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Lo status sociale dell’artista

5. LA POSIZIONE DELL’ARTISTA E LA COMPETIZIONE

5.1 Lo status sociale dell’artista

La bottega, fino al Quattrocento, era il luogo dove avveniva la formazione dei pittori e ne costituiva l’unità prima di produzione. La pratica artistica era strutturata come un lavoro manuale di negozio che risultava coerente con l’inserimento del pittore nella sfera sociale ed economica del ceto artigiano, in generale la loro condizione non era brillante, ma neppure veramente precaria.

Il maestro dirigeva e guidava il lavoro, dominato da uno spirito collettivo di cantiere e guidato dalle regole della corporazione, manteneva un forte carattere collaborativo con assistenti e apprendisti svolgendo insieme le commissioni assegnate nel rispetto di un vero e proprio lavoro di squadra.

Quando si trattava di lavori più ampi, come i cicli di affreschi, era necessario l’impiego di più assistenti o la collaborazione tra più maestri e tra più botteghe, un processo che ha il suo culmine nella grande squadra realizzata sotto la guida di Raffaello (1483-1520).

Per i lavori più complessi era necessaria la collaborazione di più botteghe anche con diverse specializzazioni, la pala d’altare costituiva il risultato di lavoro fra falegnami, doratori e pittori; spesso si procedeva anche per sub-allocazione nel caso in cui un maestro non poteva procedere alla realizzazione dell’opera.

Dobbiamo tenere presente questa equipe quando osserviamo la realizzazione di grandi opere pittoriche, come spiega Wackernagel (1938), questo tipo di divisione del lavoro era causata e resa necessaria dalle tecniche di pittura e di scultura particolarmente laboriose, che richiedevano numerose attività, a volte di tipo prettamente tecnico, che preparassero e sostenessero l’esecuzione del lavoro.

l’esigenza di condurre l’opera di propria mano dal principio alla fine e l’impossibilità di una collaborazione feconda con allievi e aiuti si rivelarono solo con Michelangelo (1475-1564), che anche per questo aspetto è considerato il primo vero artista moderno.

Michelangelo usava un metodo innovativo e del tutto peculiare, un dipinto non risultava più come la trasposizione a colori di un disegno progettato fino ai minimi dettagli e il suo interesse verso l’invenzione formale si faceva sentire anche durante l’esecuzione finale, tanto che alcuni dettagli delle sue opere sembrano essere stati pensati e sviluppati negli stadi finali della realizzazione dell’opera, scaturiti dall’ispirazione del momento.

 

Tavola 7: Michelangelo Buonarroti, 1507, Tondo Doni, Firenze, Galleria degli Uffizi

A Firenze l’assetto corporativo, dominava, di fatto, l’intera struttura politica della città-stato e gli artisti, nel loro insieme, non costituivano un’unica corporazione a sé

stante, ma venivano distribuiti nelle corporazioni già esistenti a seconda del tipo di lavoro e a seconda del tipo di materiale che adoperavano: i pittori erano inizialmente iscritti alla corporazione dei Medici e Speziali comprendente medici, farmacisti, mercanti di spezie, per l’utilizzo dei pigmenti, gli orafi facevano parte dell’Arte della Seta, gli scultori, i carpentieri e gli architetti appartenevano all’Arte dei Mestieri di Pietra e Legname.

Il regolamento della corporazione offriva agli acquirenti la garanzia che i prodotti erano regolati della corporazione stessa come conferma di buoni standard adoperati a livello esecutivo e tecnico dal punto di vista dell’accuratezza artigianale. Da qui troviamo nell’ordinamento dei pittori le disposizioni relative alla formazione di base per i futuri maestri, le norme riguardo all’uso di colori di qualità, le raccomandazioni per un metodo di lavoro coscienzioso e fornivano e anche i criteri di massima relativi al calcolo dei prezzi.

Dalla metà del Quattrocento, si assiste ad un allentamento del vincolo corporativo. A Firenze, la corporazione non esercitava più un controllo severo: Botticelli (1445- 1510), ad esempio, entrò in corporazione solo verso la fine della vita.

Lo scopo di queste corporazioni comprendeva anche una protezione di tipo sindacale contro la concorrenza straniera del mercato artistico, queste non impedivano ai forestieri di lavorare in città, ma questi dovevano pagare una doppia tassa per iscriversi alla corporazione.

Le nuove leve artistiche erano reclutate in molti casi attraverso la trasmissione ereditaria di un mestiere che il padre aveva già esercitato, ma non era un evento raro che discendenti di lavoratori attivi in campi estranei all’arte, anche persone appartenenti all’alta borghesia, si dedicassero alla professione pittorica.

Il giovane artista iniziava l’apprendistato in bottega che era poco più di un bambino, all’età di dodici anni circa, per un periodo che variava dai tre ai cinque anni. L’ingresso del ragazzo nella bottega veniva formalizzato con un contratto tra il maestro e un membro della famiglia.

In questo periodo il ragazzo alloggiava a casa del maestro, e solitamente veniva dato un corrispettivo al giovane per l’aiuto e la forza manuale che apportava, se invece l’apprendistato si svolgeva sotto la guida di artisti insigni erano i genitori a

dover pagare un corrispettivo al maestro per l’insegnamento elargito.

Dopo un certo numero di anni, che veniva stabilito anche dalle corporazioni, l’assistente poteva dare prova di sé eseguendo un “capolavoro” e sottoponendolo al giudizio dei magistrati della corporazione e con il superamento di questa prova diveniva “maestro” con il diritto conseguente di poter aprire una propria bottega indipendente.

Le botteghe ottenevano contatti diretti con i committenti e, per tutto il Trecento, prevale nettamente la supremazia nella posizione contrattuale del committente, ma via via che l’arte si svincola dall’artigianato cambiano a poco a poco le clausole dei contratti e gli artisti iniziano a ricoprire posizioni meno sfavorevoli e più equilibrate.

Già verso la metà del secolo una nuova consapevolezza, risvegliatasi in alcuni maestri, aveva innescato una ribellione contro una condizione sociale che teneva da molto tempo gli artisti ad un livello piuttosto basso nella scala sociale.

Per Michelangelo ci sono prove dirette che, motivato solo dall’ispirazione personale, intraprendesse di sua iniziativa l’esecuzione di nuove opere d’arte, in un periodo in cui queste venivano prodotte solo su commissione.

L’abitudine a lavorare irregolarmente si fa sempre più diffusa, i grandi maestri non eseguono più gli incarichi con l’antica fedeltà. E’ noto, per esempio, che Filippo Lippi (1406-1469) non sempre seguiva nel suo lavoro quel ritmo continuo e regolare che si pretende per l’attività artigiana, così che ad un tratto lasciava in sospeso certe opere per cominciarne altre.

Come spiega M. Wackernagel (1938), in questo prendere e lasciare i lavori impulsivamente, alcuni artisti, della fine del Quattrocento, cominciarono ad emanciparsi dalla situazione ancora per molti aspetti artigianale, sbilanciata completamente verso il committente.

Il mutamento radicale avvenne al principio del Cinquecento, da allora i maestri celebri non furono più dei semplici protetti ma essi stessi dei gran signori.

Sia Michelangelo che Leonardo recedettero spesso da certi incarichi, malgrado avessero già ricevuto il pagamento, perché nel frattempo si erano imbattuti in ordinazioni artisticamente più allettanti.

La nuova coscienza che l’artista prende di se stesso, divenendo consapevole del proprio talento, cresciuta anche sulle teorie rinascimentali, è rintracciabile, ad esempio, in Michelangelo e nei suoi ripetuti scontri con papa Giulio. Michelangelo, già all’inizio del sedicesimo secolo, pretendeva in anticipo quella considerazione che, dopo la metà del secolo, sarebbe stata riconosciuta generalmente sia a lui che ad artisti più giovani a lui contemporanei.

Questa emancipazione, compiuta da alcune personalità consapevoli, è rintracciabile anche nei precursori del primo Rinascimento, nelle forme e negli obiettivi completamente nuovi delle loro opere, in particolar modo in Giotto (1267- 1337). Questi appartò un’aggiunta innovativa e rivoluzionaria tanto che fu il primo artista a raggiungere una reputazione e una ricchezza considerevole.

5.2 La competizione

L’ottima posizione personale e sociale raggiunta degli artisti maggiori ha la sua origine nel riconoscimento, da parte dei contemporanei, del valore speciale della maestria artistica che ha permesso a questa di svilupparsi e di arrivare fino ai giorni nostri.

Lo studio, la ricerca e l’applicazione di tecniche innovative, per risolvere nuovi problemi, posti oltre al livello medio e oltre la cerchia stilistica convenzionale e usuale, si evincono con chiarezza ed evidenza, dalla frequente apparizione di soluzioni formali completamente nuove, anche nell’ambito delle ordinazioni ecclesiastiche, considerando che è proprio in questo campo che tali innovazioni vennero permesse, ed apparvero con l’approvazione del committente o del donatore.

Come spiega Wackernagel (1938), bisogna riconoscere la visione progressista e la capacità di comprensione artistica da parte di chi commissionava opere rivoluzionarie come quelle di Paolo Uccello (1397-1475) e di Andrea del Castagno (1421-1457) che mandavano a monte così temerariamente tutte le concezioni artistiche fino ad allora valide e che le lasciavano collocare nelle chiese, dimostrando inoltre la completa libertà concessa dalle autorità ecclesiastiche ai committenti nella scelta dei pittori e degli stili artistici.

Se invece che ai committenti il giudizio e l’approvazione dei progetti fossero stati lasciati alle autorità ecclesiastiche o ad un consiglio comunale, molti esemplari di arte sacra di grandissimo valore probabilmente non sarebbero stati prodotti affatto o sarebbe stata soffocata una parte notevole della loro originalità.

Questo ovviamente perché non dobbiamo immaginarci che il gusto della grande maggioranza della borghesia e del clero fosse particolarmente raffinato o progressista, questo spesso innescava qualche dissidio tra le aspirazioni e gli interessi degli artisti da un lato e i desideri dei committenti e degli osservatori dall’altro, quando le finalità artistico-estetiche non si armonizzavano più con la destinazione dell’opera così come la intendeva la committenza.

Molti artisti che ebbero anche un noto successo, per ovviare a questo, si focalizzarono infatti nel cercare di soddisfare quel pubblico più vasto e poco innovatore che accettava e richiedeva volentieri modelli più tradizionali, soffocando la loro vena innovatrice e limitandosi a creare quello che la maggior parte della committenza chiedeva.

Infatti, per la maggioranza della borghesia colta la creazione artistica continuò ad essere solo un settore, magari un po’ più raffinato, della produzione artigianale. La mano dell’artista, autore dell’opera, in cui solo pochi avvertivano la presenza di un ingegno creativo straordinario, era per il pubblico in genere solo uno strumento opportuno e necessario alla realizzazione degli innumerevoli e multiformi compiti che vedevano l’artista impiegato giorno dopo giorno da committenti, clienti e donatori di tutte le classi.

Alcune botteghe si specializzarono in un genere particolare, soprattutto di arte applicata. La concorrenza veniva prevenuta in parte grazie ad un sistema di tutela di tipo monopolistico e grazie alla trasmissione di una particolare procedura tecnica che, in quanto segreto di bottega, non poteva essere facilmente copiato da altri, ed in parte attraverso la maestria ereditata, generalmente riconosciuta e costantemente accresciuta, delle tecniche di produzione.

Allo stesso tempo vi era il fenomeno opposto a questa tendenza alla specializzazione e cioè la versatilità di alcuni artisti, la loro attitudine ad operare nei generi più diversi.

Questo risulta interessante anche perché veniva infranta la separazione esistente tra le corporazioni rendendo necessario specificare nel regolamento la possibilità di cambiarla o di appartenere a più di una.

Un aspetto interessante dell'arte rinascimentale italiana è la presenza di una forte competizione tra gli artisti nel tentativo di ottenere le commissioni più importanti e di assicurarsi così i favori dei signori più generosi e potenti.

A partire dalla fine del sedicesimo secolo e per tutto il secolo successivo per battere la concorrenza era necessario adottare opportune strategie di marketing e gli artisti riuscirono a metterne in atto alcune di molto astute.

C’era chi utilizzava come tattica quella di collocare tele iniziate, ma non portate a termine, in giro per lo studio, nella speranza che un cliente in visita gliene commissionasse qualcuna da completare. C’era chi, come espediente, vantava la propria formazione e abilità superiore, come in un periodo successivo farà ad esempio Lanfranco (1582-1647), quando cercando l'incarico di decorare la Loggia delle Benedizioni di San Pietro con stucchi narrativi, promise di dipingere meglio di qualsiasi altro.

Un altro stratagemma utilizzato spesso consisteva nel donare le opere d’arte a personaggi illustri aspettandosi in cambio dispendiose ricompense: i patroni iniziarono a distribuire compensi ai pittori come simbolo della loro magnanimità.

Tra le strategie più comuni di avanzamento per i giovani artisti vi era la scelta di trovare un forte promotore che potesse dare al pittore visibilità e che lo lanciasse sul mercato, mentre per i pittori maturi era estremamente importante avere un patrono potente che si prendesse cura di loro. Questo era quanto cercavano i pittori veneti di provincia che arrivavano a Venezia, o quelli della campagna toscana che arrivavano a Firenze, e più avanti di tutti coloro che giungevano a Roma.18

I pittori impararono ad ottenere benefici economici intervenendo sui meccanismi di offerta e di domanda, ad esempio aumentando la produzione con l’introduzione di nuove tecniche.

                                                                                                               

18Il pittore Guido Ubaldo Abbattini (1600-1656) utilizzò un'altra tecnica presentandosi direttamente a

Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) e asservendosi a lui dato il potere che lo scultore esercitava sul controllo di tutti i più ambiti lavori di scultura e di pittura all’interno del Vaticano.

Le innovazioni scoperte da alcuni pittori hanno permesso loro di risparmiare tempo nell’esecuzione di un’opera e quindi di riuscire ad abbassare i prezzi guadagnando nel maggior numero realizzato.

Tavola 8: Lorenzo Lotto, 1506, Polittico di Recanati, Recanati, Museo civico Villa Colloredo Mels

 

 

Come spiegano Spear e Sohm (2010), i pittori erano promotori ed operatori di marketing innovativi, iniziarono a vendere in ogni luogo i loro lavori anche illegalmente per le strade o in negozi non autorizzati o eludendo le leggi mostrando le loro opere per farsi pubblicità. Lorenzo Lotto (1480-1556), ad esempio, vendeva i propri quadri anche alla lotteria e in epoca barocca Salvatori Rosa (1615-1673) usava le stampe per annunciare e promuovere i propri quadri non ancora dipinti.

Per emergere nel mercato altri pittori cercarono di crearsi una loro nicchia mettendo in atto un processo di innovazione di prodotto, diversificandosi da quelli già esistenti, si specializzarono in nuovi generi pittorici come il ritratto di paesaggi e le nature morte o creando nuovi stili facilmente distinguibili e riconoscibili.

 

 

Tavola 9: Pietro Perugino, 1502, Polittico di Sant'Agostino, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria