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Il valore delle opere d’arte completate

4. I CONTRATTI PER OPERE D’ARTE

4.3 Il valore delle opere d’arte completate

Un lavoro finito offre, a differenza di uno ancora da realizzare, una varietà di

                                                                                                               

15 Goldthwaite (1993), fa notare, tuttavia, che questo suo modo di dipingere e il suo conseguente

posizionamento nel mercato lo avrebbe lasciato "per sempre tra le fila di artigiani e bottegai".

16 Secondo Gilbert (1980) il maestro Neri di Bicci è stato incluso in una lista del 1470 redatta da

Benedetto Dei contenendo i nomi degli artisti che sono riusciti a mantenere un laboratorio a Firenze, il suo nome appariva insieme ad alcuni nomi di maestri importanti e famosi.

elementi concreti per poter giudicare la qualità e il valore del bene in oggetto. Capitava spesso che le parti negoziassero un prezzo e lo registrassero nel contratto, ma il committente preferiva riservarsi il diritto di far stimare l’opera a consegna avvenuta da un esperto.

Di norma venivano convocati due periti, uno dalla parte del committente e l'altro dalla parte dell’artista che eseguivano una perizia molto scrupolosa, sia in termini di qualità che in termini di quantità di lavoro svolto a cui seguiva la negoziazione, la stima del prezzo ed i conguagli con i pagamenti già effettuati.

Nel caso in cui non si giungesse ad un accordo, come spesso capitava, visto l’alto potenziale di conflitto di interessi, poteva essere convocata una terza parte arbitraria.

La perizia era un metodo imparziale che conveniva ad ambedue le parti: il committente se insoddisfatto del lavoro svolto dall’artista avrebbe potuto contrattare il prezzo, poteva capitare infatti che il compenso stabilito venisse ribassato, ma poteva anche capitare che il compenso dell’artista venisse aumentato se l’opera appariva particolarmente grandiosa.

Un’altra soluzione, per ovviare il problema dalla difficoltà nel valutare qualitativamente l’opera ex ante e allo stesso tempo venire in contro ai bisogni economici del pittore, prevedeva la dilazione del pagamento in tre rate: il committente continuava a pagare solo se, mediante periodici controlli, giudicava il lavoro svolto coerente con la prestazione alla quale si era obbligato.

L’artista si trovava impigliato in una specie di rapporto di impiego che lo legava, spesso attraverso obblighi esplicitamente espressi nel contratto, all’attività ininterrotta, esclusiva con l’opera intrapresa. Una caratteristica del periodo è rappresentata dal fatto che in molti casi anche artisti famosi accettavano di ricevere una parte del loro pagamento non in denaro, ma in natura, spesso sotto forma di prodotti di prima necessità come grano, vino ed olio.

4.4 I prezzi

Come spiega O’Malley (2005), i prezzi per singole commissioni di affreschi o pale d’altare differiscono notevolmente: tele della stessa dimensione o con lo stesso

numero di figure mostrano alcune correlazioni nel loro valore, mentre pittori assunti più o meno allo stesso tempo potrebbero ricevere diversi compensi per opere che sembrano simili e lo stesso artista potrebbe ricevere pagamenti molto diverse per commissioni accettate a pochi anni di distanza.

Variazioni nel prezzo dei dipinti sono tradizionalmente spiegate in termini di variazioni delle dimensioni e del numero delle figure rappresentate, ma tali analisi ignorano alcune sfumature soggettive a cui sono sottoposte le trattative per un’ opera d’arte. Forti differenze di prezzo tra le opere del primo Rinascimento non possono essere spiegate solo con la bravura dell’artista dato che in questo periodo i costi tangibili avevano un peso maggiore rispetto al talento del pittore. Più probabilmente possono dipendere dal fatto che nei contratti spesso non veniva specificato se i materiali erano inclusi o venivano pagati separatamente dato il costo notevole che determinava l’uso di materiali preziosi nel dipinto.

Infatti, solo i pigmenti più comuni, ottenibili dalle materie prime locali, erano facilmente reperibili, mentre altri materiali, come la foglia d’oro doveva essere acquistata o direttamente dal battiloro, oppure da intermediari occasionali. Il prezioso azzurro oltremarino, la cui migliore qualità era prodotta solo in Germania o in Olanda, a causa del suo costo era preso in considerazione solo da committenti molto esigenti e veniva importato dall’estero, principalmente a Venezia, dove molti mercanti tedeschi nei loro uffici commerciali gestivano gli scambi dei prodotti delle loro terre.

Il payoff del committente può essere visto come la differenza tra i benefici ottenuti e il prezzo pagato all’artista. Essendo la qualità non negoziabile direttamente, il committente doveva trovare qualche modo per misurarla tramite alcuni parametri oggettivi. La media del prezzo pagata durante il Rinascimento è più facile da stimare per una pala d’altare che per un affresco perché le variabili che contribuiscono alla formazione del costo sono più facilmente controllabili, tra tutti i più importati sono due:

1. La dimensione

rappresentava una importante determinante per la valutazione del costo, in relazione anche al maggior prestigio che derivava al committente un’opera di dimensioni più elevate. I dati esaminati portano a suggerire una relazione positiva tra la grandezza e il prezzo: pale d’altare di dimensioni maggiori generalmente costavano più di quelle di dimensioni minori.

L’aumento del valore era però meno che proporzionale, come spiegano Etro e Pagani (2012), questo effetto è giustificato dalle economie di scala presenti dal lato dell’offerta dove la grandezza aveva un’importanza minore, infatti, se i costi per i pittori aumentano con l’aumentare della dimensione, i dipinti di ogni formato richiedono lo stesso tempo per pensare alla composizione e per progettare un disegno preparatorio.

La misura quindi rappresentava un elemento importante, ma non l’unico preso in considerazione quando si stabiliva un canone per un potenziale nuovo lavoro.

2. Il numero di figure rappresentate

Molti documenti e lettere testimoniano che il numero di figure incideva fortemente sulla valutazione e sulla stima del prezzo di un’opera d’arte tanto che molti artisti si facevano pagare a figura. Gli stessi committenti potevano usare il numero di figure specificate in un contratto come garanzia di un certo livello di qualità. Secondo Etro e Pagani (2012), l’uso del numero di figure specificato negli accordi fra committenti e artisti costituiva una risposta al problema di moral hazard che si creava per le commissioni artistiche. Infatti il numero di figure era una proxy quantificabile della qualità del dipinto, che altrimenti non era contrattabile ex ante, e questo avveniva principalmente per tre ragioni:17

• rappresentava un modo per sintetizzare la complessità e la varietà dell’opera che era positivamente correlata con la qualità del dipinto;

                                                                                                               

• i dipinti con soggetti figurativi erano al primo posto nella gerarchia dei generi essendo i più costosi e maggiore spazio dedicato alle figure aumentava la qualità percepita dei dipinti;

• i maestri normalmente si focalizzavano nella realizzazione delle figure umane perché richiedevano un maggior impegno sia in termini di abilità che in termini di tempo rispetto al resto che veniva delegato agli assistenti. Rappresentava implicitamente un modo per chiedere l’intervento diretto del maestro e conseguentemente per ottenere un’alta qualità;

Questo però non è valido sempre, l’evidenza testimoniata dai documenti, dai grafici e dai dipinti rende chiaro che il numero di figure previste per un lavoro poteva venire aumentato, dopo che il contratto era stato firmato, senza determinare alcun impatto sul costo registrato nel contratto notarile. Poteva inoltre capitare, come nel caso di Neri di Bicci descritto in precedenza, che due opere, praticamente identiche e realizzate dallo stesso artista a pochi anni di distanza, si discostassero notevolmente dal punto di vista del prezzo pagato dai committenti. In conclusione, la rilevanza del numero delle figure nella determinazione del prezzo a parità di altri fattori (in primis la dimensione del quadro) rimane una questione empirica, su cui torneremo analizzando statisticamente ed econometricamente i dati pervenutici sulle commissioni rinascimentali e recentemente raccolti in un dataset dal Prof. Federico Etro.

Vigevano inoltre sia delle condizioni generali sul livello delle tariffe applicate che dei limiti razionali sulle medie dei compensi. Il valore di un opera d’arte e quindi il prezzo individuale solitamente rientrava in degli standard che erano riconosciuti, tramite convenzioni, da entrambe le parti contraenti.

Come spiegano Spear e Sohm (2010), i pittori potevano sempre manipolare questi standard a loro favore, sia scegliendo esempi comparativi di dimensione minore o con una composizione più semplice sia facendo riferimento agli esempi più costosi.

Nelle differenze tra i prezzi entrano in gioco anche elementi riguardanti l’ambiente esterno che sono correlate con la domanda complessiva culturale dell’epoca e con forze economiche che regolavano il mercato dell’epoca per i beni di lusso.

Questi fattori hanno un forte impatto sul prezzo in generale e possono essere riassunti in elementi quali:

La reputazione dell’artista che dipendeva dalla sua capacità e dalla sua bravura, spesso accresciuta con l’età e con l’esperienza (cfr. Galenson e Jensen, 2011, sul ciclo di vita degli artisti) determinava compensi molto cospicui come segno della loro palese superiorità.

Molti pittori inoltre avevano capito come sfruttare le regole del mercato a loro favore e riuscivano a trarne maggiore profitto, ad esempio gonfiando i prezzi sfruttando la loro popolarità o, al contrario, abbassandoli puntando sulla rapidità di realizzazione e sulle maggiori quantità grazie all’invenzione di nuove tecniche; • I rapporti relazionali avevano un profondo impatto sui tassi di pagamento, ad

esempio il legame che un pittore poteva avere con la sua terra natale poteva portarlo ad accettare un prezzo inferiore rispetto a commissioni in altre città (sebbene ciò non fosse sempre vero, cosa che rimane da testare empiricamente, come sarà fatto più avanti);

• Il concetto di status e di prestigio del committente era associato all’idea di magnificenza e al fenomeno del consumismo. Spendere una consistente cifra di denaro per la realizzazione di una pala d’altare o per un affresco non mostrava soltanto la grandezza del committente, ma dimostrava anche la devozione e la religiosità rimarcando il servizio che essi svolgevano per la loro città;

Individuando l’influenza di elementi oggettivi e soggettivi, è difficile stabilire, caso per caso, che peso essi abbiano esattamente avuto nella formazione dei prezzi o delineare una graduatoria valida per ogni opera d’arte.

Come scrisse lo storico dell’arte barocco Giulio Mancini (1558-1630), i dipinti non sono beni necessari, ma di piacere e come tali non possono avere un prezzo determinato. La nostra successiva indagine empirica verificherà che tale affermazione era, almeno in parte, erronea, nel senso che alcune variabili quantificabili erano in grado di spiegare una buona parte della variabilità dei prezzi (cfr. Etro, 2013, sul

mercato rinascimentale e Etro, Marchesi e Pagani, 2012, sul mercato barocco). Ciò suggerirebbe che il mercato dell’arte era in effetti un mercato vero e proprio in cui fattori che influenzavano domanda e offerta contribuivano a determinare il prezzo.