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Relaz III.1.2 Educarsi in un’ottica di re-inserimento sociale

Nel documento Università degli Studi di Sassari (pagine 136-139)

Giusy Manca

Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Università di Sassari mancag@uniss.it

È necessario porsi innanzitutto una domanda fondamentale: COSA RAPPRESENTA LO STUDIO PER I DETENUTI? Parto da due testimonianze di educatori in carcere che chiariscono la rilevanza dei percorsi di studio in carcere:

Edoardo Albinati: “Una parentesi. Un progetto. Un riscatto. Una speranza. (…) per qualche detenuto studiare rappresenta davvero un progetto chiaro, di riscatto e di riabilitazione sociale; ad alcuni serve per entrare nel mondo del lavoro (del lavoro pulito!). Per altri studiare è semplicemente un modo meno disumano di passare il tempo.” Valeria Palazzolo : “La povertà culturale è il reato più punito perché impedisce di comprendere appieno perfino la pena e di dar senso al proprio tempo di reclusione”.

Quanto affermato contrasta con la sempre più diffusa che lo studio(o ancor peggio l’acquisizione di un titolo di studio) sia funzionale solo a garantirsi un posto di lavoro e l’accesso ad un ruolo sociale (anche se questa certezza nella società di oggi è sempre più fragile). Credo si sottovaluti sempre più la funzione più autentica dello studio non inteso come acquisizione di nozioni intese in senso cumulativo quanto piuttosto finalizzato all’evoluzione di sé, al proprio miglioramento, alla crescita e alla possibilità di allargare i propri orizzonti per arrivare poi a comprendere meglio sé stessi, gli altri, il mondo. Ossia le finalità più alte ma anche più autenticamente educative dello studio collegate all’acquisizione di competenze meta-cognitive in cui i saperi servono a rispondere alle domande fondanti dell’essere umano nel senso più ampio e profondo, del tipo Chi sono? Perché esisto? Che faccio nel mondo? Uno studio in grado di orientare a divenire autenticamente persone e non semplici esseri viventi limitati all’appagamento dei bisogni primari, più vicini al regno vegetale e animale che a quello propriamente umano.

Credo che l’esperienza dell’incontro umano con i detenuti che decidono di intraprendere percorsi di studio sia per noi docenti di fondamentale importanza perché di fatto ci costringe a riflettere sul senso che noi diamo al sapere ed all’importanza che esso può rivestire nella formazione della persona umana, anche in condizioni di difficoltà, di privazione della libertà, di revisione talvolta radicale del proprio percorso esistenziale. Lo studio può aiutare innanzitutto, per riprendere le parole di Albinati, a ricercare uno SPAZIO PER SE’, per pensare, per riflettere, per dare voce alla propria umanità specie quando il contesto (e le esperienze pregresse che hanno condotto in carcere) possono contribuire a percepirsi disumani. Mettersi a studiare (ma anche solo riprendere a leggere) può essere un modo per svolgere un’attività diversa, mai esperita prima (nel caso di una pregressa scolarità o di esperienze scolastiche negative) oppure per riprendere studi interrotti o per continuare a imparare e a rivedere i propri apprendimenti (nei casi in cui si abbia un buon livello culturale

137 pregresso). Ma nella maggior parte dei casi , come sostiene la Palazzolo: “è la povertà culturale il reato più punito” perché la povertà culturale è ciò che rende l’essere umano più vulnerabile, più facile preda della criminalità, più seducibile da denaro facile e potere, più incline alla violenza, meno capace di incontro e di mediazione. La povertà culturale espone prima alla devianza e poi punisce due volte nell’espiazione della pena che senza interessi e cura di sé diventa tempo vuoto di esperienze positive e tempo pieno di rabbia, di rancore, di vendetta o di frustrazione e negazione di sé. L’esperienza in carcere può cambiare le persone ma anche in peggio oppure confermarle nel loro percorso deviante. Il sapere è un grande supporto al cambiamento migliorativo per tracciare traiettorie biografiche diverse.

Certo, i saperi proposti dai percorsi universitari dovrebbero avere già un background di conoscenze pregresse e credo sia anche utile che se ne debba percepire l’utilità in ordine ad una successiva spendibilità sociale nella prospettiva di una reintegrazione nella comunità. Ma non solo questo perché altrimenti sarebbero “superflui” per chi non ha prospettive di uscita nel breve termine o per chi non ha proprio tale prospettiva. Non si tratta solo di fornire saperi strumentali o professionalizzanti (di certo sono positivi anche quelli) che sono finalizzati al raggiungimento di una qualifica professionale ma di aiutarli a sentirsi parte attiva del sociale, autentici cittadini dalla parte della legalità.

Si tratta soprattutto di considerare il sapere come strumento del pensiero e della cura di sé, nel senso più ampio del termine e di far comprendere loro che il vero obiettivo dello studio è proprio questo. E’ dunque necessario ascoltare le loro MOTIVAZIONI allo studio che sono diverse per storia personale, per profilo di personalità, per livello culturale di partenza, per prospettiva di vita legata al fine pena. Studiare deve sempre avere obiettivi ultimi che vadano al di là degli aspetti istruttivi in senso stretto e ciò è valido per qualunque studente, di ogni ordine e grado, non solo per gli adulti o per gli studenti detenuti.

Obiettivi fondamentali dei percorsi di studio, oltre la validazione dei saperi, saranno dunque : IMPLEMENTARE LA RIFLESSIVITA’, POTENZIARE LA RESILIENZA, RESTITUIRE IL SENSO DI AUTOEFFICACIA E DI UTILITA’ SOCIALE.

Tutto ciò è funzionale ad instaurare una situazione di benessere personale in grado di sostenere l’impegno, la fatica, la motivazione ma anche il senso di sconfitta e fallimento in caso di risultati negativi, di prolungamento dei tempi previsti, di difficoltà da superare. A livello strettamente cognitivo è importante soprattutto orientare gli apprendimenti a obiettivi caratterizzanti l’educazione in genere ma l’educazione degli adulti nello specifico che nel caso dei detenuti si possono trasformare il traiettorie di DESISTENZA e di affrancamento dalla devianza, quali:

-Acquisire competenza meta-cognitiva (imparare ad imparare) -Essere capace di auto-educazione

-Essere capace di auto-valutazione

- Acquisire capacità di temperanza e controllo emotivo (controllo dell’impulsività, dell’aggressività).

Questi obiettivi non sono disgiunti né disgiungibili. Si tratta infatti di attivare un accompagnamento educativo in senso proprio che nel tempo non dia solo i “frutti immediati” del superamento degli esami e del conseguimento della laurea, ma che inneschi processi di approfondimento personale, suggerisca nuove curiosità ed interessi, apra nuove finestre sul mondo in modo che sia lo stesso “discente” a continuare ed approfondire continuamente ed in modo autonomo i successivi apprendimenti. Il sapere guidato deve essere seguito da un sapere autonomo, auto-costruito, auto-

138 determinato, che di per sé sarà più motivato e motivante, gratificante ed appagante proprio perché ricercato dal soggetto stesso. Tale competenza avrà riflessi molto positivi sulla percezione di sé, sul senso delle proprie azioni, sul ruolo sociale rivestito, sul proprio comportamento ed è quindi un ottimo “alleato” per l’inclusione sociale. Avrà infatti sicuri riflessi sulla relazionalità sia perché il soggetto acquisirà una migliore immagine di sé sia perché il sapere amplifica le relazione, fornisce contenuti di scambio verbale e relazionale che prima potevano essere carenti, poveri, strumentali, legati alla semplice quotidianità. Lo studio, dunque, implementerà a vario titolo le competenze sociali intra ed extra murarie ma soprattutto creerà nuovi collegamenti con il contesto esterno specie quello familiare (testimonianza: “studio per dare ancora qualcosa ai miei figli, anche da qui, anche se ho sbagliato”) ed inoltre li aiuterà a comprendere meglio i mutamenti sociali e culturali così rapidi nella contemporaneità onde evitare quel senso di alienazione e spaesamento tipico di chi è recluso da tempo e fa fatica a ri-orientarsi nel contesto una volta fuori. Lo studio e tutte le attività culturali in carcere non sono un mero intrattenimento per passare il tempo ma un modo per imparare a stare con gli altri e con sé stessi, per migliorarsi, per comprendere meglio il senso del loro comportamento, per trovare in sé stessi delle positività e per rimettersi in gioco, per conferire nuove attribuzioni di significato all’esistenza ma soprattutto per affrancarsi definitivamente dal crimine e per non considerarlo più come mercato del lavoro migliore rispetto alla legalità. Ogni sapere acquisito dovrebbe essere in grado di aprire nuovi scenari, nuove finestre sul mondo, e consentire allo studente-detenuto di aprirsi a nuove dimensioni della possibilità, del cambiamento, della crescita personale e ciò a prescindere che egli abbia una prospettiva di uscita oppure no. Anche chi resterà recluso può divenire migliore e quindi può impegnarsi a evolvere, nonostante un contesto ristretto e talvolta avverso all’evoluzione personale. Appassionarsi alla conoscenza può infatti aiutare le persone a “ritagliarsi uno spazio personale” per crescere, per “vivere in modo meno disumano”, come afferma Albinati.

Ogni sapere acquisito dovrà allora essere funzionale ad acquisire competenze per la vita e soprattutto una maggiore consapevolezza nelle scelte, sia quelle passate , sia ( e soprattutto) quelle future. Scambiarsi idee, concetti, opinioni può divenire davvero un’esperienza possibile che amplifica la socializzazione positiva e fa comprendere che esiste lo scambio, la crescita reciproca e che “l’altro da me” è persona, è risorsa, è arricchimento e non solo complice o nemico. Avere nuove idee, nuovi saperi, nuovi interessi può essere “curativo” (nel senso della cura educativa) anche perché ha riflessi sul comportamento: aiuta a contenere l’ansia, l’aggressività, il dolore, la frustrazione ed il senso di fallimento, la rassegnazione per ritrovare un altro senso all’esistenza. Possedere saperi (e ancor più competenze) aiuta proprio in questo: nel sentirsi meglio con sé stessi e nel considerare gli altri come pari e come persone di valore. Questo credo sia il miglior sub-strato per coltivare legalità e cura di sé. Obiettivi fondamentali di ogni sapere, di ogni società ma, nello specifico, obiettivo fondamentale di persone che pur nella loro condizione di detenuti vogliono dare un senso positivo al tempo di reclusione e desiderano rimettersi in cammino e migliorarsi. In questa prospettiva il periodo detentivo può davvero contribuire a rigenerare l’individuo ed a ri-orientare le sue scelte.

E’ importante, infine, che anche la collettività dia visibilità allo sforzo di cambiamento di chi investe il tempo della reclusione e lo trasforma in tempo per sé, per la propria crescita. E’ dunque necessario non limitarsi a pensare che oltre le mura del carcere vi siano solo detenuti, ma persone che possono, se vogliono e se supportate, essere migliori.

139 Sabato 15 Giugno 2019 ore 10:30-13:30, aula Segni

Sessione III.1 - LO STUDIO UNIVERSITARIO IN CARCERE COME DIRITTO, OCCASIONE DI RISCATTO E OPPORTUNITÀ DI REINSERIMENTO

Relaz. III.1.3. - Riflessioni interdisciplinari su università e

Nel documento Università degli Studi di Sassari (pagine 136-139)

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