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Il sacramentum a cui il Vegio si riferisce è il giuramento di fedeltà al

Premessa al testo

3. Il sacramentum a cui il Vegio si riferisce è il giuramento di fedeltà al

papa e alla chiesa romana pronunciato dal candidato vescovo la sera del sabato che precede la sua consacrazione. Secondo una consuetudine già altomedievale, tale fase dell’ordinazione vescovile avveniva davanti alla Confessione pietrina, alla presenza di un suddiacono. In questa occasione l’ordinando deponeva nella nicchia della Confessione l’indiculum, ossia una lettera contente una dichiarazione di unione con la chiesa universale. Già a partire dal sec. XII venne destinata alla cerimonia di ordinazione vescovile la rotonda di S. Andrea, accordando al solo pontefice il privilegio di poter essere consacrato sulla tomba di Pietro. Deriva probabilmente dalla difformità del rito tradito dagli Ordines romani e dall’uso invalso ai tempi del Vegio la sua scarsa precisione in questo passo: infatti non solo egli fa riferimento al solo pontefice, ma confonde i due momenti del sacramentum e della deposizione dell’indiculum che, come sembra suggerire l’utilizzo dell’imperfetto appellabant, doveva ai suoi tempi rappresentare una tradizione caduta in disuso. Va sottolineato inoltre che tale fase dell’ordinazione può essere riferita all’eletto pontefice solo nel caso in cui egli non sia ancora vescovo, situazione normale nell’alto Medioevo quando le traslazioni delle sedi vescovili erano vietate, ma sempre più rara a partire dal sec. XI. Si ricordi che lo stesso Tommaso Parentucelli, alla cui consacrazione e incoronazione il Vegio dovette partecipare nella sua qualità di canonico di S. Pietro, fu

4 Sulla polemica valliana scatenatasi con la pubblicazione dell’epistola contra Bartolum si

vedano almeno M. REGOLIOSI, L’Epistola contra Bartolum del Valla, in Filologia Umanistica per Gianvito Resta, a cura di V. FERA-G. FERRAÙ, Padova, Antenore, 1997,

(Medievo e Umanesimo, 95), vol. II pp. 1501-71 e G. ROSSI, Valla e il diritto: l’Epistola contra Bartolum e le Elegantiae. Percorsi di ricerca e proposte interpretative, in Pubblicare il Valla, a cura di M. REGOLIOSI,Firenze, Polistampa, 2008 (Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, Strumenti, 1), pp. 507-599. Sul De verborum significatione del Vegio, tuttora inedito, si veda M. SPERONI, Il primo vocabolario giuridico umanistico: il De verborum significatione di Maffeo Vegio, «Studi Senesi», 88 (1976), pp. 7-43. Per una più ampia e destesa illustrazione delle questioni proposte qui marginalmente mi permetto di rimandare a DELLA SCHIAVA, Alcune vicende.

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consacrato vescovo di Bologna già nel 14445.

4. 6-7 Si tratta dell’iscrizione che fino al sec. XVI si poteva leggere sull’arco trionfale dell’abside, sotto un mosaico rappresentante Costantino in atto di offrire la basilica a Cristo. È da notare come la vetustà dei caratteri sia chiamata in causa come criterio di datazione dell’iscrizione medesima6.

15 L’iscrizione (che, come il Vegio rileva, era solo parzialmente leggibile) incorniciava l’arco absidale e doveva precedere cronologicamente quella dell’arco trionfale7. Secondo l’ipotesi

ricostruttiva avanzata, con le dovute cautele, da Giovan Battista de Rossi e riproposta dal Silvagni e dal Krautheimer, essa doveva apparire al Vegio così: […] CONSTANTINI […] EXPIATA […] HOSTILI INCVRSIONE8. Dell’iscrizione il De rebus antiquis memorabilibus è il più antico testimone.

5. 3-4 Si tratta di Marco Giunio Filippo detto l’Arabo (204-249),

imperatore romano. La notizia di una sua presunta fede cristiana, accreditata già presso i contemporanei, proviene in primis da Eus. Hist. Eccl. VI, 34 e, in modo più velato, da Hist. Eccl. VII, 10, 3. Ancora più asseverativo è Hier. De viris ill. 54: «[…] Philippum imperatorem, qui primus de regibus romanis christianus fuit». Nonostante sia indimostrabile la tesi di un avvicinamento di Filippo al Cristianesimo, la critica più avvertita ha posto l’accento su un suo atteggiamento favorevole ed accondiscendente verso di esso, effetto del lungo periodo di tolleranza religiosa che caratterizzò l’età severiana9. Il Vegio, come si

vede, tende ad attenuare una tradizione che aveva nelle auctoritates

5 Sull’ordinazione episcopale: St. Liturg., IV, pp. 426-446; sulla consacrazione e

incoronazione papale: ibid. 447-452. Si veda inoltre DE BLAAUW, II, pp. 605-611; sul termine indiculum: DU CANGE, s.v. «indiculus vel indiculum». Sull’incoronazione e la consacrazione dei Re Storia Liturgica, IV, pp. 492-499 e DE BLAAUW, II, pp. 611-616

6 ICUR, II/1, p. 345; ICUR-NS, II, n°4092; E. DIEHL, Inscriptiones Latinae Christiane

Veteres, I, Berolini, apud Weidmannos, 1925, n°1752; ALFARANO, p. 29 e n. 3; DE

BLAAUWII, pp. 453-454 e n. 15.

7 ICUR, II/1, pp. 345-346; ICUR-NS II, n°4095; DE BLAAUWII, p. 454. Secondo il

Krautheimer, essa sarebbe da riferirsi alla vittoria di Costantino sui Sarmati del 322-23: R. KRAUTHEIMER, The Building Inscriptions and the Dates of Construction of Old St. Peter's: A Reconsideration, «Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana», 25 (1989), 7-15.

8 «lacuna post ‘expiata’ incerta est»: ICUR, II/1, p. 346; ICUR-NS, II, n°4095; CBCR,

V, p. 177.

9 Si veda in particolare M. SORDI, I rapporti fra il Cristianesimo e l’Impero dai Severi a

Gallieno, in M. SORDI, Impero romano e Cristianesimo. Scritti scelti, Roma, Institutum

COMMENTO

indiscusse di Eusebio e Girolamo dei puntelli piuttosto stabili, rimarcando il fatto che Filippo, pur sempre un «gentile», non contribuì in nessun modo alla gloria del Cristianesimo. Natualmente più che il tentativo storicistico di non avvalorare una tradizione considerata anche solo parzialmente apocrifa, nelle parole del Vegio va letto il bisogno di accentuare l’eccezionalità del contributo di Costantino allo sviluppo del Cristianesimo, la cui pietra miliare era stata posta proprio con l’edificazione della basilica Vaticana.

14-20 La leggenda della guarigione di Costantino dalla lebbra per opera di papa Silvestro e del suo conseguente battesimo è tramandata dalla apocrifa Vita seu actus sancti Silvestri I, V-IX e – attraverso tale tramite – dal Constitutum Constantini, il celebre documento con cui Costantino avrebbe rinunciato alla parte occidentale dell’impero donandola allo stesso pontefice. Non intendo ripercorrere in questa sede genesi e sviluppo del documento. Basti sapere che esso nacque probabilmente in età carolingia e che ebbe fortuna nulla nell’alto Medioevo tanto da non suscitare nemmeno l’interesse di Graziano: fu infatti Pucapalea, canonista bolognese della seconda metà del sec. XII, ad includerlo al

Decretum grazianeo, insieme ad altre abbondanti interpolazioni10.

Al credito di cui durante il Medioevo godeva tale compilazione agiografica, non si accompagnò un atteggiamento di accettazione altrettanto unanime verso la donazione di Costantino sia per ragioni ecclesiologiche (non era pacifico per l’ecclesiologia medievale che il potere temporale del pontefice derivasse in ultima istanza dall’imperatore anzichè da Cristo) sia per le ovvie ripercussioni politiche e le derivanti tensioni tra papato e impero. Dante stesso, in Monarchia III, X 1confuta, con gli strumenti dialettici del suo tempo, la validità della donazione ponendosi forse alla base degli sviluppi successivi e quattrocenteschi del dibattito11.

10 P. DE LEO, Ricerche sui falsi medioevali. I, Il Constitutum Constantini: compilazione

agiografica del sec. VIII. Note e documenti per una nuova lettura, Reggio Calabria, Ed. Riuniti, 1974 (Studi e Documenti, 1). Lo studioso pubblica, in appendice, sia la riproduzione dell’edizione critica del Constitutum Constantini (ed. FUHRMANN, MGH Fontes iuris

Germanici antiqui X, 1968) sia il testo degli Actus Silvestri nell’edizione curata da MOMBRITIUS. Sulle origini e la diffusione del Constitutum è ancora valido D. MAFFEI, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano, Giuffrè, 1964 (e seconda ristampa Giuffrè, 1980) a cui si può affiancare l’efficace status quaestionis di G. ANTONAZZI, Lorenzo Valla e la polemica sulla donazione di Costantino, con testi inediti dei secoli XV-XVII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985 (Uomini e dottrine, 28), pp. 13-47.

11 Raccolgo la suggestione da M. REGOLIOSI, Cristianesimo e potere. A margine di un recente

LIBRO I

Nel sec. XV, infatti, la polemica fu riavviata dapprima da Niccolò Cusano e poi da Lorenzo Valla12. Nella sua celeberrima de falso credita et

ementita Constantini donatione (1440) l’umanista romano dimostra la non autenticità del Constitutum non solo con gli strumenti linguistico-filologici che caratterizzano la seconda parte della dimostrazione, ma ancora prima con quelle modalità retorico-argomentative (exempla, dialogi, comparationes etc.) che costituiscono, nella peculiare logica della declamatio, un nerbo altrettanto robusto13.

Il Valla, comunque, non si limita a confutare il Constitutum, ma liquida in modo lapidario anche il racconto agiografico degli Actus Silvestri. Egli infatti taccia la biografia agiografica di Silvestro di essere un’impudens fabella, modellata su un ipotesto biblico falcilmente intercettabile come il racconto della guarigione dalla lebbra del comandante siro Naaman per mano del profeta Eliseo (II Re 5, 1-27).

At erat levatus a lepra, ideo verisimile est referre gratiam voluisse et maiore mensura reddere quam acceperat. Ita ne? Naaman ille Syrus ab Heliseo curatus munera tantum offerre voluit, non dimidium bonorum: Constantinus dimidium Imperii optulisset.

929 che, come tale, la presenta.

12 Come è noto, lo sfondo della de falso credita è politico: Eugenio IV avanzava il diritto di

elezione del sovrano del Regno di Napoli, considerato patrimonium Sancti Petri da una tradizione che, in ultima istanza, trovava un appoggio giuridico nella pagina privilegii. Il Valla era al servizio di Alfonso d’Aragona che vedeva insidiata dal pontefice – e dal candidato «papale» al Regno Renato d’Angiò – la legittimità del suo potere: VALLE

epistole cit., pp. 176-77; REGOLIOSI, Il papato cit., p. 68.

13 L’edizione di riferimento dell’orazione valliana è ancora LORENZO VALLA, De falso

credita et ementita Constantini donatione, hrsg. von W. SETZ, Weimar, H. Böhlaus

Nachfolger, 1976 (MGH, Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 10). Per le vicende compositive del testo, la sua esegesi e le sue ripercussioni storico-culturali si vedano, oltre al già citato ANTONAZZI, Lorenzo Valla: M. FOIS, Il pensiero cristiano di

Lorenzo Valla nel quadro storico culturale del suo ambiente, Roma Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, 1969, pp. 296-350; V. DE CAPRIO, Retorica e ideologia nella Declamatio di Lorenzo Valla sulla donazione di Costantino, «Paragone - Letteratura», 338 (1978), pp. 36-56; S.I. CAMPOREALE, Lorenzo Valla e il De falso credita donatione. Retorica, libertà ed ecclesiologia nel ‘400, «Memorie domenicane», n.s., 19 (1988), pp. 191- 293; R. FUBINI, Contestazioni quattrocentesche della donazione di Costantino. Niccolò Cusano, Lorenzo Valla, «Medioevo e Rinascimento», 5 (1991). Importanti contributi critici sono venuti da Mariangela REGOLIOSI che in più circostanza ha riportato all’attenzione la validità della dimostrazione «retorica» del Valla nel contesto della legittimazione offerta dalla Retorica di Aristotele: Tradizione contro verità: Cortesi, Sandei, Mansi e l’orazione del Valla sulla «Donazione di Costantino», «Momus» 3-4 (1995), pp. 47-57; Lorenzo Valla (1405- 1457). De falso credita et ementita Constantini donatione, in Hauptwerke der Geschichtsschreibung, hrsg. V. REINHARDT, Stuttgart, Kröner, 1997; Il papato nel De falso credita di Lorenzo Valla, in La papauté à la Reinassance, sous la direction de F. ALAZARD et

COMMENTO

Piget me impudenti fabelle tanquam indubitatae historie respondere, sic enim hec fabula ex historia Naaman et Helisei ut altera draconis ex fabuloso dracone Beli adumbrata est. Sed ut ista concedam, nunquid in hac historia de donatione fit mentio? Minime! Verum de hoc commodius postea (Vall. De don. IV 12,671-13).

E in modo ancora più esplicito:

Ego vero, ut ingenue feram sententiam, gesta Silvestri nego esse apocrypha, quia, ut dixi, Eusebius quidam fertur auctor, sed falsa atque indigna que legantur existimo, cum in aliis tum vero in eo, quod narratur de dracone, de tauro, de lepra, propter quam refutandam tanta repetii. Neque enim, si Naaman leprosus fuit, continuo et Constantinum leprosum fuisse dicemus (Vall. De don. IV, XXIV 79,1521-9).

La squalifica degli Actus Silvestri contenuta nei paragrafi riportati (e raggiunta tramite la lunga dimostrazione dei paragrafi IV, XXIII 73-74) non è, ad ogni modo, la questione centrale della de falso credita: al Valla interessa dimostrare – a prescindere dalla veridicità della «favola impudente» di Costantino e della lebbra – l’impossibilità giuridica, storica e finanche psicologica che la donazione potesse avere avuto luogo.

Ad una decina di anni di distanza, Enea Silvio Piccolomini torna sulla questione, disconoscendo ad un tempo tanto la leggenda degli Actus Silvestri, quanto l’autenticità della donazione14. Ma negli stessi anni, il

Vegio sceglie una linea più morbida.

Egli, infatti, si sottrae alla polemica sulla donazione limitandosi a constatare l’incostistenza della leggenda su Costantino in quanto apocrypha (I 512) e dunque inattendibile, in linea con i presupposti metologici che egli andrà a presentare a breve (cfr. supra I 12)15. La

14 Nel dialogo De sompno edito, col titolo invero piuttosto impreciso di «Tractatus», in

AENEAE SILVII PICCOLOMINI SENENSIS opera inedita, descripsit ex codicibus chisianis

vulgavit notisque illustravit J.CUGNONI, Roma, coi tipi del Salviucci, 1883, pp. 234-99 ed in particolare pp. 257-58. Desumo il titolo del dialogo dalle parole dello stesso Enea Silvio: «incidit in manus meas dialogorum quidam libellus, quem de sompno quodam meo, ficto non vero […] composueram». Come illustra il Cugnoni, il dialogo doveva essere stato scritto in occasione della caduta di Costantinopoli, e da datarsi dunque al 1453 (PICCOLOMINI opera, pp. 5-6).

15 Relego in nota una suggestione. Per il Vegio «apocryphum» vale, come per Girolamo,

Agostino e – aggiungiamo noi – Tertulliano un’opera sine nomine o sub falso nomine (cfr. infra I 12;inoltre si vedaFORCELLINI, Lexicon, s.v. «apocryphum»). Tale è probabilmente il significato che dava al termine anche il Valla che, nel passo già menzionato della sua De falso credita (IV, XXIV 79, 1521-9) dice di non ritenere gli Actus apocrifi,

«quia…Eusebius quidam fertur auctor», ma semplicemente «falsa et indigna» per alcune cose che vi si leggono. Nella versione pubblicata dal Mombrizio l’Eusebius quidam valliano acquisisce un’identità ancora più precisa, assumendo le fattezze di Eusebio di Cesarea (MOMBRITIUS II, p. 508) manifestando l’incertezza – e la mistificazione – della

LIBRO I

questione non è comunque di poco conto: non condividere l’attendibilità degli Actus significava squalificare anche il Constitutum, che veniva destituito di fondamento storico, e il Vegio ne era certo consapevole. Il fatto che egli avesse scelto questo particolare esempio per argomentare nei paragrafi seguenti l’importanza del metodo storico nel vaglio delle fonti lascia ad intendere che l’argomento doveva essere ancora attuale ma non più particolarmente scottante, qualora non servisse a fomentare la polemica sulla legittimità del potere temporale del Pontefice. Ma nell’ottica di un’opera storica sulla basilica Vaticana era anche un modo per sgomberare, sin dall’inizio, il campo da un argomento ormai percepito come insostenibile dalla critica storica quattrocentesca e che avrebbe rischiato di inficiare la credibilità dell’opera.

13-18 Il Vegio attribuisce innanzitutto ai sacerdoti – categoria nella quale si include: nos christiani sacerdotes – le responsabilità della diffusione di tali dicerie, stigmatizzandoli alla stregua di quei grammatici che, non comprendendo più il significato delle parole che leggono, ne inventano di nuove. La critica agli indocti grammatici, inesperti della lingua latina e, di conseguenza, cattivi scrittori si inserisce pienamente nel discorso linguistico su cui gravitano le Elegantie del Valla, rispetto alle quali il Vegio fu certamente permeabile, tanto da elogiarle apertamente in una lettera databile tra il 1442 e il 1443:

Quod si tandem adversandi aliis tanta tibi voluptas est, age me iudice, accinge te in grammaticos, in hos irrue forti manu, in his tibi victoria, in his triumphus ac laus sempiterna; quod fecisti egregie in eo quod nuper publicasti opere Elegantiarum tuarum (…)16.

6-8. Il passaggio è tra i più significativi dell’intero primo libro, poiché

contiene la riflessione sull’operare storico del Vegio. L’humanum genus è tanto restio alla verità – ed in particolare, alla verità suprema della Rivelazione – quanto è facilmente deviabile dalle favole prive di

tradizione in merito alla sua paternità. Data la centralità degli Actus Silvestri in uno dei dibattiti più accesi del Rinascimento come quello della donazione di Costantino, è probabile quindi che si discutesse non solo dei termini della falsità della compilazione agiografica ma, probabilmente, anche della sua paternità. Il fatto che Vegio – al contrario dell’umanista romano – dica l’opera apocrifa può significare che la leggeva anepigrafa o, meglio, priva della lettera prefatoria che raccoglieva il nome dell’autore. Per il problema dell’attribuzione: DUCHESNE, Le Liber, pp. CIX-CXII; ANTONAZZI, Lorenzo Valla, p. 92.

16 L. BAROZZI -SABBADINI, Studi sul Panormita e sul Valla, Firenze, Le Monnier, 1891, p.

COMMENTO

fondamento. Da esse tuttavia bisogna guardarsi con discernimento, dato che per la loro insidia sono comparabili a quelle stesse eresie contro le quali in varie opere si sono scagliati Girolamo e Agostino. Di conseguenza nel suo ruolo di storico, il Vegio si ripromette di non riportare alcuna notizia che prima non sia attentamente vagliata, con particolare attenzione alla diligenza, alla fedeltà, alla dottrina e all’autorità delle fonti.

Vegio lamenta l’estrema difficoltà nel convincere chi oppone resistenza alla rivelazione cristiana attraverso le parole autorevolissime degli antichi dotti e dei santi scrittori, eppure lo hominum genus si lascia molto più facilmente guidare dalle vane ed insulse «favole per vecchierelle» (non sfugga il topos letterario) inventate da un giorno all’altro da gente sciocca ed ignorante.

Ogni facultas, continua il Vegio, ha infatti i suoi professores che in essa sono versati («esperti») e probati («dalla provata autorevolezza»). Solo ai teologi compete la teologia, solo ai filosofi la filosofia e così via per i dialettici e i giurisperiti, in una sistematizzazione del sapere per scomparti stagni che non ammette sconfinamenti tra un ambito della scienza e un altro17. Solo alla storia e alla medicina non viene riservato lo stesso

doveroso e rispettoso trattamento, consentendo anzi a imperitissimi e vilissimi uomini di arogarsi su di esse diritti inammissibili, dando luogo a quotidiane usurpationes. Al di là della rivendicazione «professionale», è interessante notare come il Vegio allinei la storia accanto alle discipline canoniche del sistema scolastico medievale (teologia e giurisprudenza in primis) e alle bonae artes, certamente quelle del trivio e del quadrivio sulle quali non si sofferma esplicitamente, fatta salva la fugace menzione della

17 Ho già messo in relazione tale atteggiamento tradizionalista del Vegio con le

rivendicazioni di libertà intellettuale di Lorenzo Valla. In una lettera datata Pavia, 26 agosto 1434, il Vegio tenta di dissuadere il Valla dall’intraprendere la composizione della sua Dialectica ricordandogli la «magna veneratio» che si deve a quella disciplina «iudicio omnium probata». Anni dopo, in una lettera databile tra il 1442 e il 1443, il Vegio scrive di nuovo al Valla per tentare di ricomporre un dissidio sorto tra questi e Antonio da Rho e coglie l’occasione per rinnovare le sue perplessità sull’opera critica che il Valla esercita su discipline quali la filosofia, la dialettica e la teologia «confirmata probataque ab omnibus», quando ben più proficuo sarebbe esercitare il suo ingegno laddove egli si può davvero esprimere con autorevolezza, ossia nella grammatica. Per le lettere menzionate (in ordine di citazione): O. BESOMI-M.REGOLIOSI, Laurentii Valle epistole addendum, in Lorenzo Valla e l’Umanesimo italiano. Atti del Convegno internazionale di studi umanistici (Parma, 18-19 ottobre 1984), a cura di O. BESOMI e M. REGOLIOSI, Padova, Antenore, 1986 (Medioevo e Umanesimo, 59), pp. 87-8; LAURENTII VALLE

epistole, ediderunt O. BESOMI - M. REGOLIOSI, Padova, Antenore, 1984, (Thesaurus Mundi, 24) p. 238. Ho affrontato la questione in modo più disteso in DELLA SCHIAVA,

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dialettica. La storia, al pari della medicina, è una facultas che richiede autorevoli ed esperti magistri e nella quale, come in tutte le facultates, non si è esenti da errori: tanto più quando la si affronta senza gli strumenti opportuni (81-3). Va da sé, dunque, la necessità di formulare un preciso

prontuario operativo dello storico che consenta di capire non solo quali siano i metodi a cui egli deve affidarsi ma anche quale debba essere il suo atteggiamento culturale e morale nei confronti dello «scrivere storia» (I 9- 10): la storia, infatti, è come la medicina una scienza per la conservazione della humana vita ma, a differenza della medicina, è votata ad una conservazione eterna e imperitura: ciò ne rende massima l’utilitas (il concetto è sottointeso, ma non esplicitamente articolato) e rende necessari dei professores che siano docti e boni allo stesso tempo (I 91-2).

La storiografia contemporanea aveva proceduto ad una classificazione della storia attraverso la canonica «disputa delle arti»: Lapo da Castiglionchio, in una celebre lettera a Biondo Flavio del 143718, ne

valorizzò l’universalità contro la settorialità della filolosofia e delle arti del trivio e del quadrivio e analogamente il Valla dei Gesta Ferdinandi regis ne rivendicò la pari dignità con la filosofia e la poesia, sostenendo come la storia «versatur circa universalia»19. Il Vegio non mette in opposizione

la storia alle altre discipline, evitanto dunque la disputatio, ma ne lascia bene intendere la portata universale (al modo, dunque, di Lapo da Castiglionchio), avvertendo del pericolo sotteso ad un uso spregiudicato o, meglio, dilettantistico e opportunista delle res historicae. In quanto disciplina per l’humanum genus, dunque, l’esercizio della storia non è precluso ai teologi o ai giurisperiti, purchè essi si comportino, quando ne trattano, da storici e non applichino gli strumenti operativi della loro