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Nel documento La politica culturale dell'Unione Europea (pagine 184-186)

CAPITOLO III. RECENTI SVILUPPI NELLA POLITICA CULTURALE DELL’UE:

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Nell’originario Trattato istitutivo della CEE non vi era alcuna norma che sanciva espressamente azioni per la cultura, tuttavia esso comprendeva due articoli che potevano suggerire l’intervento comunitario nel settore culturale: trattasi degli ex articoli 36 CEE e 131 CEE. La menzione del patrimonio culturale nell’art. 36 CEE lascia intendere che i redattori del trattato originario intuivano la potenziale importanza della cultura, ma il suo carattere eccezionale suggerisce che gli Stati membri immaginavano un intervento marginale della Comunità nell’ambito culturale. È improbabile, difatti, che nell’immediato dopoguerra le ramificazioni culturali dell’integrazione economica potessero essere considerate urgenti o di elevata importanza. Gli Stati della CEE preferirono lasciare gli argomenti riguardanti la cultura alle organizzazioni internazionali, in particolare l’UNESCO e il Consiglio d’Europa.

Nonostante l’assenza di una sostanziale competenza culturale comunitaria, le istituzioni europee si erano trovate a dover affrontare questioni culturali già nelle prime fasi del progetto europeo. I primi interventi avevano visto il disfacimento della distinzione originale tra la sfera economica e quella culturale, cambiamento inevitabile dato il carattere trasversale del settore culturale che si vedeva soggetto ad alcune norme del mercato unico.

La costruzione di uno spazio economico comune mirava a liberalizzare gli scambi tra gli Stati membri, e richiedeva a tali l’abolizione delle misure nazionali che violavano i principi di libera circolazione. La Corte di giustizia doveva, sin dalle prime fasi del processo d’integrazione, valutare la compatibilità delle norme nazionali con i provvedimenti dei trattati, mettendo in discussione le norme progettate per preservare le pratiche e tradizioni indigene e misure aventi effetti restrittivi. Se l’art. 36 CEE permetteva agli Stati di derogare al divieto di restrizioni a importazioni ed esportazioni tra gli Stati membri, per motivi di protezione del patrimonio artistico, storico, o archeologico nazionale, la Corte ha da sempre respinto l’idea di un’eccezione culturale generale, negando un’automatica esclusione dei beni e servizi culturali dall’ambito di applicazione dei trattati. Le sentenze della Corte tendevano a valorizzare l’instaurazione del mercato unico, respingendo sin dall’inizio i tentativi di impedire l’applicazione dei principi di libera circolazione allo scambio e commercio di beni culturali. Nella giurisprudenza che seguì le note sentenze Dasonville e Cassis de Dijon, la Corte stabiliva una serie di motivi, conformi agli obiettivi di interesse generale, che potevano giustificare le misure nazionali applicate indistintamente, restrittive rispetto alla libera

circolazione delle merci. Alcuni obiettivi di interesse generale appartengono alla materia culturale come: la protezione del patrimonio storico ed artistico, la valorizzazione del patrimonio storico e la migliore divulgazione possibile delle conoscenze sul patrimonio artistico culturale, tutela della libertà d’espressione delle diverse componenti sociali, culturali, religiose o filosofiche degli Stati membri (pluralismo culturale nei media), la garanzia di un certo livello qualitativo dei programmi, le misure per la difesa e valorizzazione della lingua nazionale e la promozione della produzione cinematografica.

La ricerca dell’equilibrio tra l’integrazione del mercato e la funzione protettiva delle misure nazionali si è verificata un’impresa estremamente complessa. Molte norme nazionali sono state giudicate come discriminatorie oppure sproporzionate allo scopo perseguito. I provvedimenti degli Stati membri progettati per proteggere gli alimenti tradizionali ed emittenti nazionali hanno subito un trattamento particolarmente sfavorevole, tuttavia la Corte non ha adottato un tale atteggiamento rigoroso in tutte le istanze. Nell’obbligare gli Stati membri a conformarsi ai provvedimenti della libera circolazione, la Corte allo stesso tempo imponeva un’apertura dei loro mercati al cambiamento, promuovendo in questo modo un modello multi-culturale per il mercato unico.

Dagli anni settanta in poi, cresceva la consapevolezza della necessità di avvicinare i cittadini al progetto europeo, al fine di ottenere il consenso per gli obiettivi economici, politici e sociali. Iniziava allora il dibattito sul bisogno di un’integrazione europea e sul contributo positivo che la cultura poteva dare a riguardo. Le istituzioni europee cercavano di rimediare alla mancanza di una norma competenziale culturale attraverso atti di soft law. Vigeva il sentimento secondo cui la politica comunitaria doveva svolgere un ruolo positivo nella vita quotidiana dei cittadini, soprattutto negli ambiti dell’educazione, cultura, informazione e comunicazione. Erano adottati provvedimenti che perseguivano tale scopo, però si preferiva optare ancora per misure altamente simboliche.

In quel momento, la Comunità con le sue istituzioni, si trovava a perseguire un approccio “distintamente paradossale”427:da un lato la Commissione evidenziava i propri limiti dovuti all’assenza nel Trattato di una norma base per l’azione comunitaria nella cultura, dall’altro lato però la cautela espressa dai documenti ufficiali celava il fatti che vedevano la Commissione nel ruolo di promotrice di una serie di misure culturali, e rifletteva la consapevolezza delle istituzioni della problematicità, per alcuni Stati membri, di azioni giustificate da motivazioni culturali.

427

Gli anni ottanta vedono dunque, la Comunità applicare legittimamente le regole della libera circolazione del mercato e la competizione al settore culturale, ma non ancora i tentativi di sviluppo verso una politica culturale europea in senso proprio. Un impulso, dovuto sia al calo di consenso popolare nei confronti del processo europeo che al crescere del valore economico del settore dei beni e servizi culturali, arrivava verso la fine degli anni ottanta. La Commissione si mostrava convinta che un incremento dell’attività comunitaria nel settore culturale era una necessità sia politica sia sociale ed economica nel perseguire il doppio obiettivo di completamento del mercato interno entro il 1992 e del passaggio da un’Europa dei cittadini all’Unione europea. Secondo la Commissione il sentimento d’appartenenza a una cultura europea era uno dei prerequisiti indispensabili per la solidarietà che avrebbe assicurato il consenso necessario al mercato unico – e ai cambiamenti nelle condizioni di vita che questo avrebbe portato una volta avviato. L’unità delle culture europee era ritenuta il fondamento per il processo di costruzione dell’Unione europea, la diversità culturale in quanto espressione locale e regionale del patrimonio culturale comune era posta alla base dell’Unione i cui obiettivi superavano la mera integrazione economica e sociale.

Nel documento La politica culturale dell'Unione Europea (pagine 184-186)