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IL MERCATO DELL'ARTE NEL RINASCIMENTO ITALIANO E NEL SECOLO D'RO OLANDESE

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea Magistrale in Sviluppo

economico e dell’impresa

Prova finale di Laurea

LO SVILUPPO DEL MERCATO DELL’ARTE

Dal Rinascimento Italiano al Secolo d’oro Olandese

Relatore

Prof. Federico Etro

Laureanda

Giulia Solla

Matricola 824420

Anno Accademico 2012-2013

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INDICE

INTRODUZIONE

6

PARTE PRIMA: IL MERCATO DELL’ARTE IN ITALIA

FRA RINASCIMENTO E BAROCCO

1. INTRODUZIONE 11

2. LA DOMANDA DI ARTE SACRA 15

2.1 Le iniziative della chiesa 18

2.2 Le iniziative laiche 18

2.3 Le committenze private 19

2.4 Il dinamismo interno alla domanda 20

2.5 la generazione di cultura pittorica 22

3. LA DOMANDA DI ARTE LAICA 24

3.1 Le abitudini di consumo nelle città 26

3.2 L’architettura e l’ ideologia edilizia 28

3.3 Le forniture interne 29

3.4 Il consumismo e la generazione di cultura 31

3.5 Committenza pubblica e privata 32

4. I CONTRATTI PER OPERE D’ARTE NEL RINASCIMENTO 34

4.1 Il valore delle opere d’arte ancora incompiute 38

4.2 Le scadenze 42

4.3 Il valore delle opere d’arte completate 42

4.4 I prezzi 43

4.5 La clausola a sua mano 48

4.6 Il soggetto dell’opera d’arte nel contratto 49

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5. LA POSIZIONE DELL’ARTISTA E LA COMPETIZIONE 52

5.1 lo status sociale dell’artista 52

5.2 La competizione 56

6. LA DIFFERENZA TRA GENERI PITTORICI 61

7. UN’ANALISI EMPIRICA DEL MERCATO DEI DIPINTI RINASCIMENTALI

64

7.1 Il numero di figure umane 67

7.2 La dimensione del dipinto 70

7.3 L’indice Vasari 74

7.4 L’età del pittore 78

7.5 L’anno di realizzazione 81

7.6 Regressione dei prezzi dei quadri rinascimentali 82

7.7 Ciclo di vita di alcuni pittori 88

PARTE SECONDA: IL MERCATO DELL’ARTE NEI

PAESI BASSI

1.INTRODUZIONE 93 1.1 La struttura economica 95 1.2 La struttura sociale 99 2. LO STATUS SOCIALE 103 2.1 L’apprendistato 103

2.2 La posizione sociale dei pittori 105

2.2.1 Il livello di educazione dei pittori 105

2.2.2 La ricchezza e il reddito dei pittori 105

2.2.3 Il numero di pittori attivi 108

3.IL MERCATO DELL'ARTE 111

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3.1.1 L’importazione di dipinti ad Amsterdam 115

3.2 L’andamento dei prezzi 116

3.3 L’analisi econometrica degli inventari e delle aste olandesi 1 118

3.4 Le collezioni ed i collezionisti 128

3.5 L’analisi econometrica degli inventari e delle aste olandesi 2 131

3.6 Conclusioni 132

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INTRODUZIONE

In questo lavoro cercheremo di analizzare i motivi che hanno portato allo sviluppo del mercato dell’arte, più precisamente, alla crescita del mercato della pittura in due differenti realtà: il Rinascimento italiano e il secolo d’oro olandese.

Studieremo la domanda e l’offerta per i dipinti e cercheremo di individuare i fattori interni ed esterni che hanno influenzato maggiormente la determinazione dei prezzi sul mercato primario in Italia e su quello secondario in Olanda.

Inizialmente ci soffermeremo ad esaminare i contratti e il mondo delle commissioni, laiche e religiose, che hanno caratterizzato l’Italia tra il trecento e il cinquecento. Valuteremo l’evoluzione che ha avuto nel tempo la posizione dell’artista e il suo status sociale, l’aumento di importanza che assunsero l’abilità e il talento del pittore rispetto ad elementi tangibili come i tempi e i costi dei materiali e il ruolo svolto dalle corporazioni.

Analizzeremo empiricamente alcuni aspetti del mercato rinascimentale delle commissioni per dipinti e affreschi grazie ad alcuni dati inediti con l’obiettivo di far emergere le correlazioni esistenti fra i prezzi delle commissioni e alcune caratteristiche dei dipinti che sembrerebbero influenzarne il valore (come la dimensione del dipinto, il numero di figure, l’anno di esecuzione, l’età del pittore e la fama dell’artista). Per fare questo abbiamo prima valutato le correlazioni esistenti tra il prezzo ed ogni singola variabile e poi abbiamo fatto un’indagine econometrica per controllare simultaneamente per i principali fattori e verificare la natura esatta delle relazioni fra prezzi e variabili esplicative.

I risultati più interessanti riguardano una relazione positiva e concava sia fra il prezzo e la dimensione dei dipinti che fra il prezzo e il numero di figure presenti ad indicare come questi due elementi fossero fondamentali per la determinazione del compenso degli artisti rinascimentali. Controllando per una serie di caratteristiche di base si evidenziano differenze tra affreschi e dipinti (probabilmente per il minor tempo necessario per la realizzazione): gli affreschi costavano nettamente di meno ed erano meno sensibili alla variazione della dimensione.

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La fama dell’artista è ovviamente importante per determinare il prezzo, L’abbiamo misurata tramite un indice di qualità che abbiamo costruito calcolando lo spazio dedicato dallo storico dell’arte manierista Giorgio Vasari (1511-1574) nelle sue celebrate “Vite” del 1550 ai vari pittori, L’indice risulta fortemente correlato al prezzo anche dopo aver controllato per tutti gli altri fattori, ma non preclude la significatività di questi ultimi.

Pale d’altare antiche quali i polittici esibivano un prezzo significativamente superiore probabilmente per il costo dell’oro e della complessa cornice. Altri fattori non significativi nelle regressione risultano la clausola contrattuale Sua mano che specificava l’esecuzione dell’opera da parte del capobottega, il numero di commissioni congiunte, o la provenienza della commissione dal paese natale del pittore. Risultano assenti differenze sistematiche fra i compensi ottenuti dalle varie scuole questo probabilmente è da ricondurre all’elevata mobilità dei dipinti e degli artisti.

Emerge infine un ciclo di vita del pittore, con prezzi prima crescenti e poi decrescenti, l’età del picco di creatività si ha attorno ai 45 anni il che, usando la teoria di Galenson del ciclo di vita dei pittori, suggerisce che vi fossero molti innovatori concettuali in questo periodo: questi, come Giotto, Masaccio o Raffaello, raggiungevano l’apice della creatività come apprezzata dal mercato in età giovane grazie ad innovazioni che non richiedono sperimentazione ma visione diversa dagli altri.

Nella seconda parte tratteremo il mercato nei Paesi Bassi durante il diciassettesimo secolo, dove la committenza non ebbe mai un ruolo di primaria importanza, ma i pittori furono abili a scaturire un nuovo bisogno nella classe media borghese che, attratta dall’arte e dal suo valore puramente estetico, comprava con gioia quadri per abbellire le proprie abitazioni.

Questo fiorire artistico, associato a grandi nomi come Rembrandt, Rubens, Van Dyck o Vermeer, è emerso in contemporanea con il fiorire economico e sociale di questa regione e con l’emergere di nuove istituzioni all’interno del mercato secondario dell’arte, quali le aste per la rivendita di quadri e la nascita di nuove figure come i mercanti d’arte ed i collezionisti.

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La concorrenza, le specializzazioni di genere e le innovazioni pittoriche furono i fattori principali che portarono ad un aumento dell’offerta nel mercato dell’arte e alla nascita di nuovi canali di vendita. Questo consentì ai Paesi Bassi di essere in grado di offrire una produzione di massa per un bene considerato di lusso ad un prezzo contenuto.

L’altissimo numero di dipinti appartenenti a singoli individui e la produzione infinita di quadri che fu realizzata durante il secolo d’oro, sono i due elementi che contraddistinguono univocamente la repubblica olandese dagli altri paesi in questo periodo.

Dopo aver trattato alcuni aspetti sulla commercializzazione dell’arte abbiamo analizzato l’andamento dei prezzi durante il secolo d’oro olandese confrontando le analisi tradizionali di due autori North (1997) e Chong (1987) con quelle econometriche più recenti,

Secondo North (1997) Il prezzo dipendeva dal formato del dipinto, dall’esecuzione originale oppure copiata e dalla fama del pittore. Chong (1987) individua nel genere pittorico l’elemento fondamentale per capire le variazioni di prezzo che avvenivano in base ai cambiamenti dei gusti degli acquirenti e registra prezzi nominali più alti alla fine del secolo per tutte le categorie (escludendo le architetture). Le analisi condotte da Etro e Stepanova (2013) confermano quanto sostenuto da North (1997) mentre i risultati ottenuti sono in contrasto con quanto trovato da Chong (1987). Secondo gli autori l’aumento dei prezzi è stato solo un fenomeno nominale: a inizio secolo i prezzi erano alti come risultato del boom economico e della domanda crescente da parte della classe media olandese che ha indotto l’entrata endogena di un massiccio gruppo di pittori in cerca di nuove opportunità. Questo ha determinato una forte concorrenza, una maggiore specializzazione in generi, nuove tecniche ed innovazioni che hanno comportato una diminuzione dei prezzi nel mercato dell’arte primario e di conseguenza anche nel mercato secondario. Inoltre la distribuzione in termini di prezzi sembra mostrare una generale tendenza verso la convergenza tra il valore di generi diversi nel corso del secolo.

Abbiamo comparato poi due ulteriori analisi svolte da Loughman e Montias (2001) e da Etro e Stepanova (2013) le quali si sono concentrate sul collocamento dei dipinti

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all'interno delle case olandesi nel diciassettesimo secolo e hanno ricercando la logica sottostante alla distribuzione dei quadri nelle varie stanze delle abitazioni in termini di prezzi, di dimensioni e di generi pittorici.

Alla fine del diciassettesimo secolo, quando l’economia rallentò e il mercato fu sazio la produzione di opere d’arte e il numero di pittori attivi iniziarono a diminuire. Già dopo la prima metà del secolo era iniziata una lenta decadenza nelle innovazioni in cui andavano scomparendo i valori ed i principi che avevano caratterizzato questo periodo. Dopo anni incentrati sulla commercializzazione dell’arte, le conseguenze furono un cambio di preferenza verso dipinti costosi realizzati da vecchi maestri e un ritorno al mecenatismo.

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PARTE PRIMA:

IL MERCATO

DELL’ARTE IN ITALIA

FRA RINASCIMENTO

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1. INTRODUZIONE

Le opere d’arte si sono da sempre distinte per la loro unicità dai classici beni durevoli e sono da sempre state considerate una tipologia particolare di beni con caratteristiche intrinseche anche molto diverse tra di loro.

Con l’avvento del Cristianesimo, l'arte fu equiparata ad una forma di comunicazione, le immagini furono inserite in un quadro molto più definito e la loro funzione diventò devozionale con compiti culturali, didattici e formativi.

Grazie ai cambiamenti radicali che avvennero durante il Rinascimento nei sistemi politici, economici e sociali, l’arte subì un’ulteriore trasformazione che la rivestì di nuovi valori culturali e di maggiore importanza.

Le immagini cessarono di essere considerate esclusivamente simboliche e acquisirono senso e valore anche senza un preciso rapporto con la realtà trascendente. Gli artisti, man mano che la società e l’economia si staccavano dalla dottrina ecclesiastica, riuscirono ad emanciparsi dal ruolo subordinato che avevano nei confronti della committenza, elevando il loro lavoro rispetto all’artigianato.

Con le nuove pratiche economiche e con l'espansione dei mercati commerciali e finanziari attraverso tutta Europa, anche l’arte divenne un settore commerciale molto proficuo e incominciò la lenta nascita dei primi mercati d’arte.

Secondo lo storico economico Goldthwaite (2003), la domanda per l’arte ha incontrato, durante il periodo Rinascimentale, un forte incremento, spinta soprattutto dalle ottime condizioni economiche che vigevano e che hanno permesso a questo mercato di svilupparsi e di espandersi.

La nuova cultura artistica si affermò prima in Italia che altrove perché questo paese è stato in grado di anticipare l’Occidente anche sul piano economico e sociale: è qui che ha inizio la rinascita economica e lo sviluppo della libera concorrenza in contrasto con la struttura corporativa che caratterizzò tutto il Medioevo.

Seguendo una forte urbanizzazione, la maggior parte della ricchezza si trovava nelle mani dei cittadini, ma non soltanto come risultato di attività commerciali, industriali e finanziarie, all’urbanizzazione contribuì anche l’allargamento del potere delle città sulla campagna, infatti, ai contadi venivano imposte tasse superiori e la

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nobiltà terriera molto presto fu costretta a stabilirsi nelle città.

La ricchezza è stata la precondizione necessaria ad alzare la media di spesa dei cittadini, ad alimentare i consumi, ma non basta a spiegare l’aumento della domanda per il mercato dell’arte; infatti, per capire perché le persone sono spinte a comprare un determinato tipo di bene la seconda determinante fondamentale da studiare è la struttura sociale attraverso la quale la ricchezza si distribuisce.

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Un’analisi strutturale della ricchezza in Italia durante il quindicesimo e il sedicesimo secolo ha rivelato che l’Italia ha beneficiato di condizioni favorevoli per lo sviluppo di un mercato di lusso secondo Goldthwaite (1993) grazie a tre elementi in particolare:

1) La ricchezza delle città e la frammentazione politica.

Il Rinascimento italiano si può considerare un fenomeno urbano: qui la borghesia si emancipa prima che altrove anche perché fin dall’inizio cavalleria e feudalesimo erano meno sviluppati rispetto al Nord. I mercanti controllavano i flussi commerciali e finanziari di tutta Europa e ne favorivano la fioritura e la nobiltà terriera molto presto si trasferì nelle città spostando nei centri anche la ricchezza rurale. Non vi era una città dominante, come succedeva all’estero, dove città come Londra e Parigi cercavano di imporsi come centri dominanti per la vita economica del paese. La geografia e la cronologia dell’arte italiana, con la sua divisione in scuole e periodi, è il risultato della variabilità e della particolarità che caratterizzava i centri urbani. La produzione di beni durevoli non era dominata da un unico mercato e non esisteva un mercato unico neanche per l’arte. I pittori italiani svilupparono diversi stili e variegate tecniche a seconda della città e dei principi che la caratterizzavano;

2) La diffusione della ricchezza era principalmente confinata all’interno dell’alta società.

La mutevolezza, la propensione al cambiamento e il dinamismo interno a questi ranghi ha contribuito a tenere sempre alta e diversificata la domanda assicurando la ridistribuzione della ricchezza ad un tasso molto più alto rispetto a qualsiasi altro paese in Europa.

Nel corso del quindicesimo secolo uomini nuovi continuavano ad emergere e a conquistare potere, come spiega Goldthwaite (1993), una parte di questa fluidità è testimoniata dai numerosi palazzi costruiti a Firenze grazie alle nuove fortune delle potenti famiglie tra le quali i Rucellai, gli Strozzi e i Gondi, o da quelli mai completati, a causa di improvvise bancarotte come accadde ai Barbadori o ai

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Ilarioni o di quelli trasferiti in nuove mani a seguito di rovesciamenti di fortuna come avvenne tra i palazzi delle famiglie Boni-Antinori o Pazzi-Pitti.

Se la ricchezza, da sola, non può essere considerata la causa di questi mutamenti, fu la Chiesa a creare la struttura verso la quale incanalare la domanda, infatti nessuna discussione sulla distribuzione della ricchezza, per capire la domanda dell’arte, può essere conclusa senza menzionarla. Il potere economico della Chiesa non consisteva solo nelle proprietà appartenenti alle istituzioni ecclesiastiche e negli ingenti investimenti che affrontava in commissioni artistiche, ma soprattutto nella capacità di influenzare le abitudini di consumo private dei cittadini dalle quali riusciva a ricavare il denaro per effettuare le proprie disposizioni;

3) I ricchi diventavano sempre più ricchi.

Le nuove opportunità che accompagnarono i cambiamenti economici nel sedicesimo secolo, promettevano elevati livelli di profitti e contribuivano ad aumentare sempre di più la ricchezza delle famiglie più abbienti. I ricchi diventavano sempre più ricchi e aumentavano vertiginosamente il livello individuale di consumo creando una casta che si assimilò ben presto all’aristocrazia del denaro;

Questi fattori hanno incentivato modelli culturali di tipo materialistico che hanno portato l’Italia a godere delle migliori condizioni per lo sviluppo di un vigoroso mercato del lusso.

Come spiega Goldthwaite (1993), il livello di ricchezza raggiunto dalle grandi famiglie dell’Italia del tardo Rinascimento era straordinariamente alto persino secondo gli standard della ricchezza privata dei paesi nord-europei, che stavano in quell’epoca vivendo la maggior espansione economica.

Questo benessere permise ai ricchi di investire nelle arti e nell'architettura e ha favorito quello che viene definito oltre che ad un nuovo periodo storico un fenomeno di consumo.

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2. LA DOMANDA DI ARTE SACRA

La maggior parte dell’arte prodotta durante il periodo rinascimentale fu religiosa, in Italia, non si perse mai completamente la tradizione classica anche se non è immediatamente comprensibile la motivazione visto che parliamo di un periodo in cui da un lato il pubblico religioso si ristringeva davanti ai disastri demografici del quindicesimo secolo e dall’altro si assisteva alla nascita di una nuova cultura laica.

Un approccio per capire perché è successo questo è considerare l’arte sacra in un contesto globale, esaminando un modello di consumo comprendente tutti gli oggetti necessari per le pratiche religiose possiamo ritenere che la domanda è generata da due tipologie di forze variabili: la prima dipende dalla natura del modello stesso e la seconda dipende dalle variabili esterne al modello.

Il primo set di forze sono scaturite principalmente da cambiamenti nelle abitudini che generano una domanda per nuovi beni o la sostituzione di quelli vecchi.

Il secondo tipo di forze sono generate da cambiamenti economici e sociali che comportano la domanda di beni indipendentemente da cambiamenti dalla loro specifica natura intrinseca.

Il tredicesimo secolo fu decisivo per la diffusione di nuove forze appartenenti ad entrambi le categorie ed il ritmo che queste hanno guadagnato nei secoli successivi spiega gran parte della vitalità del mercato dell'arte con riferimento perlomeno al livello di produzione, se non anche alla qualità dei prodotti.

Tutte le religioni hanno ispirato diverse tipologie di produzioni artistiche, come ad esempio, la creazione di elementi che servivano direttamente al rituale e ad altre pratiche del culto stesso.

Il Cristianesimo è una delle religioni che possiede la maggiore tradizione artistica, sia per la varietà e la numerosità degli oggetti, sia per i cambiamenti di genere e di peculiarità che sono avvenuti con il passare dei secoli.

Durante il Medioevo si diede luogo ad una miriade di oggetti legate alle funzioni dell’apparato liturgico come reliquari e suppellettili tra cui calici, scrigni, pissidi, candelabri, caraffe, ampolle, libri sacri o arredi di vario genere come altari, cattedre, pulpiti e leggii.

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La tendenza allo sfarzo degli oggetti liturgici deriva in gran parte del fatto che venivano messi in mostra durante il rituale. Tramite la dottrina dell’immanenza di Dio nel mondo fisico, i Cristiani esaltavano la spiritualità insita nei materiali preziosi e il loro splendore assunse una valenza teologica. Questi materiali lussuosi esigevano anche un’elaborazione particolare e di conseguenza investimenti notevoli.

In Italia si diffuse prima il mosaico come decorazione principale degli interni delle chiese, in parallelo con i contatti stretti con Bisanzio, questo tipo di decorazione molto costosa venne soppiantata dall’uso dell’affresco nel tredicesimo secolo.

La pittura su tavola probabilmente nacque dall’interesse suscitato dalle icone bizantine che incominciavano a circolare in seguito alla conquista veneziana di Costantinopoli nel 1204. Non essendo ancorati all’uso liturgico ed essendo trasportabili, i dipinti su tela guadagnarono terreno ed ebbero una vastissima diffusione.

La Chiesa educò i fedeli ad interpretare la pittura come espressione di un linguaggio e a cercarvi la manifestazione dei più spontanei sentimenti.

I dipinti assunsero finalità istituzionali come veicolo per la trasmissione di attività intellettuali e spirituali, acquisirono importanti funzioni e portarono ad una costante crescita di produzione nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo, soprattutto per il ruolo culturale che cominciarono ad assumere.

Come ricorda Baxandall (1972), le funzioni religiose che le immagini sacre assunsero sono sintetizzate perfettamente dal Catholicon scritto da Giovanni di Genova alla fine del tredicesimo secolo e riprese poi dal frate domenicano Michele da Carcano nel 1492 che riassumono l’importanza delle immagini per la religione in tre ragioni principali:

• Per l’istruzione, sostituendo i libri, il messaggio poteva arrivare anche al popolo analfabeta che poteva imparare i sacramenti della fede e della salvezza anche senza saper leggere le sacre scritture;

• L’osservazione quotidiana poteva rendere le immagini del mistero dell’incarnazione e degli esempi dei Santi impresse maggiormente nella memoria perché la gente ricorda di più quello che vede di quello che sente;

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• Il sentimento della devozione, era più efficacemente suscitato dall’osservazione delle cose piuttosto che dall’ascolto di queste;

La chiesa chiedeva la realizzazione di dipinti che creassero un ricordo delle immagini chiaro, vivo e lucido nella mente delle persone e che riuscisse a suscitare un certo phatos tra i fedeli. Intorno al 1300, incominciò un cambiamento strutturale della chiesa con vaste ristrutturazioni, sostituzioni e ampliamenti degli edifici ecclesiastici.

Questo continuo bisogno della Chiesa di un costante aumento dell’apparato liturgico e logistico scaturiva da un continuo aumento di sacerdoti e monaci che portò ad una vera e propria trasformazione della Chiesa che può essere distinta in quattro fasi:

1. La prima fase avvenne dall’undicesimo al dodicesimo secolo e venne caratterizzata dalla crescita esponenziale del clero secolare attraverso la rete parrocchiale e vescovile;

2. La seconda fase, nel tredicesimo secolo, vide la nascita dei nuovi ordini Mendicanti: i Francescani, i Domenicani, i Carmelitani, i Serviti e gli Agostiniani. Questi furono attivi all’interno delle città e grazie alla loro vicinanza con i cittadini riuscirono ad ottenere i finanziamenti necessari per fondazioni di nuovi conventi e monasteri, questo comportò una crescita degli edifici di enormi proporzioni;

3. La terza fase, dal tredicesimo al sedicesimo secolo, si caratterizzò per la riforma all’interno degli ordini monastici e di quelli mendicanti che portò ad un numero ancora più alto di strutture e alle ristrutturazioni degli edifici già esistenti;

4. La quarta fase, sempre durante il sedicesimo secolo, si contrassegnò per l’avvento della Controriforma, cioè con la riforma del clero secolare, che provocò un’ulteriore costruzione di edifici che si protrasse anche durante la prima metà del diciassettesimo secolo.

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2.1 Le iniziative della chiesa

I costi per la realizzazione di queste nuove strutture e, più in generale, per l’ampliamento di queste istituzioni, erano sostenuti localmente tramite la vendita diretta di servizi rivolti al popolo. Nel tredicesimo secolo, dopo le gravi pestilenze, e in seguito alla situazione politica ed economica complicata, è probabile che la gente stava attraversando un periodo di inquietudine e si rivolgeva alla chiesa per porne rimedio: uno strumento che ebbe un grande successo fu lo sviluppo della dottrina delle indulgenze: tramite questo era possibile comunicare con i propri cari nell’aldilà e allo stesso tempo beneficiare se stessi.

In senso prettamente economico, l’indulgenza fu un mezzo che estese a tutta la popolazione un tipo di investimenti che fino ad allora apparteneva esclusivamente all’aristocrazia. In senso materiale, come spiega Goldthwaite (1993), vi fu un aumento enorme di altari secondari che portò il clero di alcune chiese di Firenze a riuscire ad amministrare anche un centinaio di messe al giorno, questo creò una vera e propria “industria delle messe”.

Un’altra pratica che crebbe rapidamente in questo periodo, sempre incentivata e ufficializzata dalla Chiesa, fu il culto dei santi, questi assunsero il ruolo di intercessori presso le divinità e quasi tutte le città avevano i propri santi patroni, una città grande come Firenze vantava addirittura una dozzina di santi locali.

Le città politicizzarono il culto dei santi per esaltare il patriottismo cittadino che si radicò profondamente nella sensibilità religiosa popolare dato il rapporto diretto che la gente poteva avere con essi. Questo fenomeno determinò un’esplosione della richiesta di immagini dei santi.

2.2. Le iniziative laiche

Di pari passo con la proliferazione di nuovi ordini ecclesiastici, vennero ad aggiungersi alcune istituzioni laiche, le più diffuse furono le confraternite. Esse rappresentavano le associazioni di individui tese alla pratica in comune di attività religiose, e usufruivano di servizi messi a disposizione soprattutto degli Ordini

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mendicanti. Intorno al quattordicesimo secolo si potevano distinguere due tipi di confraternite, quella dei laudesi che si dedicavano alla preghiera e quella dei flagellanti che si sottomettevano ad una dura disciplina penitenziale.

Spesso le confraternite eseguivano una forma di committenza collettiva offrendo la possibilità, per le persone che non potevano permetterselo, di accedere ad alcuni servizi offerti dalla chiesa. Col tempo esse arrivarono ad occupare uno dei primi posti nelle committenze dell’arte sacra ordinando pregevoli oggetti d’arte: inizialmente acquistarono gli altari nelle chiese, successivamente costruirono vere e proprie cappelle private e verso la fine del quattordicesimo secolo erigevano oratori e altri edifici.

2.3. Le committenze private

la distinzione tra pubblico e privato non si adatta benissimo alla funzione che le opere d’arte avevano nel quindicesimo secolo. Le commissioni private, infatti, molto spesso avevano funzioni sociali o erano collocate in luoghi pubblici.

Il fenomeno delle committenze private nelle chiese, definito da Goldthwaite (1993) come “ la privatizzazione della chiesa1” consisteva nell’acquisto degli spazi liturgici da parte dei cittadini laici.

Iniziò con l’ appropriazione degli altari dove le famiglie potevano celebrare le loro messe di suffragio per poi arrivare alla costruzione di intere cappelle private tanto che le famiglie più abbienti ne possedevano spesso anche più di una.

L’altare portatile costituiva solo il primo passo verso la costruzione di una cappella privata, una tra le differenze principali tra le due concessioni risiedeva nel fatto che l’altare valeva ad personam mentre la cappella in perpetum.

Le prime cappelle private fiorentine furono costruite dai Bardi, dai Peruzzi e da altre famiglie intorno al transetto di Santa Croce, pian piano i committenti potevano occupare anche le parti della navata, sacrestie o le sale capitolari. Una volta che tutti gli spazi disponibili erano assegnati, si procedeva alla costruzione delle cappelle ex novo annesse al corpo della navata.

                                                                                                               

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La domanda per le cappelle diventò il più importante catalizzatore per la ricostruzione delle chiese nel quindicesimo secolo.

Con l’acquisto di altari o di cappelle si poneva il problema della loro decorazione pittorica. Nel trecento si ricorreva ancora all’affresco, ma nel quattrocento il ruolo principale fu conquistato dalle pale d’altare. In seguito, si ritrovano molti singoli quadri offerti da donatori, spesso collocati sui plutei del coro delle chiese.

“La pietà non era più il maggior movente delle donazioni e lo scopo di procurare onore e fama alla propria famiglia attraverso la donazione di edifici sacri si evidenzia chiaramente nella presenza dello stemma del donatore o del suo nome in un’iscrizione. Gli stemmi si ritrovano anche sulla facciata della chiese, all’interno delle cappelle e sulle pale d’altare, quest’ultime dimostravano chiaramente la loro appartenenza poiché vi erano rappresentati i santi protettori del committente o addirittura i ritratti dei donatori o gli stemmi della famiglia. Castello Quaratesi voleva far costruire a sue spese la facciata della chiesa di Santa Croce, ma quando non gli fu concesso di apporvi il suo stemma non volle più saperne di mettere in opera il progetto2”.

2.4 Il dinamismo interno alla domanda

La ricchezza continuò a crescere durante tutto il periodo che va dal quattordicesimo al diciassettesimo secolo tanto da superare le effettive opportunità di investimento: gli sbocchi commerciali internazionali si chiusero e la mancata realizzazione di innovazioni tecnologiche precluse la nascita di industrie su vasta scala. Questa abbondanza di denaro che non poté essere investita, portò ad una crescita sostanziale di consumi. L’estensione della domanda di beni voluttuari fu la manifestazione più tangibile e diretta della nascita della cultura materiale.

Il desiderio di possesso diede origine a quella che oggi definiamo come la moderna cultura del consumo, intesa come la smania di comprare per godere di un determinato bene, questo fenomeno interessò in primo piano l’arte: la necessità di possedere un dipinto, andava oltre alla sua mera funzione, essendo in grado di

                                                                                                               

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appagare l’acquirente sotto vari aspetti come la devozione religiosa, l’esibizione dello status sociale, la valenza estetica e culturale che apportava.

La maggiore ricchezza, dal lato della domanda, e gli sforzi degli artisti che lottavano per conquistarsi più visibilità nel mercato, dal lato dell’offerta, portarono ad un proliferare di oggetti d’arte sacra e al successo degli artisti.

Il dinamismo interno alla domanda, nel mercato delle opere d’arte religiose, secondo Goldthwaite (1993), era generato principalmente da due fattori:

• La competizione

Come l’innovazione, con l’introduzione di qualcosa di nuovo, è in grado di catturare l’attenzione dei potenziali consumatori, l’effetto visivo suscitato porta all’imitazione e allo sviluppo di opere simili: questo processo scatena la competizione.

Già nel quinto secolo alcune iscrizioni testimoniano che la competizione fu un forte incentivo per la costruzione di nuove chiese. Nel contesto italiano, le costruzioni pubbliche, erano viste come espressione di rivalità tra i comuni e la formulazione del concetto di magnificenza nel Rinascimento aprì le porte per una forte competizione tra le famiglie potenti che si sfidavano nel commissionare le migliori opere d’arte e nell’acquistare le più sontuose abitazioni.

A Venezia, il governo promosse un forte senso civico che echeggiava con l’ambito status di grande. La competizione diventò il motivo principale che stava alla base delle commissioni di famosi altari e la rivalità tra patroni rappresentò la ragione per cui questi sponsorizzavano gare tra gli artisti per ottenere il miglior prodotto possibile. La competizione, una volta innescata e inserita nel mercato, ha incrementato la domanda ed alzato il livello di spesa.

• La moda

Le nuove tendenze, invece, risvegliano la domanda per ottenere qualcosa non necessariamente di migliore, ma di diverso. I pittori di opere religiose si resero conto del potenziale dei loro prodotti per la variazione di forme pittoriche in

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risposta al mutevole cambio di gusti, stili, idee, sentimenti derivanti dalla sensibilità religiosa così riuscendo a rimanere in sintonia con la crescita della domanda attraverso innovazioni di prodotti e di processi, ricordando che il potenziale di mercato a disposizione per le arti pittoriche era enorme.

Già in molti contratti tra committenti e artisti nel Trecento si ritrovano le istruzioni esplicite di imitazione di un modello, di un’opera già esistente. Inizialmente, si trattava di desiderio di eccellere tra gli ordini religiosi, poi tra le confraternite, e infine tra i committenti privati. Anche i Comuni gareggiavano tra loro, soprattutto con le cattedrali che rappresentavano i simboli delle città. Firenze è un caso particolarmente significativo qui venne introdotta la forma di cupola per il Duomo.

Nel quindicesimo secolo, ebbero luogo sostituzioni e spostamenti come preludio di future destrutturazioni, a Venezia, le quattro confraternite “Grandi” erano poste in diretta concorrenza, e le seguivano anche le corporazioni e sostituivano frequentemente le pale d’altare per seguire le ultime tendenze.

I polittici che hanno mantenuto la propria struttura e la propria collocazione hanno potuto farlo o grazie alla loro celebrità locale, come accadde per la Pala di San Zeno realizzata da Andrea Mantegna a Verona o, in alcuni casi, perché mancava l’iniziativa o i fondi da parte dei religiosi.

2.5. La generazione di cultura pittorica

A partire dalla fine del tredicesimo secolo, l’Italia, più degli altri stati Europei, iniziava a vedere le proprie esperienze religiose sempre più incentrate su nuove forme pittoriche. Le vite degli italiani furono come riempite di immagini tanto che il simbolismo e l’allegorismo divennero ossessioni e ogni concetto mentale venne convertito in immagine pittorica: l’arte avvolse totalmente la vita delle persone e, viceversa, la vita fu completamente avvolta dall’arte.

La funzione didattica delle immagini fu sviluppata da parte della chiesa in associazione con la loro missione di predicazione.

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Le innovazioni iconografiche prevedevano che le figure di Cristo, della Madonna e dei santi venissero umanizzate nelle loro raffigurazioni: in tal modo, chi si trovava ad osservarle, poteva stabilire una relazione personale ed emotiva con loro.

Alla fine del quindicesimo secolo, la produzione di decorazioni pittoriche di chiese, in Italia, aveva raggiunto un più alto livello che nel resto di Europa.

Con la diffusione di dipinti meno costosi nel mercato, si diffuse l’usanza di inserire nelle abitazioni opere religiose sotto l’incoraggiamento della chiesa che ricordava l’importanza di avere questi dipinti nelle case specialmente ritratti di santi, vergini per la crescita spirituale e devozionale personale.

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3. LA DOMANDA DI ARTE LAICA

Il Rinascimento italiano segna, per la storia dell’arte profana, un cambiamento ancora maggiore rispetto a quello prodotto per l’arte sacra.

Un nuovo mercato per questa tipologia di beni fu generata dai profondi cambiamenti sociali ed economici e dalle nuove abitudini ed esigenze dei consumatori.

La Chiesa, fino ad allora, aveva dichiarato una forte diffidenza basata su ipotesi teologiche e religiose sulla appropriatezza dell’economia del profitto. La rigida posizione assunta dalle istituzioni ecclesiastiche era vista dai cittadini come un divieto al consumo voluttuario privato e poneva un freno enorme allo sviluppo dell’arte secolare.

La Chiesa incitava i ricchi alla carità e alla beneficienza e cercava di concentrare la domanda verso di essa, ma non riuscì a bloccare per sempre la pittura confinandola esclusivamente nel campo della religione.

Durante il quindicesimo secolo i cittadini divennero più scettici riguardo queste restrizioni ecclesiastiche, gli umanisti poi, una volta entrati in stretto contatto con la classe ricca, al contrario degli scolastici, non si ponevano problemi sulla legittimità dei mezzi rivolti verso il profitto e definivano l’utilità della ricchezza come la ricerca della gloria.

“Dopo l’antichità classica il rinascimento è la prima epoca che offre una produzione rilevante di arte profana comprendente anche nuovi generi creati soprattutto per arricchire la casa del ricco borghese che al fastoso tono di rappresentanza delle corti preferisce per le abitazione un tono confortevole ed intimo3”.

La situazione Italiana si caratterizzava per la potenza assunta dalle città e dai gruppi dominanti che le abitavano questi accettarono il ruolo di promotori della società civica diventando i responsabili delle donazioni ad orfanotrofi, ospedali, confraternite e altre istituzioni addette alla distribuzione delle offerte.

Le corti italiane differivano notevolmente da quelle presenti all’estero e da quelle passate del Medioevo perché risultavano essere molto chiuse, si trattava di una

                                                                                                               

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cerchia di persone molto ristretta, gli umanisti introdussero gli eruditi, poeti ed artisti alle corti, essi erano interpreti della propaganda tesa ad innalzare culturalmente lo status del principe. Le corti più vaste come Roma, Napoli e Milano non erano dinastiche mentre le corti dinastiche erano minuscole e ristrette come Mantova e Ferrara.

Con l’affermazione della propria autonomia, le città-stato, si liberarono dalla sovranità degli imperatori, l’aristocrazia perse la funzione militare e riuscirono a rimuovere l’ideale cavalleresco dopo che i comuni, incominciarono ad ingaggiare i mercenari: la nobiltà fu incoraggiata ad abbandonare il vecchio stile di vita per integrarsi entro la società urbana, il modello feudale divenne sempre più lontano dalla realtà della vita cittadina e si crearono i presupposti per lo sviluppo di nuovi ideali civili civici.

Il mecenatismo civico, da parte dei Comuni, nacque come un’espressione della nuova autonomia conquistata e del nuovo senso estetico per l’edilizia urbana che segnò l’incrinarsi di una mentalità cittadina tradizionalmente ostile alla manifestazione dell’opulenza e della potenza4, verso un nuovo apprezzamento che contagiò i gusti delle persone, sia per quanto riguardava i nuovi monumenti eretti come le cattedrali e i palazzi comunali, sia per quanto interessava i nuovi principi organizzativi e logistici applicati alle città, come l’apertura di strade e piazze e la costruzione pianificata di nuovi sobborghi.

Per quanto riguarda le opere d’arte, in particolare, inizialmente le ordinazioni consistevano soprattutto in doni per chiese e conventi poi, verso la metà del secolo, si cominciò ad ordinare un maggior numero di opere profane per uso privato.

La gente cominciava a sentire il bisogno della pittura come di qualche cosa che partecipasse alla vita quotidiana, come spiega il conoscitore d’arte Berenson (2009), un bisogno presso a poco com’è per noi quello del giornale, un fenomeno normale se consideriamo che, fino all’invenzione della stampa e a parte il linguaggio parlato, la pittura fu il solo modo di comunicare idee alle masse.

                                                                                                               

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3.1. Le abitudini di consumo nelle città

La vita urbana diventò il centro culturale della vita italiana. In questo contesto si svilupparono nuovi valori estetici, sociali ed economici e anche le abitudini di consumo risultano modificate e seguirono principalmente tre concetti:

• Acuta sensibilità estetica e senso civico perseguito con l’abbellimento dell’ambiente architettonico come rappresentanza del potere e della gloria della propria città-stato. I comuni in questa attività profusero tesori, promuovevano nuovi valori politici ed etici, una nuova funzione educativa nei cittadini, un valore che veniva spesso fortificato dal contesto di rivalità che si viveva con gli altri comuni.

Il patriottismo civico ispirò tanto le spese pubbliche rivolte ai monumenti civici, quanto quelle private rivolte agli edifici ecclesiastici e successivamente alle residenze e abitazioni personali;

• Nuovo concetto di nobiltà formato dall’aggregazione di persone provenienti da diversi ceti sociali tanto che nel sedicesimo secolo, “era difficile riuscire a distinguere tra loro i magnati o i membri della nobiltà feudale da un lato, e i patrizi e la borghesia dall’altro. I gruppi dirigenti delle diverse estrazioni si erano in larga maggioranza fusi entro un distinto ceto nobiliare...”5.

La nuova nobiltà era spinta dalla voglia di distinguersi dalla gente comune, dal desiderio di notorietà e dal bisogno di consenso pubblico;

La magnificenza, come razionalizzazione del lusso, è la parola chiave per identificare un uso corretto della ricchezza (Nelson e Zeckhauser, 2008). In questo contesto si diversificava sia dal concetto assunto nella letteratura inglese come sinonimo di magnanimità che dal concetto cristiano di carità, dimostrata con l’ospitalità su grande scala pubblica.

In Italia, il significato sostanziale era l’uso della ricchezza in modo da manifestare un’innata dignità, una virtù che solo i ricchi possedevano.

                                                                                                               

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Per Aristotele esso è considerato come un concetto sociale, che coinvolge un grande gesto realizzato nei confronti della collettività, uno spettacolo sulla scena pubblica, al contrario di Aristotele, Leon Battista Alberti (1404-1472) in essa vede un mezzo per innalzare la fama e il prestigio della famiglia;

L’umanista napoletano Giovanni Pontano (1426-1503) distingue tra pubblico e privato, nei suoi cinque trattati sull’etica dello spendere denaro scritti verso la fine del quindicesimo secolo. Egli definisce due virtù connesse alla spesa pubblica cioè la liberalità e la beneficienza e altre tre legate al consumo privato che sono la magnificenza, lo splendore e la convivenza.

La visione della magnificenza, come spiega Goldthwaite (1993), è in linea con la visione umanistica del tempo essa è rappresentata da quel tipo di spesa, soprattutto, architettonica, che stabilisce la propria presenza pubblica, ma ha una funzione puramente privata.

“I doni alle chiese erano il miglior modo per acquistarsi fama eterna, senza incorrere nel biasimo pubblico. Ciò spiega in parte la sproporzione tra l’arte sacra e l’arte profana ancora nella prima metà del Quattrocento, quando cioè la pietà non era più il maggior movente delle donazioni”.6

L’élite urbana italiana indirizzò i propri consumi, soprattutto nelle opere architettoniche, per soddisfare un impulso sociale, per poter brillare come figure pubbliche sia come capi di clan famigliari che come magnati fortemente legati ad uno spirito di fazione e per conquistare l’egemonia culturale e politica.

Giovanni Paolo Rucellai (1403-1481) che è stato un importante mecenate della Firenze rinascimentale, provò a chiarire le motivazioni che lo spingevano a commissionare grandi opere d’arte, egli spiega che, oltre alla soddisfazione personale di possedere ciò che piace, queste commissioni gli recavano in assoluto il più grande piacere possibile perché servivano la gloria di Dio, l’onore della città e la commemorazione di lui stesso.

La logica, secondo Baxandall (1972), sussisteva nel fatto che spendere soldi in attività pubbliche, come la costruzione di chiese o la realizzazione di opere d’arte, era

                                                                                                               

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una virtù che uomini potenti come lui dovevano necessariamente avere, valeva come un rimborso atteso dalla società ed era paragonabile a qualcosa tra una donazione caritatevole e una tassa da pagare alla Chiesa.

Questo meccanismo per cui i più facoltosi dovevano dimostrare di essere più degli altri innescò presto una competizione sociale.

3.2. L’architettura e l’ideologia edilizia

L’architettura suscitò sempre più interesse insieme al desiderio di migliorare la città e di arricchirne lo splendore, i nuovi palazzi dovevano conciliare le esigenze di vita degli abitanti al rinnovamento del volto urbano delle città, avvicinandosi, al contempo, ai prototipi dell’antichità.

Non si è mai perduta interamente la tradizione e la sensibilità classica anche se gli autori antichi si riferivano alla maestà delle grandi opere pubbliche come terme, teatri, portici, ma questi non avevano nessun collegamento diretto col tipo di edifici richiesti in quel momento.

Dato che nel Medioevo non veniva attribuito alcun valore estetico alle costruzioni secolari, si dovette reinventare una nuova ideologia del costruire su basi civiche.

Il desiderio di brillare, di farsi un monumento, il prestigio che ne derivava, giocano un ruolo non minore e forse più rilevante dell’esigenza estetica.

Questi moventi non erano estranei neanche alle donazioni di opere d’arte alle chiese, ma le condizioni sono ora mutate, così che dalla metà del Quattrocento, contemporaneamente con il mutamento di stile, si afferma un forte aumento degli incarichi destinati ad abitazioni private: i cittadini più ricchi si curano molto più dei loro palazzi che delle cappelle di famiglia.

Queste committenze non andavano a spese della diminuzione delle committenze pubbliche, ma piuttosto erano una nuova forma di competitività; i palazzi, decorati come mai prima, le residenze che assomigliavano alle fortificazioni rurali, con torri e cinta murarie, fornivano al suo committente la notorietà necessaria a stabilire una forte identità pubblica.

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Il desiderio di emergere dell’alta borghesia, il bisogno di notorietà e di approvazione iniziò così a manifestarsi anche nell’edilizia privata, in questo processo le architetture domestiche emersero come forme d’arte comprendendo non solo le residenze urbane, ma anche le ville di campagna e i loro magnifici giardini.

Questo avveniva non solo per passione e per propensioni nei gusti e nello stile, ma innescando un gioco di competizione sociale tra ricchi che vedevano l’ostentazione della ricchezza come espressione del potere e della grandezza della famiglia: ”Italians as no other peoples in Europe found tangible evidence of the grandeur and immortality of architecture.” 7

L’architettura divenne uno dei più importanti segni di nobiltà nella società italiana: presupponeva ricchezza, rimarcava l’appartenenza ad uno status sociale e poteva implicare speciali forme di conoscenza e di valori morali.

Questo insieme di fenomeni e di mode comportamentali, come spiega Varotti (1998), veniva a legarsi, con esiti ideologici e persuasivi, con una vera e propria esaltazione dell’individuo all’interno della società.

3.3. Le forniture interne

Le nuove costruzioni erano, inoltre, nuove opportunità di lavoro per gli artisti che dovevano provvedere ad abbellire un numero elevato di stanze ed i loro interni furono sempre più decorati ed arricchiti da oggetti preziosi.

Nel Trecento, gli interni delle abitazioni erano abbelliti solamente dalle decorazioni di pareti e soffitti, era diffuso soprattutto l’uso di tessuti da parati che esercitavano solo un ruolo ornamentale, mentre gli arazzi più preziosi venivano adoperati soltanto durante le occasioni speciali.

Le abitazioni erano arredate sommariamente con pezzi sparsi per casa. Quasi tutti gli arredi di valore erano concentrati nella camera e nell’anticamera del capofamiglia, mentre tutto le altre stanze erano quasi del tutto spoglie.

                                                                                                               

7 “Gli italiani come nessun altro popolo in Europa trovano nell’architettura una prova tangibile di

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Con il passare del tempo, incominciò un sistematico apprezzamento per i beni durevoli e venne data sempre più importanza alle forniture interne delle abitazioni, questo progresso trova la sua espressione nel “Della famiglia” di Leon Battista Alberti (1404-1472) dove definisce il concetto di masserizia.

Esso in origine, come spiega Goldthwaite (1993), significava “i risparmi”, ma qui definisce gli arredi domestici, il cuore dell’esistenza della famiglia, del suo onore e la sua solidarietà.

Nel quindicesimo secolo, i dipinti, appaiono come decorazioni di cassapanche e letti e mobili soprattutto posizionati sul pavimento. I dipinti apparvero appesi sulle pareti come forme indipendenti di ornamento solo nel tardo Quattrocento. Per tutto il Cinquecento anche il resto dell’abitazione si abbellisce con pezzi d’arredo e compaiano anche i cicli di affreschi narrativi e i ritratti di importanti personaggi.

Nelle pareti dei soggiorni delle case più distinte, iniziano ad essere posizionati, nelle zone più alte delle pareti e libere dai dipinti murali, grandi dipinti su tavola o tela. L’arte sacra si mescola con l’arte profana.

I dipinti su tela venivano usati più spesso rispetto a quelli su tavola perché essendo l’esecuzione molto più sommaria risultava anche economicamente più vantaggiosa e venivano raffigurati principalmente i temi biblici o allegorici, ma anche soggetti meno ortodossi come i banchetti, i paesaggi e le architetture.

La grande maggioranza dei dipinti con soggetti profani venivano ordinati e creati per essere collocati in punti precisi: nei pannelli di rivestimento o in quelli dei mobili più grandi, o nelle zone più alte della parete.

Il gruppo di gran lunga più numeroso rimanevano le immagini rappresentanti soggetti religiosi, che costituivano una parte indispensabile dell’arredo domestico. Infatti, neanche nel pieno Rinascimento, le ordinazioni per questi dipinti diminuirono; anzi, venivano talvolta richieste ai più grandi maestri così da trasformare le immagini religiose in qualcosa che furono giustamente chiamate opere d’arte.

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3.4. Il consumismo e la generazione di cultura

Secondo Goldthwaite (2003), “Consumption was a creative force to construct a cultural identity” 8, l’arte pittorica pertanto venne ad assumere una varietà di significati

culturali che prima di questa evoluzione non possedeva.

Gli italiani scoprirono nuovi valori e nuovi piaceri, incentrarono le loro vite secondo rinnovate abitudini. La dinamica di questo cambiamento può essere rappresentata dal desiderio di comunicare qualcosa di loro stessi, attraverso l’interazione tra le persone e gli oggetti e questo può essere considerato un vero e proprio sviluppo culturale.

L’arte evolse in differenti modi che non erano sempre distinguibili, un oggetto religioso, un suppellettile, un opera d’arte, un’affermazione culturale e, man mano che il loro significato diventava più complesso, coinvolgevano le persone più intimamente con l’oggetto divenendo un cult.

La sensibilità fu ulteriormente affinata una volta che i dipinti d’arte sacra furono inseriti nelle abitazioni insieme ai suppellettili che decoravano le case, ma la stanza fu subito pronta a subire un ulteriore trasformazione con l’inserimento di quadri con soggetti profani, aprendo così uno sbocco per l'espressione visiva dei crescenti interessi secolari del tempo.

La teoria per cui la pittura diventò un oggetto con cui il proprietario stabiliva un’identità speciale con il mondo pubblico fece scaturire l’importanza sociale del mecenatismo.

Dalla metà del Cinquecento questa tesi diventò talmente forte che Cosimo I poté utilizzarla, creando un mito sulla missione storica dei Medici, come patroni della città, tornando indietro di un secolo a Cosimo il Vecchio e a Lorenzo il Magnifico, per stabilire le sue credenziali come nuovo principe.

Il ruolo politico dell’arte è essenziale per capire il patronato nel tardo Rinascimento: L’arte divenne una questione di gusti con cui le persone potevano dimostrare la loro vera ricchezza.

                                                                                                               

8 “il fenomeno del consumo fu una forza creatrice di una nuova identità culturale”, , Goldthwaite, (1993).

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L’ostentazione e l’esaltazione del singolo, come celebrazione della capacità individuale e delle doti soggettive, erano elementi necessari per capire il mondo ed i meccanismi della politica.

3.5. Committenza pubblica e privata

Le più grandi imprese nella prima metà del Quattrocento erano nell’ambito ecclesiastico, ma i committenti di questi progetti, secondo Hauser (2001), non erano per lo più i prelati, ma i laici che ne rappresentavano e ne curavano gli interessi, cioè da un lato il Comune, le grandi Corporazioni e le confraternite religiose dall’altro le fondazioni private, le famiglie ricche e illustri.

L’impulso di elargizione di queste associazioni stava nella speranza di incrementare l’onore e la fama della famiglia e il credito personale innalzando così anche il prestigio della città.

All’inizio del Quattrocento, la committenza privata riguardava quasi esclusivamente, la donazione di arredi per le chiese e per i conventi.

I primi palazzi che furono costruiti erano privi di ornamentazioni esterne e assumevano ancora l’aspetto della fortezza trecentesca, così avveniva anche per le chiese che una volta completate e rese agibili per il servizio, perdevano l’interesse da parte dei committenti e gli esterni delle chiese rimanevano spesso incompiuti, o neanche incominciati; le prime facciate articolate in modo più ricco le ritroviamo grazie a Rucellai e ai Medici.

I principi medioevali, con la loro passione nell’ostentare ricchezza come simbolo di potere, collezionavano oggetti preziosi d’oro e d’argento; durante il Rinascimento, gli italiani facoltosi, come spiega Goldthwaite (1993), fecero lo stesso, con la particolare differenza che gli accumuli di tesori assunsero anche un valore culturale, tali raccolte, incarnavano l'ideale umanista con interessi che spaziavano dalla natura all'arte.

Cresce il rispetto per le grandi personalità artistiche. il primo che supera la vecchia mentalità è proprio Cosimo de Medici (1389-1464) che sopporta le indolenze riguardo al lavoro di Fra Filippo Lippi (1406-1469) perché teneva in altissima considerazione il suo talento.

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Tavola 3: Filippo Lippi, 1437, Pala Barbadori, Parigi, Museo del Louvre

In questo periodo nacque la figura del collezionista, come Roberto Martelli che era un appassionato collezionista di Donatello.

In breve periodo, accanto alla figura del committente che ordina un oggetto con una precisa funzione e destinazione, per un impiego determinato, nascono le figure del collezionista che si interessa all’opera in sé e all’artista che l’ha prodotta e con lui quella intermediaria del negoziatore.

Questo sempre più frequente intervento dei conoscitori dell’arte per conto dei principi di altri paesi, creò gradualmente un dislivello nella scala dei prezzi che iniziarono ad aumentare il loro valore rispetto al costo del lavoro.

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4. I CONTRATTI PER OPERE D’ARTE

I contratti, stipulati tra i pittori e i clienti, erano dei documenti con valore legale in tutta Italia e rappresentano gli atti più importanti che ci rimangono per capire la natura delle decisioni intraprese che stavano alla base della realizzazione di un’opera d’arte. 9

Oltre alle condizioni convenzionali tra le parti, tra cui non potevano mancare decisioni riguardanti i materiali, il pagamento, il soggetto dell’opera e le scadenze, i contratti, risultano essere fondamentali per capire alcune procedure e mutamenti che hanno caratterizzato il processo della commissione durante il periodo del Rinascimento.

Nel Trecento, gli artisti si trovavano in una situazione di completa subordinazione, i contratti seguivano la formula di esecuzione di un’opera per un dominus, ma con il passare del tempo, anche grazie alla maggiore indipendenza dalle corporazioni che gli artisti italiani vantavano rispetto ai colleghi esteri, riuscirono ad imporsi per il loro valore, aumentando così notevolmente il loro potere contrattuale.

Questa condizione privilegiata, conquistata tramite il modo di lavorare errante di corte in corte e di città in città, implicava una minor soggezione alle prescrizioni corporative le quali vigevano solo per i rapporti intrapresi entro un certo territorio ed erano vincolanti solo entro quei confini.

Nel cinquecento l’artista si emancipa ulteriormente, avvicinandosi alla figura moderna di imprenditore. Il pittore inizia a sfruttare il mercato a suo favore per ricavare maggiori profitti, diventa responsabile per il risultato finale, la sua esperienza e il suo talento non vengono solamente riconosciute, ma diventano fondamentali nel processo di decisione della committenza.

I contratti per opere d’arte pittoriche riguardavano principalmente la commissione di pale d’altare che rappresentavano le più importanti forme di produzione d’arte nel

                                                                                                               

9 Le commissioni possono essere studiate meglio attraverso lo studio dei contratti, O'Malley (2005) si

dedica allo studio del valore dei contratti per pale d’altare e dei loro prezzi in Italia nel quindicesimo e sedicesimo secolo.

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Rinascimento italiano.

Inizialmente creati per impreziosire gli altari principali delle chiese, cominciarono poi ad essere commissionati anche per gli altari secondari, posizionati nelle cappelle, erano inoltre prodotti per altre aree con funzioni sia religiose che sociali, come le camere del consiglio dove i governatori si riunivano in assemblea e le stanze dove le confraternite si incontravano.

Le pale d’altare erano più di un semplice dipinto, consistevano in oggetti composti anche da cornici intagliate generalmente in legno, ma la maggior parte di queste (che spesso non si sono conservate) erano finemente realizzate ed erano considerate alla stregua della parte pittorica, tanto da incidere in modo significativo sul valore totale dell’opera.

La quota pagata al legnaiuolo10 variava considerevolmente da commissione a

commissione, sia in base ad aspetti tangibili, come la misura e la complessità della cornice richiesta, sia in base ad aspetti intangibili come le capacità e la reputazione dell’artista.

L’importanza dell’incorniciatura, come sottolinea Chastel (2006), risulta evidente nei rari casi in cui un polittico ha conservato le sue originarie articolazioni, ad esempio, la pala d’altare di Giovanni Bellini (1430-1516) per la chiesa dei Frari a Venezia, con il suo assemblaggio di legno dorato, opera di Jacopo da Faenza (1488), è una di queste notevoli eccezioni: essa fa dimenticare il muro di fondo trasformando lo spazio della cappella.

La struttura in legno era solo uno dei materiali che contribuivano al costo oggettivo e calcolabile del lavoro: i pigmenti utilizzati, le dorature ed alcune particolari procedure di produzione erano variabili fondamentali per la determinazione del costo base del lavoro.

                                                                                                               

10 Nome dei realizzatori della cornice per la pala d’altare che era realizzata dagli intagliatori di legno o

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Alcune stipulazioni, riguardanti la produzione, avevano a che fare con la costruzione del nuovo lavoro, mentre altre riguardavano il trasporto, l’installazione e la manutenzione.

Le clausole contrattuali che riguardavano la produzione diretta, delineavano la responsabilità di ciascuna delle parti per quanto riguardava il mantenimento dell’impegno preso e i passaggi necessari dalla realizzazione alla consegna dell’opera.

Questi elementi che includevano la preparazione, la doratura, l’imballaggio, il trasporto l’installazione e la manutenzione avevano un impatto diretto sulla formazione dei costi per questo erano indirizzati e registrati precisamente.

La doratura sullo sfondo poteva arrivare ad incidere anche per il trenta o il quaranta percento dell’intero importo. Anche il colore blu oltremare era molto costoso e direttamente proporzionale alla qualità della tonalità scelta che in molti casi era decisa dal pittore.

Come spiega O’Malley (2005), molte delle commissioni erano organizzate in modo tale che la quota negoziata dal pittore copriva i costi dei colori che servivano per la realizzazione della sua nuova opera e in molti casi includeva anche il prezzo per la doratura. Per questa ragione misurare il valore relativo dei pigmenti e dell’oro è particolarmente importante per capire i costi reali della produzione e determinare il valore del compenso dell’artista11.

Nel corso del Quattrocento, gradualmente, nei contratti stipulati tra committente e artista, l’uso dei materiali perde importanza, mentre l’abilità tecnica del pittore, a cui si chiede specificatamente di intervenire personalmente in determinate parti dell’opera o di dipingere sullo sfondo delle raffigurazioni al posto delle dorature, assume sempre più rilievo.

                                                                                                               

11 All’ inizio del quattordicesimo secolo l’invenzione e l’ingegno erano attesi dai committenti, ma spesso

non erano pagati adeguatamente, secondo Thomas (1995), i patroni, in molti casi, percepivano l'idea originaria come loro, sostenendo, a volte, addirittura, come il poeta Carbone ha scritto, che "i meriti dei principi si riflettono nei talenti dei loro sudditi", e che quindi il talento di un artista è solo un canale per trasmettere il proprio valore e non merita un premio speciale. Syson e Thornton (2001) riportano nel loro lavoro alcuni esempi come quello del patrono Isabella d'Este e il caso dell'artista Cossa, che si lamentava di essere stato pagato come un operaio.

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L’opera inizia ad essere valutata non in base ai materiali preziosi con cui è eseguita, ma in quanto realizzata da un abile artefice e il talento artistico inizia a divenire una discriminante importante nel giudizio di un dipinto.

Come spiega Chastel (2006), si ha una sorta di caccia alla celebrità che non è più la ricerca del bravo artigiano. Ne sono conseguenza andirivieni più frequenti da una città all’altra che favoriscono un certo abbattimento delle barriere e l’informazione diffusa rende impossibile che le iniziative restino localizzate.

Come ricorda O’Malley (2005), le clausole tendevano a sottolineare come il funzionamento di un’impresa di pittura di successo non si basasse solo sul talento dell’artista, ma anche sul possesso di altre doti come quella di saper gestire le abilità degli aiutanti con forti tecniche di project management, infatti molti maestri potrebbero essere considerati pittori-managers. La clausola a sua mano è particolarmente interessante a questo riguardo: mette in evidenza la capacità di gestione praticate dai maestri stipulando espressamente che fosse il pittore designato a realizzare il lavoro.12

4.1 Il valore delle opere d’arte ancora incompiute

Essendo complicato sia stabilire la qualità di un’opera d’arte ex ante che verificarla ex post, il contratto risultava spesso incompleto e la negoziazione tra le parti per la determinazione del prezzo era influenzata da una varietà di fattori che comprendeva sia elementi oggettivi che elementi soggettivi che erano legati all’incompletezza del contratto.

L’evidenza indica che per entrambe le parti contrattuali, gli elementi quantificabili in pratica, come il numero delle figure e la misura del lavoro, non erano le sole variabili considerate e molte decisioni di prezzo erano basate su fattori contingenti.

Potenziali clienti potevano basarsi semplicemente sul budget che ritenevano più appropriato spendere, in molti casi, soprattutto all’inizio del Rinascimento, i committenti si preoccupavano più dei costi che dell’opera in sé, la maggioranza dei

                                                                                                               

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contratti includeva specificazioni sull’uso dei materiali, in particolar modo sull’impiego di quelli più costosi come i pigmenti d’oro e il blu oltremare.

Le discussioni sull’allocazione del compenso erano incentrate su problemi di qualità ed eccellenza, mentre non ci sono registrazioni prima del sedicesimo secolo che riguardassero contrasti sul valore dei dipinti.

I pittori, quando iniziarono a rappresentare una parte attiva nel processo di commissione, valutavano una serie di fattori prima di accettare o meno un nuovo impiego. I fattori intangibili che influenzavano la valutazione dell’artista ed entravano in gioco in vario modo nel processo di determinazione del prezzo possono essere riassunti in quattro principali:

• Lo status dei clienti

Lavorare per importanti e potenti personaggi offriva molta visibilità all’artista, inoltre, questi molto spesso possedendo una vasta rete di relazioni che potevano portare ad altre prestigiose commissioni;

• Il valore sociale

L’importanza di particolari siti dava lustro al maestro e la percezione del proprio talento era importante tanto quanto la stima di elementi oggettivi; • Le commissioni multiple

Incidevano sul prezzo finale che risultava ridotto grazie ad uno “sconto quantitativo” che veniva applicato;

• Il valore del patriottismo

Questo concetto era particolarmente sentito tanto che spesso i pittori accettavano volentieri compensi minori se provenienti dalle loro città natali;

Per capire meglio queste variazioni è significativo l’esempio del maestro Neri di Bicci (1419-1491) che dipinse cinque pale d’altare della stessa dimensione per clienti differenti tra il 1455 e il 1469. Le attività di produzione che intraprese in quattro lavori su cinque erano praticamente identiche, ma i prezzi concordati risultavano essere notevolmente diversi. Il numero di figure varia, ma secondo gli autori De Marchi e Van Miegroet (2006), i cambiamenti di prezzo non sono strettamente connessi con questo,

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