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Uno sguardo al passato: la nascita di uno Stato e di un mercato

L’Unità d’Italia, oltre ad essere stato un evento decisivo dal punto di vista politico e culturale, costituì una svolta anche in senso editoriale. Impegnati da molti decenni nella battaglia per la diffusione e circolazione del libro, gli addetti all’industria della stampa – editori, scrittori, librai, giornalisti – si erano convertiti in ardentissimi sostenitori della causa dell’unificazione, nella speranza che alla creazione di uno Stato ne conseguisse l’istituzione di un mercato nazionale.

Fallito il tentativo di estendere una Convenzione39 che garantisse sia la libera circolazione dei libri nel suolo nazionale sia la tutela dei diritti d’autore sulle opere d’ingegno, fallita l’idea di istituire in Italia una Fiera libraria sul modello di quella tedesca di Lipsia e, in ultimo, fallito anche l’Emporio Librario – porto franco della penisola e centro di scambi commerciali fra tutti gli Stati italiani fortemente voluto dall’editore Pomba – con sede a Livorno, tutti finirono per concordare con la posizione di Giampietro Vieusseux: solo un mutamento politico poteva portare ad un completo abbattimento delle barriere daziarie fra gli Stati italiani e dunque creare le condizioni per un rinnovamento del commercio librario40.

Il neonato Stato italiano estese subito, con il decreto luogotenenziale del 17 febbraio del 1861, le leggi sabaude in materia di diritti d’autore alle province meridionali del regno. Fu il primo vero passo verso la costituzione di un mercato

39 Si fa riferimento alla Convenzione austro-sarda a favore della proprietà e contro la contraffazione delle opere scientifiche, letterarie ed artistiche, denominata più brevemente come Convenzione sulla proprietà letteraria, firmata il 22 maggio 1840. Questa doveva, da un lato, tutelare i diritti d’autore e,

dall’altro, proibire la circolazione di ristampe pirata sulle quali aveva prosperato il mercato librario del Mezzogiorno in generale e Napoli in particolare. Accettato da tutti gli Stati italiani, il provvedimento venne vanificato dalla non adesione dello Stato borbonico. Si veda: Maria Iolanda Palazzolo, La

nascita del diritto d’autore in Italia. Concetti, interessi, controversie giudiziarie (1840-1941), Viella,

Roma, 2013, in particolare le pagine 13-37.

40 Per un approfondimento delle questioni qui solo vagamente accennate si rimanda a: Maria Iolanda

Palazzolo, I tre occhi dell’editore, cit.; G. Pomba, G.P. Vieusseux, C. Tenca, Scritti sul commercio

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nazionale, ma la strada era ancora lunga; l’itinerario che porterà alla tutela della proprietà delle opere d’ingegno sarà molto accidentato e si prolungherà ben oltre la promulgazione della legge unitaria del 186541.

La legge Scajola modificava la Convenzione austro-sarda nell’aspetto riguardante la durata del diritto d’autore e affermava che questa dovesse essere determinata in modo assoluto, ritenendo che il diritto si dovesse, dunque, complessivamente esercitare per ottant’anni dalla prima pubblicazione, di cui quaranta come diritto esclusivo dell’autore e quaranta come compenso obbligatorio agli eredi42. Il provvedimento non mancò di suscitare asprissime polemiche proprio fra quei soggetti che si proponeva di tutelare; gli autori infatti si videro improvvisamente sottrarre, sulla base di arbitrarie statistiche sulle speranze di vita, la possibilità di lucrare sulle opere scritte e pubblicate in gioventù.

Nonostante i molti difetti, la legge, modificata nel 1875 e nel 1882, rimase in vigore, nella sua ultima versione, quella del Testo Unico del 1882, fino all’avvento del Fascismo. Tra i suoi più evidenti limiti vi erano, da una parte la visione esclusivamente patrimoniale del diritto d’autore, in base alla quale non si non riconosceva alcun diritto morale sulla creazione che ne tutelasse l’intangibilità, completa o parziale, anche da parte dell’editore, dall’altra il vuoto legislativo intorno al contratto di edizione43

. Questo garantiva la legittimità di passaggio dei diritti dall’autore all’editore al momento della consegna del manoscritto che in mancanza di un disciplinamento giuridico, come nel caso italiano, era affidato alla consuetudine44.

Appare manifesto, anche da questa rapida analisi, che il provvedimento non era sufficientemente orientato alla tutela degli autori, anzi, lasciando ai margini aspetti complessi, come l’intangibilità dell’opera autoriale e la regolamentazione dei rapporti editoriali, si contribuì alle burrascose relazioni fra autori ed editori, spesso segnate da forti sfiducie e frequenti rivendicazioni, che sfoceranno apertamente durante la crisi di fine secolo.

41 Per approfondire la formazione del concetto di diritto d’autore e copyright si rimanda a Umberto Izzo, Alle origini del copyright e del diritto d’autore, Carocci, Roma, 2010. In questa sede si concederà

spazio solo all’evoluzione legislativa del diritto d’autore in Italia relativamente al periodo preso in esame.

42 Cfr. Maria Iolanda Palazzolo, La nascita del diritto d’autore in Italia. Concetti, interessi, controversie giudiziarie (1840-1941), cit., p. 53.

43 Sia il diritto morale sia la disciplina dei contratti di edizione furono introdotti nella nuova legge sui

diritti d’autore proclamata nell’epoca fascista (Cfr. Ivi, pp. 143-160).

44 Cfr. Cosimo Cherubini, L’azienda editrice, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino, 1922, pp.

31 Altro grande ostacolo allo sviluppo dell’industria editoriale era costituito dall’analfabetismo. Al momento dell’Unità la percentuale di persone che conosceva l’italiano si aggirava intorno al 2,5; ciò significa che la lingua nazionale non veniva parlata almeno dal 90 per cento della popolazione45. Il livello di analfabetismo in tutta la penisola era del 74,7 per cento, con punte regionali più drammatiche registrate nel Sud, una fra tutte, la più alta, il 90 per cento della Sardegna.

Dopo l’Unità l’aumento di alfabetizzazione fu sensibile solo in determinate fasce di età corrispondenti a quelle d’età scolare, complice i provvedimenti politici come la Legge Casati prima, che estese a tutta la Nazione il principio dell’istruzione elementare obbligatoria e la legge Daneo-Credaro poi, che centralizzò il controllo delle scuole elementari escludendo i comuni46.

Bisogna comunque tener conto che, sebbene l’istruzione elementare fosse obbligatoria sulla carta, venne disattesa da oltre il 50 per cento della popolazione e solo lo 0,8 per cento dei giovani tra gli 11 e i 18 anni frequentava la scuola media. Con il passare degli anni la situazione migliorò e l’analfabetismo calò progressivamente nel periodo giolittiano, passando dal 48,5 per cento dei primi anni del Novecento al 27,4 per cento del 192147.

In generale si constata che i livelli non erano omogenei in tutta la nazione, vi era un divario tra nord e sud che tendenzialmente peggiorò dopo l’unificazione, poiché il settentrione ridusse le sue percentuali più rapidamente48. Inoltre, notevoli discrepanze vi erano tra città e campagna, tra grandi agglomerati e piccoli centri urbani e infine tra uomini e donne49.

Le diseguaglianze spaziali registrate per l’analfabetismo si ripresentano anche nell’analisi della geografia editoriale italiana. La produzione libraria non aveva mai conosciuto, neppure nella sua fase artigianale, una diffusione capillare. Il vecchio sistema di stampa si basava su un unico grande centro, Venezia che, da Gutenberg fino

45 Cfr. Tullio de Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 430. 46

Ivi, p. 26-28.

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Si rimanda per maggiori dettagli a Marco Santoro, Storia del libro italiano. Libro e società dal

Quattrocento al nuovo millennio, cit., p. 336.

48 «Tra il 1861 e il 1911 (l’analfabetismo) calò dell’80% in Piemonte, del 76% in Lombardia, del 58% in

Emilia Romagna, del 39% nelle Marche, del 35% in Sicilia, del 24% in Basilicata e del 18% in Calabria» (Cfr. David Forgags, L’industrializzazione della cultura italiana, cit., p. 25).

49 Per il nesso fra analfabetismo, politiche scolastiche e sviluppo culturale si veda Simonetta Soldani e

Gabriele Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. I, Il Mulino, Bologna, 1993.

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alla fine del Settecento, teneva le redini di tutta la produzione. Già al tramonto del XVIII secolo, figure illuminate come Alessandro Pepoli e Antonio Fortunato Stella inaugurarono un costume editoriale che avrebbe avuto successo nei decenni successivi, quando la palma dell’editoria sarebbe passata a Milano. Seguendo l’esempio francese, si sperimentarono le prime “biblioteche”, collane a uscita periodica di carattere letterario o teatrale, a prezzi contenuti e in vesti editoriali originali. Questi primi tentativi di rinnovamento furono però interrotti da rivoluzioni e guerre che in pochi anni ridefinirono la geografia editoriale italiana50.

A partire dagli anni napoleonici il centro dell’editoria divenne Milano. Nel capoluogo meneghino si concentrarono una folla di uomini validi: la colta e numerosissima burocrazia napoleonica smobilitata, che si riversò nell’industria della carta stampata51.

Nell’Ottocento lo sviluppo editoriale tende a concentrarsi nel Centro Nord del paese, accanto a Milano si segnalano Torino, Firenze e Roma. Il meridione, svantaggiato dalla legge sui diritti d’autore, che aveva fatto cadere gli steccati protezionistici innalzati dai Borboni, fu colto impreparato di fronte all’irruente e agguerrita aggressività delle imprese settentrionali. L’unica eccezione è rappresentata da Napoli. Per tutto l’Ottocento la città è seconda solo alla capitale meneghina per numero di titoli pubblicati52. Soltanto nell’ultimo ventennio del XIX secolo un certo sviluppo iniziò ad interessare alcune zone del Sud, la Campania e la Sicilia in particolare, dove editori quali Sandron e Giannotta aprirono la strada alla rifioritura dell’editoria meridionale del Novecento53.

Ad alterare parzialmente il quadro descritto sarà il ruolo giocato dall’alternarsi delle “capitali”: Torino conosce un brusco incremento produttivo interrotto dallo spostamento della capitale a Firenze che, notevolmente cresciuta sotto il profilo editoriale, raggiunge il consolidamento della sue ambizioni imprenditoriali proprio nel momento in cui è

50 Mario Infelise, “La nuova figura dell’editore”, in Gabriele Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., pp. 57-58.

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Su Milano e il modo in cui costruì la sua supremazia editoriale si veda Mario Berengo, Intellettuali e

librai nella Milano della Restaurazione, Einaudi, Torino, 1980.

52 Le cose cambiano se anzi che guardare alla produzione si prende come parametro di riferimento il

numero di “marchi editoriali” i quali comprendono gli editori, i tipografi tradizionali, i librai, i cartolai e gli autori editori presenti sul territorio. Sotto questo profilo Napoli è addirittura in posizione di vantaggio rispetto a Milano. Erminia Irace, “L’editoria ottocentesca”, in Sergio Luzzato e Gabriele Pedullà (a cura di), Atlante della letteratura italiana, cit., pp. 204-207.

53 Ada Gigli Marchetti, “Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale”, in Gabriele Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., pp. 156-159.

33 capitale del Regno. Infine Roma che aveva mantenuto pressoché invariata per mezzo secolo la sua produzione, la vede d’improvviso, a partire al 1870, incrementare a tal punto da renderla seconda città editoriale italiana facendo retrocedere il colosso napoletano. Anche Napoli, in un certo senso aveva goduto, per stabilire il suo primato editoriale, di quello che Maurizio Borghi definisce l’«effetto capitale»: fino al 1860 la città partenopea è la capitale dello stato più esteso e popoloso della penisola; la sua tipografia opera al riparo delle leggi protezionistiche, all’interno di un mercato chiuso alla concorrenza nazionale54.

L’aumento di produzione nelle capitali è dato dalla cresciuta richiesta di pubblicazioni amministrative e burocratiche che l’istituzione di una capitale comporta, ma – come sottolinea lo stesso Borghi recuperando la tesi di Mario Berengo – una ragione non trascurabile potrebbe essere anche legata al fatto che i funzionari della pubblica amministrazione, trasferitisi nelle capitali, costituiscono allo stesso tempo il ceto di provenienza non solo dei lettori, ma anche degli scrittori che si affacciano sul mercato editoriale55.

Esente dall’effetto capitale e regina indiscussa della crescita editoriale, Milano fu la città che registrò nel periodo post-unitario il maggior incremento tipografico-editoriale del paese che le fece guadagnare a buon diritto l’appellativo di “Lipsia italiana”, con riferimento alla città tedesca considerata il maggior centro del libro in Europa56. Il primato gli venne non solo dalla produzione libraria, ma anche e forse soprattutto da quella giornalistica, meno incline a periodiche fasi di crisi produttiva. L’incremento delle testate milanesi fu ben superiore alla media nazionale; se la Nazione si attestava su una percentuale pari a 100, Milano raggiunse il 400 per cento passando dai 19 periodici pubblicati nel 1836 ai 137 del 187357.

La connessione tra editoria libraria e stampa giornalistica è una delle caratteristiche dell’evoluzione editoriale ottocentesca. Nel periodo preunitario la stampa funzionava ancora come un canale di aggiornamento dell’intellettualità, ma dagli anni ’60, l’aumento delle tirature, l’espansione nel numero dei titoli accentuarono la centralità del

54 Cfr. Maurizio Borghi, La manifattura del pensiero. Diritti d’autore e mercato delle lettere in Italia (1801-1865), Franco Angeli, Milano, 2003, p. 104.

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Ivi, p. 105.

56 Si veda Ada Gigli Marchetti, “Introduzione. Milano, Lipsia d’Italia”, in Patrizia Caccia (a cura di), Editoria a Milano (1900-1945), Franco Angeli, Milano, 2013, p.11.

57 Cfr. Ead., “Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale”, in Gabriele Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., p. 118.

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sistema informativo sulla cultura58. La nuova posizione di dominio della stampa periodica coincise con l’espansione dei generi di consumo e con il predominio del pubblico urbano rispetto a quello intellettuale: il messaggio letterario verrà sempre più fruito nel contesto e nello sfondo del sistema informativo59.

Negli anni ’70 il processo di alleanza tra informazione ed editoria può dirsi concluso: si costituì un potente sistema integrato che rese possibile «la trasmigrazione dei generi dal circuito librario a quello giornalistico e viceversa»60, permettendo agli editori di giocare su due tavoli, fino alla sovrapposizione dei due sistemi, godendo così di una maggior presa sul mercato che garantì loro un più longevo successo.

L’invasione di campo della letteratura nel giornalismo con il successivo reintegro dei prodotti letterario-giornalistici in volumi potenziò il rapporto fra testo letterario e contesto e impresse alla letteratura una spinta consumistica che le era estranea in passato. Gli autori più aperti alla moderna fruizione letteraria e meglio integrati nel sistema lessero il fenomeno in termini positivi, salutando con esso l’avvio di una nuova e promettente stagione letteraria, non solo in Italia, ma a livello europeo.

Esemplari le parole di D’Annunzio, il letterato italiano che forse più velocemente capì il processo di industrializzazione in atto:

L’Europa è inondata di quella letteratura che si suol chiamare amena […]. Il commercio della prosa narrativa non era mai giunto a tal grado di attività. L’appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto ad un così rapido consumo di alimenti letterari. Gli stessi giornali politici quotidiani, i quali appunto si rivolgono alla grande maggioranza, debbono quasi sempre l’aumento o la diminuzione della loro fortuna alla qualità dei romanzi pubblicati nelle loro appendici che di giorno in giorno divengono più larghe o più numerose; mentre i librai si affannano a saccheggiare quanti più libri di novelle romantiche e naturalistiche sono comparsi in Francia negli ultimi anni, a stampare quanti bozzetti trovano nelle ingiallite collezioni di quegli innumerevoli giornalucoli che sostenevano le logomachie tra veristi e gli idealisti del tempo remoto, a rinfrescar perfino qualche fungo dissecato dell’antica fungaia sommarughiana. Avendo notato il fenomeno volgare, ne traggo per conseguenza che la letteratura contro ogni profezia funebre è destinata nel prossimo avvenire a uno straordinario sviluppo […]61

.

58 Giovanni Ragone precisa che dal 1846 al 1872 i titoli a stampa erano aumentati del 363 per cento,

mentre i periodici aumentarono del 579 (cfr. Id., Un secolo di libri, cit., p. 28).

59 Ibidem.

60 Cfr. Id., “La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’editoria italiana (1845 –

1925)”, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Produzione e consumo, cit., p. 716.

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