in materia di impresa, presso il Tribunale e la Corte di Appello di Venezia. La decisione di quest'ultima, che ha confermato l'orientamen-to del giudice di prime cure, è stata inoltre già oggetl'orientamen-to di impugnazione, con ricorso avver-so la Corte di Cassazione, ma, essendo il giudizio ancora pendente, se ne potranno esami-nare gli sviluppi soltanto negli anni a venire.

Il caso origina dall'iniziativa di alcuni produttori di vino della Valpolicel229 -la, nonché membri storici del Consorzio di Tutela omonimo, che nel 2009 diedero vita ad una autonoma struttura associativa, una società consortile chiamata "Le Famiglie dell'A-marone d'Arte" (d’ora innanzi: “Le Famiglie”), volta a «promuovere il vino Adell'A-marone» e dotata di un disciplinare più restrittivo di quello del Consorzio di Tutela. Tale consorzio, inoltre, registrò a livello nazionale ed europeo un marchio individuale, consistente in una lettera "A" maiuscola, con il fine di evocare sia la menzione tradizionale "Amarone della Valpolicella", sia un aggiuntivo suffisso "d'Arte", scelto dal consorzio per evidenziare la particolare qualità del prodotto. Tale marchio figurativo, apposto come un bollino sulle bottiglie di Amarone, era oggetto di un’importante campagna pubblicitaria, culminata in

Si tratta di dodici imprese produttrici di vino della Valpolicella e precisamente l'Agricola Fratelli Tedeschi

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s.r.l., l'Azienda Agricola Begali Lorenzo di Begali Lorenzo e Giordano s.s., l'Azienda Agricola Brigaldara di Cesari Stefano, Corte Giara, Guerrieri Rizzardi Azienda Agricola s.s., Masi Agricola s.p.a., Musella ss. Agr., Società Agricola Venturini Massimo e Figli s.s., Speri Viticoltori s.s. Agr., Tenuta s. Antonio di Castagnedi Massimo, Armando, Tiziano e Paolo s.s. Agr., Tommasi Viticoltori s.s. Agr., Zenato Azienda Vitivinicola s.r.l.

occasione dell’Expo 2015. La società basava inoltre il proprio marketing sull'esistenza di un vero e proprio "Manifesto dell'Amarone d'Arte", dove la finalità societaria veniva sinte-tizzata come l'intento di realizzare un prodotto di elevata qualità, sottoposto a requisiti maggiormente restrittivi, formalizzati in un disciplinare ad hoc.

La controversia – nata "sotto cattiva stella, in questa bella Verona" – viene introdotta nel 2015 da parte del Consorzio di Tutela della Valpolicella (d’ora innanzi: “Il Consorzio”), il quale in qualità di rappresentante di circa «l'80% di ciascuna delle categorie che compongono la filiera vinicola (viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori) inerente alle quattro denominazioni tutelate» , e soprattutto forte del proprio ruolo di garante e di or230 -ganizzatore della denominazione di origine di riferimento, nonché coadiuvato da altre sette aziende produttrici consorziate, chiedeva al Tribunale di Venezia di tutelare l’unitarietà del-la DOCG Amarone, difendendo gli interessi collettivi da condotte in cui ravvisa pretese individualistiche di discontinuità.

Le Famiglie, dal canto loro, sostenevano di aver deciso di creare tale società consortile a seguito di alcune scelte del Consorzio di Tutela che, a loro detta, avevano por-tato «un aumento della superficie viticola per poi abbassare la percentuale di cernita per le uve a riposo, il tutto a discapito dei vigneti altamente vocati che avevano pagato il prezzo legato alla percentuale di cernita ed erano altresì "affiancati" a nuovi vigneti» , a cui si 231 era aggiunta, poi, nel 2013 «la proposta di modifica del disciplinare volto a estendere, ai fini dell’idoneità della produzione del vino Amarone, l’area di produzione anche ai vigneti piantati sui terreni freschi situati in pianura o nei fondovalle» . 232

Le sentenze – conclusesi entrambe a favore del Consorzio – offrono lo spunto per affrontare molteplici questioni, anche se qui se ne vuole restringere il campo alla trattazione di due in particolare, una di diritto sostanziale, l’altra squisitamente

Si veda sentenza n. 2283/2017, al terzo motivo esposto dal Consorzio di Tutela della Valpolicella.

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Si tratta di alcune considerazioni preliminari portate all'attenzione del giudice di prime cure da parte della

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società consortile delle "Famiglie dell'Amarone d'Arte".

N. LUCIFERO, La tutela delle menzioni tradizionali dei vini tra principio di unitarietà della denomina

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-zione di origine e atti di concorrenza sleale: il caso dell’Amarone della Valpolicella, in Rivista di diritto agrario, 4, 2020, Milano, Giuffrè, p. 185.

suale. Da un lato, infatti, permettono di esaminare la questione inerente alla «tutela delle menzioni tradizionali nel sistema della disciplina delle indicazioni geografiche con partico-lare riferimento alla legittimità delle iniziative volte all’adozione da parte dei produttori di regole più rigorose» , rispetto ai disciplinari di produzione dei Consorzi; mentre, dall’al233 -tra permettono un approfondimento sulla legittimazione ad agire del Consorzio di Tutela, in particolare con riferimento a condotte di concorrenza sleale.

La vicenda, poi, è di grande attualità, perché riferita ad un fenomeno più grande, che vede i consorzi di tutela cercare di dare valore a delle specificazioni della qua-lità dei prodotti dettate dai processi produttivi all’interno della stessa denominazione, co-niando apposite menzioni . Interessante esempio di un tentativo che mostra delle analo234 -gie con il presente percorso e, come si vedrà, con la vicenda processuale in oggetto – tra le quali in primis il fatto che l’iniziativa sia nata dalla volontà di un imprenditore privato, seppur anch’esso consorziato – è rappresentato dall’altrettanto recente sentenza, in questo caso, del Tribunale di Milano, la n. 8111 del 29 giugno 2016, secondo la quale la qualifica-zione del Taleggio DOP come «stagionato in grotte di Valsassina» sarebbe inidonea a lede-re l’unicità della DOP.

Prima di entrare nel merito delle questioni giuridiche accennate, è bene fare un passo indietro per ripercorrere i tratti salienti della sentenza di primo grado, poi ricon-fermata pressoché nella sua interezza nel giudizio di appello.

Nel giudizio di primo grado il Consorzio – assieme a sette cantine costi235 -tuitesi anche in proprio – lamentava tre principali condotte:

Ibid., p. 182.

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Ibid., p. 184.

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Si tratta di sette altre imprese produttrici del vino della Valpolicella e precisamente l’Azienda Agricola

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Roccolo Grassi S.S. Agr., Azienda Agricola Zymè di Celestino Gaspari S.S. Agr, Cantina di Colognola ai colli Soc. Coop. Agr., Cantina sociale cooperativa di Soave Soc. Coop. Agr., Casa vinicola Sartori S.P.A., Società Agricola Corte Figaretto di Bustaggi Alberto e Mauro S.S., Società Agricola Corte Rugolin di Elena e Federico Coati S.S., quest’ultima non costituitasi nel giudizio di secondo grado, perciò rimasta contumace.

- l'uso illegittimo di parte della menzione tradizionale

"Amarone della Valpolicella" all'interno della denominazione sociale "Le Famiglie dell'Amarone d'Arte",

- la nullità per decettività del marchio figurativo registrato dai convenuti, dato che contrario alla legge, per l'indebito accostamento della specificazione "d'Arte",

- l'accertamento delle condotte integranti pratiche commer-ciali scorrette e di concorrenza sleale nei confronti degli altri produttori di vino, promuovendo selettivamente "l'Amarone d’Arte", come caratte-rizzato da maggiore qualità, per il rispetto di un codice di condotta vo-lontario più restrittivo, che induce in errore il consumatore circa l'esi-stenza di un Amarone con la "A" maiuscola.

1. Di conseguenza, il Consorzio e le sette cantine chiedevano la nullità del marchio figurativo visto in precedenza, la declaratoria di illegittimità dell’uso nella denominazione sociale della società “Le Famiglie”; e la condanna delle Fami-glie per concorrenza sleale per lo svolgimento di attività promozionale e commercia-le volta ad indurre erroneamente i consumatori a ritenere che esistesse un vino de-nominato “Amarone d’Arte”.

Sulla base delle medesime tre principali direttrici si fonda poi anche la suc-cessiva difesa del Consorzio di Tutela nel giudizio di secondo grado, davanti alla Corte d’Appello.

Le Famiglie si costituivano in giudizio sostenendo:

- la compatibilità delle proprie iniziative imprenditoriali con la disciplina europea (e, nello specifico, con l’art. 103 par. 1 regolamento UE 1308/2013, chiedendo altresì il rinvio pregiudiziale alla CGUE);

- la legittimità del marchio, anche rispetto alle disposizioni previste dal disciplinare di tutela del Consorzio;

- l’inesistenza di condotte di concorrenza sleale.

Il giudice di prime cure accoglieva in toto le domande attoree e, sulla base delle loro allegazioni, replicava con sette punti principali alle questioni sollevate dalle Fa-miglie:

1. rigettava l'istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE poiché non giu-stificato da dubbi interpretativi sul contrasto tra la normativa nazionale della legge n.

238 del 2016, c.d. Testo unico del vino e del contenuto dell'art. 20 del D. Lgsl. n. 61 del 2010 (previgente e contemporaneo ai fatti), rispetto al Regolamento UE n. 1306 del 2013, che anzi prevede, al considerando n. 93, la facoltà degli Stati membri di prevedere norme più rigorose, quali si riscontrano nel disciplinare del Consorzio di Tutela,

2. rigettava l'eccezione sulla carenza di legittimazione attiva del Consor-zio di Tutela, in quanto questione estranea alla materia del contendere; mentre acco-glieva parzialmente l'eccezione circa la domanda di risarcimento, solo per quanto atteneva al danno da concorrenza sleale spettante a produttori non costituitisi in giu-dizio , 236

3. accertava l'illiceità della denominazione della società consortile, del suo uso anche come nome di dominio, e ne inibiva l'utilizzo successivo, richiamando la previsione del Testo unico del vino che vieta l'uso della DOCG (o di parte di essa) nella denominazione sociale di un'organizzazione diversa dal Consorzio di Tutela

Il giudice di primo grado rileva che la condanna generica al risarcimento del danno «postula unicamente

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quale suo presupposto l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose» e «il presupposto della potenziale dannosità della attività di sleale concorrenza sussiste di tal che va pronunciata la condanna generica dei convenuti a risarcire il danno in favore dei produttori "concorrenti" che hanno agito in giudizio. In tale penultimo paragrafo della sentenza di primo grado si specifica quindi il motivo per cui la liquidazione del risarcimento del danno non sarà operata anche nei confronti di ulteriori produttori della Val-policella, associati al relativo Consorzio, i quali non abbiano provveduto ad agire in giudizio al fianco del Consorzio stesso.

4. dichiarava la nullità del marchio nazionale, ai sensi del combinato di-sposto degli artt. 14 e 25 del c.p.i., inibendone l'uso, con relativa computazione di 30 euro di penale per ogni inosservanza o ritardo, nonché, ordinandone la rimozione dai prodotti in commercio con previsione di una penale per ciascun inadempimento. La nullità veniva dichiarata per contrasto del marchio con il disciplinare e in applica-zione dell'art. 44 del Testo unico del vino (e nel contemporaneo ai fatti art. 20 del D.

Lgsl. n. 61 del 2010) che prevede che DOP, IGP e menzioni tradizionali vadano usa-te solo in conformità ai disciplinari di produzione,

5. accertava le condotte di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 1 e 3, costituite dall’uso del marchio e di espressioni che associano le parole "Amarone d'Arte" a proprio illecito vantaggio selettivo e nella promozione di detto marchio an-che per vini non appartenenti alla DOCG Amarone (come successo durante l'evento Expo 2015 ) e infine nella pubblicizzazione, anche a mezzo di un "Manifesto 237 d'Arte", del rispetto di un disciplinare più restrittivo, senza adempiere ai requisiti previsti dal Codice di Consumo per i codici di condotta volontari. Di conseguenza condannava le Famiglie al risarcimento dei danni potenzialmente dannosi della con-correnza sleale, in favore delle sette aziende produttrici, che hanno agito in giudizio insieme al Consorzio.

Il giudice di primo grado, a norma dell'art 126 c.p.i. ordinava anche la pub-blicazione della sentenza su due quotidiani di chiara fama e sulla pagina principale dei siti Internet dei convenuti; prescrizione che tuttavia rimarrà inadempiuta, risultando successi-vamente inibita con ordinanza della Corte d'Appello.

Nella trattazione del quarto motivo di doglianza delle "Famiglie" in sede di appello, la Corte risponde,

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facendo notare che «non si tratta, dunque, della classificazione in "A", "B", "C", ma della inclusione sotto l'egida "Fam. Amarone" di prodotti non rientranti nella d.o.c.g. "Amarone della Valpolicella", circostanza desumibile dai rilievi fotografici in atti e non idoneamente contestata dai qui appellanti in sede di tutto il pri-mo grado di giudizio; quanto poi alla potenzialità dannosa di tale condotta - non controvertibile in dubbio, in considerazione della natura della manifestazione - essa deve ritenersi sufficiente ai fini della condanna gene-rica (v., con specifico riguardo alla concorrenza sleale, Cass. 10643/2015).

La Sezione specializzata in materia d'impresa presso la Corte d'Appello di Venezia, nel successivo grado di giudizio del 2019, confermava pressoché nella totalità 238 le statuizioni del giudice di prime cure, rilevando la peculiarità della controversia, nella quale «non vengono in rilievo le questioni, che sovente sollevano le controversie in tema di denominazione di origine protetta (d.o.c., d.o.c.g., i.g.p.), circa il mancato rispetto del di-sciplinare dei prodotti realizzati, commercializzati e pubblicizzati da imprenditori terzi o la loro mancata (totale o parziale) provenienza dal luogo di origine della d.o.c.g. o, ancora il mancato possesso delle caratteristiche proprie della DOP» , ma dove il vero fulcro è dato 239 dal tentativo di diversificazione portato avanti dalle Famiglie, che crea la suggestione della produzione di un vino di una qualità superiore, rispetto a quella degli altri produttori, per il fatto di aver adottato, in maniera non comprovata, un disciplinare pubblicizzato come maggiormente rigoroso.

Degni di nota sono poi due excursus tematici proposti dal giudice di secon-do grasecon-do: il primo in merito al quadro normativo multilivello che fa da cornice alla vicen-da, al fine di acclarare l'effettivo ruolo del Consorzio di tutela, e fugare ogni dubbio avan-zato dagli appellanti riguardo la presunta esclusiva titolarità in capo al MIPAAF dell'irro-gazione della sanzione amministrativa per indebito uso della DOCG; il secondo excursus, invece, esplicativo dell'interpretazione della normativa in tema di tutela delle denomina-zioni d'origine (e delle mendenomina-zioni tradizionali in esse ricomprese), così da contrastare la ar-gomentazione degli appellanti sul fatto che non vi fosse un'indole laudativa nella specifica-zione "d'Arte" e sulla questione che il giudice avesse disatteso l'orientamento

giurispruden-Va precisato che in secondo grado vi è una conferma della sentenza di primo grado pressoché in toto,

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salvo l'accoglimento del rigetto dell'ordine di rimozione del marchio da uno dei nomi di dominio in quanto estraneo alla società consortile e ai suoi membri.

Si vedano i rilievi della Corte d’Appello nella sentenza n.4333 del 2019

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ziale affermatosi nel caso del Taleggio DOP , nonché sulla mancata considerazione della 240 valutazione dell'EUIPO che non aveva annullato il corrispondente marchio europeo.

Le pronunce in oggetto destano, come ci si può facilmente rendere conto, un vivo interesse, non tanto e non solo per il rilievo che i principi espressi nella controversia possano avere per il contesto storico-economico in cui si innesta, quanto, e piuttosto, per l’orientamento interpretativo formatosi, che da qui in avanti rappresenterà un chiaro rife-rimento giurisprudenziale per gli operatori del settore, offrendosi come contributo chiarifi-catore della normativa vitivinicola, la quale, come già si è avuto più volte modo di segnala-re durante i psegnala-recedenti capitoli del psegnala-resente elaborato, è un sistema multilivello, per certi versi anche autonomo, ma soprattutto specialistico, di non facile dominio e di conseguenza in grado di suscitare interpretazioni contrastanti.

Di certo un principio che rappresenta una sorta di filo rosso, che più volte si ripete nelle sentenze, è rappresentato dalla tesi secondo cui non sia mai consentito utilizza-re una denominazione d’origine accompagnata da ulteriori specificazioni, seppur diverse da quelle esplicitamente previste dai relativi disciplinari, qualora ciò crei un’indebita diffe-renziazione in grado di minare all’unitarietà della denominazione e di indurre in errore il consumatore. A corollario di ciò emerge, tuttavia, che è consentito valorizzare particolari metodi di elaborazione e zone di produzione od altre caratteristiche specifiche di un pro-dotto di un certo imprenditore, purché, per esprimere tali caratteri, siano utilizzati termini esplicitamente consentiti dalla legge e dai disciplinari o al limite purché, come si legge a chiare lettere nel commento proposto dalla Corte d’Appello di Venezia alla sentenza sul

Si veda al riguardo la sentenza della Corte d'Appello n. 4333 del 2019, laddove a pagine 19-20, in un tono

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quasi lapidario, i giudici così argomentano «E’ appena il caso di rilevare che il precedente invocato dagli appellanti, ossia il caso dell’indicazione della "stagionatura nelle grotte di Valsassina" del formaggio taleggio dopo, ritenuta legittima dal tribunale di Milano, non pare affatto corrispondere, come pretenderebbero "Le Famiglie", "esattamente" alla "fattispecie che ci occupa" (atto di appello, pag. 27). Va rimarcato che, nel caso sottoposto a questa corte, non è affatto presente l'indicazione di una specifica e particolare tecnica di produ-zione del vino "Amarone della Valpolicella", ma - ben diversamente- l'evocaprodu-zione di una non meglio precisa-ta sua natura di vino "d'Arte" in ossequio a un disciplinare che si assume diverso e più restrittivo" di quello stabilito per la d.o.c.g., ma senza alcuna verifica ufficiale o controllo indipendente. […] il consumatore, a fronte di quel marchio apposto sul "bollino" presente nel collo delle bottiglie è indotto a ritenere di trovarsi di fronte a un "Amarone della Valpolicella" di qualità superiori rispetto a quello che quella specie di "certificato di superiore qualità" non possegga e a pagare, in conseguenza, un prezzo superiore (essendo pacifico che il prezzo al quale "Le Famiglie" vendono il vino "Amarone" da esse prodotto è ben superiore a quello medio delle altre aziende consorziate). Sennonché, in assenza di qualsiasi oggettiva e indipendente verifica circa le caratteristiche del disciplinare asseritamente più rigoroso seguito da "Le Famiglie" non può non riconoscersi un'attitudine ingannatoria a quell’espressione.».

Taleggio DOP, si tratti di specificazioni non esplicitamente vietate, concrete e veritiere, e in definitiva come, sembra aggiungere il giudice veneziano, purché in generale l'attestazione di tali caratteri risulti oggettiva e sottoponibile alla vigilanza e controllo di un ente terzo, così che sia data garanzia che non vengano frustrate le concrete possibilità di verifica della

"bontà" del prodotto da parte del consumatore e il suo affidamento senza errore.

4.2 IL RUOLO CENTRALE DI UNA QUESTIONE RITENUTA MARGINALE: LA