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Relaz I.2.2 Marginalità sociale e diritti: come spezzare il circolo dentro-fuori-dentro?

Nel documento Università degli Studi di Sassari (pagine 38-42)

Luca Decembrotto

Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G. M. Bertin”, Università di Bologna luca.decembrotto@unibo.it

Alla base di questo contributo vi è una domanda aperta: come spezzare il circolo detentivo dentro- fuori-dentro simile al movimento delle porte girevoli? In particolare come evitare che specifiche fasce di popolazione entrino ed escano dal carcere, senza trovare un equilibrio (o talvolta risposte sociali) al di fuori degli spazi di privazione della libertà? A ben vedere potremmo anche ribaltare la domanda sui percorsi verso il carcere e interrogarci sul perché “la sanzione dell’esclusione dalla società [corra] il rischio di assumere sempre più marcatamente la fisionomia di strumento di lotta ai poveri e ai marginali” (De Vito, 2017, p. 35). I processi di impoverimento stanno in un qualche modo alimentando questo meccanismo crudele, in una società che fatica ad affrontare tali processi e trova nella criminalizzazione e nella consecutiva privazione della libertà una risposta soddisfacente. Sono le fasce più deboli della popolazione, quelle a rischio di povertà o già povere, quelle che vivono situazioni complesse di emarginazione a essere maggiormente esposte.

I dati pubblicati dal Ministero della Giustizia riportano che al 30/04/2019 erano detenute nelle carceri italiane 60.439 persone, a fronte di 50.511 posti regolari, con una presenza di 20.324 persone di origine straniera, ovvero un terzo del totale (33,6%), in cui sono compresi sia cittadini europei, sia cittadini di stati terzi (non UE). A partire dalle condizioni di vulnerabilità e svantaggio vissute da costoro, posto che tutte le persone private della libertà sono potenzialmente vulnerabili, specie in ambito sanitario (WHO, 2014), è possibile ricavare qualche elemento di riflessione.

Partendo dagli aspetti sanitari, l’ultimo rapporto Prisons and Health dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2014) sostiene che le carceri siano ambienti ad alto rischio di malattie. Generalmente i detenuti provengono da segmenti socialmente svantaggiati della comunità e sono maggiormente esposti a malattie trasmissibili e non trasmissibili rispetto a quanto avviene per popolazione nel suo insieme. I disturbi mentali, le dipendenze (incluso l’alcolismo) e le infezioni (tubercolosi, HIV e altre infezioni virali trasmissibili per via ematica) sono tra i problemi sanitari più gravi. Inoltre, facendo specifico riferimento all’Europa, l’OMS ritiene che le popolazioni detenute stiano diventando sempre più complesse e, pertanto, sia necessario rispondere a determinati loro bisogni speciali (special needs). I gruppi individuati non si limitano più ai soggetti con disturbi mentali, ma includono le persone con disabilità fisiche, le minoranze etniche, gli stranieri, gli anziani, le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender (LGBT).

Riprendendo i dati pubblicati dal Ministero della Giustizia sui titoli di studio è possibile avanzare una riflessione analoga rispetto al livello di istruzione della popolazione detenuta. Nel 31/12/2018 erano detenute 59.655 persone private della libertà e nel 43,9% dei casi non si conosceva il titolo di studio: non sono state registrate informazioni a riguardo di 26.201 persone. Seguono 1.019 e 924 persone analfabete o prive di un titolo di studi (3,3%), 6.601 persone con licenza di scuola

39 elementare (11,1%), 18.978 persone con licenza di scuola media inferiore (31,8%), 5.325 persone con diploma (8,9%) e 607 persone laureate (1%).

I processi di vulnerabilizzazione agenti nei contesti detentivi, che influiscono sulla vita di tutte le persone private della libertà, rendendole potenzialmente vulnerabili, hanno un impatto ancora più evidente sui gruppi richiamati in precedenza o in altri soggetti già vulnerabili al momento dell’incarcerazione, come nel caso delle persone senza dimora. Secondo uno studio americano pubblicato nei primi anni Novanta, in media il 18% della popolazione statunitense senza dimora aveva vissuto un’esperienza di detenzione (Shlay e Rossi, 1992), tali risultati sono stati in seguito confermati da un altro studio americano (Kushel et al., 2005), secondo cui lo stesso dato è stimabile in 23,1%. Quest’ultimo studio fornisce anche il lasso di tempo trascorso mediamente fra una detenzione e l’altra, di circa 6,4 anni, e quantifica il periodo medio di vita passata in carcere in circa 4 anni. A seguire, un’altra ricerca ha sostanzialmente confermato queste percentuali, affermando che quasi il 20% della popolazione senza dimora avrebbe avuto un passato di detenzione (Metraux et al., 2008). In un’indagine esplorativa dell’Università di Bologna, condotta nella sola città di Bologna, in cui vive circa il 2% della popolazione senza dimora in Italia (Istat, 2015), ovvero circa 1.032 persone, il 23,5% di 132 persone senza dimora intervistate nell’inverno 2015/2016 e il 20% di 55 persone senza dimora intervistate nell’inverno 2016/2017 aveva avuto nel passato una o più esperienze detentive.

Questo è solo uno dei tanti fenomeni di marginalità che attraversa il sistema detentivo e, talvolta, ne rimane intrappolato uscendo e rientrando come attraverso porte girevoli. Con buona probabilità è più nota la relazione esistente fra disturbi mentali e rischio di re-incarcerazione, particolarmente evidente quando si parla di disturbi antisociali di personalità, specie nel caso in cui sussistono in aggiunta ai disturbi mentali anche forme di dipendenza da sostanze (Macciò e et al., 2015). Uscire dal carcere e non sapere se si potranno continuare le cure mediche non emergenziali, interrompere un ciclo scolastico, tornare in situazioni di micro criminalità e non avere altra rete sociale di riferimento, vivere una deprivazione abitativa importante, fino al dover tornare a vivere in strada, non saper nulla del mondo del lavoro o avere delle idee del tutto strampalate su come questo debba funzionare, stronca ogni progettualità pedagogicamente e socialmente strutturata.

I tassi di recidiva degli ex detenuti, per quanto gli ultimi dati a disposizione in Italia siano estremamente datati riferendosi al 1998 (Leonardi, 2007), descrivono una propensione maggiore a compiere nuovamente un reato da parte di chi resta recluso all’interno di un carcere per tutto il tempo della pena, rispetto a chi può accedere a una misura alternativa: il 68,5% contro il 19%. È certamente un elemento importante di riflessione sui percorsi verso il carcere, qualora si considerino anche i circoli dentro-fuori-dentro.

Qualcosa del modello detentivo non ha funzionato e continua a non funzionare. Le indicazioni costituzionali alla rieducazione, il reinserimento sociale e le pratiche di inclusione paiono tutte soggiogate alle priorità di prevenzione e di punizione, nonché alla necessità di disciplina. Pare non esserci spazio per esperienze in grado di produrre cambiamento non coercitivo solo nel lungo periodo, richiedendo molto tempo e competenze professionali specifiche. Una risposta possibile, soprattutto di fronte alle gravi disuguaglianze e ai radicati fenomeni di marginalità sociale, è quella di ripartire dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, al di là delle valutazioni sul reato commesso e del suo ravvedimento. Lavorare relazionalmente sul presente e sul futuro, mettendo momentaneamente tra parentesi il passato e sospendendo il giudizio su questo (Bertolini e Caronia, 1993), spezzare le logiche premiali e offrire opportunità indistintamente dalla condotta,

40 impiegare tempo nella pianificazione dell’uscita dal carcere, non lasciandola al caso e alle sole risorse personali, ma strutturando reti con il territorio per pianificare progetti sostenibili e realistici, che incentivino la partecipazione, l’azione e la corresponsabilità della persona all’interno della comunità. In questa cornice, il riconoscimento dei diritti fondamentali e il loro accesso è da considerare come parte del percorso educativo (Decembrotto, 2018a), sia nel far conoscere un diritto fino a quel momento sconosciuto, nel generare esperienze di segno diverso da quelle finora sperimentate e che portino a riconsiderare l’altro, sia nel ripristinare un’equità sociale, culturale ed economica perduta nelle disuguaglianze, attraverso l’accesso allo studio (Decembrotto, 2018b), alla sanità, alla formazione professionale e al lavoro, alla casa, per fare qualche esempio, andando così a ridurre quella complessità che alimenta le porte girevoli del sistema detentivo e, al contempo, ridurre quella distanza tra chi vive in stato di marginalità sociale e ogni altro cittadino. Una risposta possibile, ma ancora incompleta se si considera il mancato accesso ai diritti prima dell’esperienza detentiva, la criminalizzazione dei fenomeni di marginalità a livello sociale, le difficoltà che sussistono nel contenere il ricorso alla violenza, sempre più culturalmente concepita come una risposta possibile. Andrea Canevaro sostiene che “un mondo più giusto non sta nel fermo immagine di un fotogramma”, si potrebbe dire in analogia alla dimensione statica dell’istituzione penitenziaria, ma “il mondo è più giusto se permette ai suoi abitanti di evolvere” (Canevaro, 2015, p. 36-37). La sfida in chiave educativa è pertanto quella di superare questa situazione basata sullo stigma, sul controllo, sulla deresponsabilizzazione, sul tempo pieno di prassi e vuoto di senso, sulla privazione della libertà personale, sull’incapacità di prendersi cura delle ferite e fratture sociali, per tentare di ripristinare la reciproca fiducia e promuovere una maggiore equità sociale.

Bibliografia

Bertolini, P., e Caronia, L. (1993). Ragazzi difficili: pedagogia interpretativa e linee di intervento. Scandicci: La nuova Italia.

Canevaro, A. (2015). Sul rapporto tra educazione e mondo più giusto. In Studium Educationis, 3, pp. 35-48.

Decembrotto, L. (2018a). Educazione, carcere e diritti. In Università e carcere. Il diritto allo studio

tra vincoli e progettualità (pp. 73 - 85), Milano, Guerini.

Decembrotto, L. (2018b). Istruzione e formazione in carcere: università, competenze e processi inclusivi. In LLL, 15, pp. 108-119.

De Vito, R. (2017). Ai margini della pena. Riflessioni su disuguaglianze e diritto penale. In

Questione Giustizia, 2, pp. 35-40.

Istat. (2015). Le persone senza dimora. Anno 2015. 10 dicembre 2015.

Kushel, M.B., Hahn J.A., Evans JL, Bangsberg DR e Moss AR. (2005). Revolving doors: imprisonment among the homeless and marginally housed population. In American Journal of

Public Health, 95(10), pp. 1747-52.

Leonardi, F. (2007). Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva. In Rassegna penitenziaria e criminologica, 2, pp. 7-26.

Macciò, A., Meloni, F.R., Sisti, D., Rocchi, M.B., Petretto, D.R., Masala, C. e Preti, A. (2014). Mental disorders in Italian prisoners: results of the REDiMe study. In Psychiatry Research, 225(3), pp. 522-30.

41 Metraux, S., Roman, C., e Cho, R. (2008). Incarceration and homelessness. In D. Dennis, G. Locke, e J. Khadduri (cur.) Toward Understanding Homelessness: The 2007 National Symposium on

Homelessness Research.

Shlay, A, e Rossi, P. (1992). Social science research and contemporary studies of homelessness. In

Annual Review of Sociology, 18, pp. 129-160.

42 Venerdì 14 Giugno 2019 ore 10:30-13:30, aula Cossiga

Sessione I.2 –RIFLESSIONI SOCIOLOGICHE, PEDAGOGICHE E PSICOLOGICHE SULLA DEVIANZA E SUI PERCORSI VERSO IL CARCERE

Relaz. I.2.3 - Educazione e devianza: sfide possibili scenari

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