The “Scuola senza zaino” approach at a glance
6. Una scuola collaborativa
Il movimento Senza Zaino, in conclusio-ne, si è occupato di superare il modello della scatola nera per dare quella trasparenza quo-tidiana all’aula che genera condivisione tra i docenti. Il fine è la realizzazione di una comu-nità dove ha luogo un continuo interscambio e dove le rigidità tra le discipline di studio e le chiusure possano venire meno, mentre le idee e pratiche fluiscono agevolmente.
La prassi degli istituti scolastici improntata all’enfasi sulla rendicontazione esterna (piani, obiettivi, mete, valutazioni, autovalutazioni di istituto, analisi, interpretazioni) di per sé non è negativa o sbagliata. Il punto è che da una parte erode una mole consistente di risorse in termini di tempo, sottraendole al lavoro
d’au-la. In questo senso la focalizzazione finisce – inevitabilmente – per cadere su ciò che sta a monte e a valle. In secondo luogo la ren-dicontazione esterna tende ad enfatizzare i controlli, piuttosto che fornire aiuti, fa leva sulla motivazione estrinseca piuttosto che su quel-la intrinseca, non si occupa dello scambio tra pari e consolida il modello del professionista autosufficiente guidato dall’alto. Il movimento Senza Zaino, di contro ha posto la necessità di recuperare ciò che sta nel mezzo, vale a dire la didattica e le pratiche, ciò che abbiamo indicato con il come.
Gruenert e Whitaker individuano vari modelli culturali presenti nelle scuole. Uno di questi, quello definito dalla cultura della frammentazione, appare tipico di molti con-testi tradizionali e vede i docenti familiarizza-re ed essefamiliarizza-re amichevoli nelle situazioni infor-mali, durante le pause, nella sala insegnanti, a mensa. Questo modello fa propendere verso la convinzione che l’unico obiettivo di condivisione sia evitare i conflitti e le asprez-ze, al fine di mantenere un clima amichevole.
“Una scuola con una cultura frammentata può non far percepire il senso che le cose vadano male. Gli insegnanti sono amichevoli tra di loro nei corridoi e negli atri; qualcuno può perfino consumare il pranzo insieme. Il problema di questo tipo di cultura è la man-canza di interazione professionale tra i do-centi, specialmente per quanto riguarda le migliori pratiche e gli apprendimenti degli studenti” (Gruenert e Whitaker, 2015, p. 57).
L’amichevolezza e la vicinanza sembra servi-re per nascondeservi-re quello che accade in aula:
il manovratore non deve essere disturbato, meglio non interessarsi dei problemi pro-fessionali altrui nel nome di una pace fittizia.
Di contro i medesimi autori ci fanno capire che esiste anche un modello collaborativo.
“Il termine cultura collaborativa sta a signifi-care tutte le cose buone che una scuola do-vrebbe fare. Aiuto, supporto, fiducia, aper-tura, riflessione collettiva, efficacia collettiva sono al cuore di una cultura collaborativa”.
E “Sebbene le persone possono non anda-re d’accordo, esse si aiutano sempanda-re l’una con l’altra quando arrivano i momenti critici”
(pp. 51-52). Il conflitto non viene nascosto ma affrontato con coraggio e questo aiuta nello sviluppo di rapporti professionali a livel-lo orizzontale.
In conclusione la cultura collaborativa, da auspicare sulla base di quanto finora detto, germoglia in un’organizzazione capace di sti-molare e valorizzare l’incontro tra suoi
mem-bri, in grado di sostenere il lavoro tra pari e di sollecitare la condivisione del lavoro d’aula e l’aiuto reciproco. In una parola parliamo di un’organizzazione che dà spazio alla rendi-contazione interna fondata sulla motivazione intrinseca, sull’appassionamento al lavoro didattico. La scuola dovrebbe assomigliare a una comunità aperta fondata sull’esigenza di rendere attraente, vario e coinvolgente il processo di insegnamento – apprendimen-to, cosicché possa diventare una organizza-zione di talenti che spinge e attira.
RICERCAZIONE - Vol. 10, n. 1 - June 2018 | 193
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Laura Carlotta Foschi [pp. 195-216]
Università degli Studi di Padova Graziano Cecchinato
Università degli Studi di Padova