Condizione tradizionalmente essenziale per poter usufruire della tutela in esame è che il rischio incorso sia individuale, e quindi riconducibile ad una data situazione personale del soggetto che ricorre davanti alla Corte. In realtà si vedrà in seguito come vi siano delle situazioni nelle quali la Corte ha, piuttosto recentemente, ritenuto di poter concedere la protezione dal refoulement indipendentemente da qualsiasi indagine sulla personalità del rischio.
Nonostante la tutela riconosciuta dall’articlo 3 della Convenzione sia dotata di una propria autonomia ed estensione rispetto a quella fornita a coloro ai quali è attribuito lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra, non si può negare che, in relazione alla situazione personale del ricorrente che consente di ritenere esistente un rischio reale di subire tortura o trattamenti inumani o degradanti, la circostanza che il soggetto abbia un coinvolgimento politico o religioso assume un ruolo primario
anche nella maggior parte dei casi portati davanti alla Corte di Strasburgo.67
Essere un noto esponente dell’opposizione al governo del proprio paese d’origine rappresenta sicuramente l’ipotesi in cui risulta più facile ritenere esistente un rischio individuale.
Si può infatti affermare che tanto maggiore è il ruolo di oppositore svolto dal ricorrente quanto minori saranno le prove da dover fornire per poter ottenere il riconoscimento della tutela; tra l’altro la Corte, come sappiamo, ha stabilito che tendenzialmente la pericolosità del soggetto, la quale evidentemente sarà valutata in base alla condotta tenuta precedentemente, non può essere invocata per escludere il divieto di espulsione stante la natura assoluta dell’articolo 3.
Più tortuoso sarà invero il percorso da affrontare per chi abbia svolto un’attività d’opposizione meno rilevante o comunque sia qualificabile come membro secondario del movimento di appartenenza.
Sotto questo aspetto tuttavia gli organi di Strasburgo, riconoscendo la difficoltà di fornire prove di un’attività spesso svolta, per evidenti motivi, in clandestinità, hanno ritenuto sufficienti, indizi o principi di prova.
Si può rilevare comunque che è proprio su tale terreno della dimostrazione della propria situazione personale che molte delle richieste di tutela trovano un ostacolo alla loro soddisfazione.
Non si deve ritenere però che solo l’attivismo politico o religioso consenta di invocare la protezione dal refoulement ex articolo 3, possono assumere
67 Chetail V. “Le droit des réfugiés à l’épreuve des droits de l’homme: bilan de la jurisprudence de la Cour europénne des droits de l’homme sur l’interdiction du renvoi des étrangers menacés de torture et de traitements inhumains ed dégradants”, cit., p. 190
e ss. e Karagiannis S. “Expulsion des étrangers et mauvais traitements imputables à l’état
rilevanza infatti anche ulteriori situazioni personali purchè ovviamente siano tali da far sorgere un rischio reale di subire un trattamento lesivo. Ad esempio la Corte nella sentenza Jabari contro Turchia del 200068 ha
riconosciuto l’illegittimità dell’espulsione di una donna iraniana che rischiava di essere sottoposta alla lapidazione per aver commesso adulterio.
Soprattutto in tali circostanze del tutto personali, ma comunque non esclusiavamente, assume un ruolo centrale nella decisione della Corte la valutazione attinente alla credibilità del ricorrente.
Su questo punto la Corte e la Commissione hanno, almeno in principio, dimostrato di non essere particolarmemente esigenti affermando rispettivamente di tenere in considerazione “la sfiducia dei richiedenti
asilo nei confronti delle autorità e della difficoltà di confermare la loro versione tramite documenti” e che “una completa precisione non può essere richiesta da parte di vittime di torture.”
Dall’analisi della giurisprudenza emerge tuttavia la rilevanza in concreto data a tale requisito della credibilità.
Non rare sono infatti le sentenze nelle quali la Corte ha rifiutato di ammettere l’integrazione della violazione in ragione del silenzio del ricorrente o della contraddittorietà delle sue dichiarazioni, si può fare riferimento alla sentenza Cruz Varas contro Svezia o nella casistica più recente alla sentenza K.A.B. contro Svezia.69
68 Ricorso n°40035/98.
69 Ricorso n°886/11. In questa recente sentenza, riguardante l’espulsione da parte della
Svezia di un richiedente asilo somalo, la Corte ha dichiarato di condividere la posizione delle autorità svedesi nel ritenere sussistenti problemi di credibilità rispetto ad una serie
Un elemento poi dal quale sembra si possa correttamente valutare la credibilità, quando il ricorrente fa valere il proprio coinvolgimento politico, è dato dall’apporto di motivazioni adeguate da parte del soggetto, riguardo l’attività da lui svolta o i fini della stessa, mentre invece non si richiede necessariamente che egli venga riconosciuto da parte del movimento al quale pretende di appartenere.
Ulteriori circostanze impeditive, sempre incidenti sulla credibilità, sono state individuate ad esempio nella negligenza dimostrata nella procedura necessaria per ottenere lo status di rifugiato: in tali casi emerge la preoccupazione dei giudici di Strasburgo di evitare che il ricorso davanti ad essi venga interpretato come una forma d’appello nei confronti delle decisioni nazionali relative alla protezione dei rifugiati.70
Al di là della questione relativa alla credibilità del soggetto, si deve rilevare come un altro dei motivi talvolta allegati, sempre nell’ambito della ricostruzione della situazione personale del ricorrente, attenga alla pubblicità del ricorso in ragione delle conseguenze che da essa possano derivare.
Si sostiene infatti che, alla luce dell’instaurazione della procedura davanti la Corte, il pericolo incorso nello Stato di destinazione diventi ancora più concreto.
70 Ulteriori interazioni tra la tutela garantita dalla qualifica di rifugiato e quella derivante
dall’articolo 3 della Convenzione hanno portato a risultati discutibili: in alcuni casi la Corte è arrivata a dichiarare l’irricevibilità dei ricorsi in ragione del fatto che non fosse stata presentata la domanda per ottenere lo status di rifugiato o addirittura si è ritenuto che non fosse stata integrata la violazione dell’articolo 3 proprio in ragione del fatto che il ricorrente aveva già ottenuto la qualifica di rifugiato e per questo non sarebbe potuto essere destinatario di un provvedimento di allontanamento, senza considerare che la tutela riconosciuta dall’articolo 3 ha un’estensione maggiore ed è dotata di una sua autonomia rispetto a quella della Convenzione di Ginevra.
In effetti, si può considerare fondata tale preoccupazione dovendo però escludere che questa circostanza sia da sola in grado di esporre al rischio di tortura o di subire una pena o un trattamento inumano o degradante. Per quanto riguarda l’allegazione di ragioni a carattere religioso, ad esempio l’avvenuta conversione alla religione cristiana, si deve sottolineare come, nei casi in cui il rischio consista nel pericolo di subire una manifesta violazione della libertà religiosa, si è ritenuto che non sia necessario far valere la violazione dell’articolo 9, rispetto al quale si porrebbero maggiori problemi nell’affermarne la violazione in conseguenza di una misura di allontanamento71, ma si possa fare rientrare
nell’ambito dell’articolo 3.
In tali casi l’ostacolo maggiore cui si va incontro è quello della dimostrazione della spontaneità della conversione, anche se è possibile avanzare dei dubbi sul fatto che la spontaneità sia un fattore decisivo ai fini della sottomissione ai trattamenti lesivi, nella circostanza in cui, anche se solo formalmente, la conversione si sia verificata e sia possibile dimostrarlo.
Talvolta, ha assunto rilevanza davanti la Corte anche l’elemento dell’appartenenza del ricorrente ad una minoranza, ad esempio nella
71 Si fa riferimento a quanto esposto nel paragrafo 6 del presente elaborato in merito ai
limiti dei diritti garantiti dalla Convenzione la cui lesione, in seguito ad un provvedimento di allontanamento, consente di invocare la violazione del principio di
non-refoulement ex articolo 3.
Sul punto si veda Fornerod A. “L’article 3 de la Convention européenne des droits de
sentenza Salah Sheek contro Paesi Bassi del 200772, dove si è ritenuto che
tale circostanza, combinata all’incapacità delle autorità dello Stato di destinazione di garantire un’adeguata protezione, implicasse il rischio, in caso di rinvio, di trattamenti contrari all’articolo 3.73
Tale posizione della Corte assume una certa rilevanza sia perchè è espressione del tentativo di dare una “dimensione collettiva” alla tutela dell’articolo 3 sia perchè alleggerisce l’onere della prova a carico di coloro che soddisfano tale requisito.
In conclusione è necessario evidenziare come la valutazione di tali diversi elementi a cui si è fatto riferimento ai fini della ricostruzione della condizione personale del richiedente tutela, imponga la realizzazione di una complessa indagine che spesso risulta non essere alla portata degli organi della Convenzione.
Ciò spiega la ragione della fiducia spesso riposta nell’attività svolta da parte delle autorità nazionali che, tuttavia, non dovrebbe mai tradursi nella totale mancanza di vigilanza sulla stessa.
Non da escludere è evidentemente la possibilità che si giunga a valutazioni discordanti in un campo come questo, caratterizzato da una certa relatività e dalla fisiologica difficoltà di pervenire a soluzioni assolute e generalizzate.
72 Ricorso n°1948/04. In tale sentenza, in particolare, la Corte ha ritenuto che
l’appartenenza del ricorrente alla minoranza Ashraf, in Somalia, fosse una circostanza tale da esporlo al rischio di subire trattamenti contrari all’articolo 3.
73 Fornerod A. “L’article 3 de la Convention européenne des droits de l’homme et l’éloignement forcé des étrangers: illustrations récentes”, cit., p. 327.