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Haim Steinbach: il wallpaper nell’“universo delle cose”; note conclusive su Peter Halley, produzioni affini al wallpaper.

III.3. Il wallpaper negli anni Ottanta, tra appropriazionismo e linguaggi postmediali.

III.3.2 Haim Steinbach: il wallpaper nell’“universo delle cose”; note conclusive su Peter Halley, produzioni affini al wallpaper.

A tratti vicino – formalmente – al lavoro di Armleder è quello di Haim Steinbach (Rehovot, Israele, 1944) residente negli Stati Uniti sin dal 1957; lavoro più volte analizzato, in riferimento all’Inespressionismo, da Germano Celant il quale ha poeticamente individuato, nella disorientante condizione di esule del giovane Haim approdato nel nuovo continente, una naturale propensione a ricercare nella dimensione

96 L. Bovier in L. Bovier (a cura di), op. cit., p.146.

97 Ci si riferisce, in questo caso, tanto ad opere dello stesso Armleder quanto a lavori di altri, ordinati nelle vesti di curatore. Ad esempio: “A fair show”, a cura di J. Armleder. Milano, Massimo De Carlo, 2007.

98 Ivi, p.160.

99 Cfr. Q. Latimer, op. cit. 100 Cfr. paragrafo I.2.5.

101 L. Bovier in L. Bovier (a cura di), op. cit., p.160.

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degli oggetti103, della confortante disposizione domestica degli stessi, un ambiente accogliente con il quale iniziare a relazionarsi con la società americana. Steinbach sembra accettare di buon grado tale introduzione al suo lavoro, se è vero che più volte ricorderà la lettura che ne darà Celant come calzante e significativa.

Il modus operandi di Steinbach si relaziona al sistema degli oggetti sin dai primi anni Settanta, sostanziando quello che era stato, già negli anni della formazione, un forte interesse verso le modalità combinatorie del Surrealismo. E’ quello, per la società occidentale, il momento di un netto cambio di mentalità e di percezione e accettazione critica (o rigetto) delle ‘cose’, del loro status riscontrabile nel quotidiano.

L’accumulo di oggetti (scaturiti da una produzione che si profila già, largamente, di massa) rende il concetto di ‘merce’ fondamentale e preponderante, al punto che – come dichiarerà Steinbach – oggi “noi comunichiamo attraverso gli oggetti proprio come comunichiamo attraverso il linguaggio”104. Ed è ciò che l’artista, dal 1979, inizierà a

fare anche a livello creativo ed espositivo, con la presentazione di Display #7 [fig. 84], un’installazione per l’Artists Space di New York 105

in cui compone diverse strisce di carte da parati commerciali, disposte sul muro, con una serie di scaffali posti a differenti altezze, come su comuni pareti domestiche. Su di essi, disposti ordinatamente, vi sono vasi, piante, soprammobili comunissimi: “silenti, disposti in sequenze numeriche, essi demarcano una linea”, noterà Celant106

. Una linea divisoria tra la parte più vicina a noi, permeata dalla cifra di riconoscibilità degli oggetti, e quella dello sfondo, della carta da parati, che isola la sequenza suggerendone ulteriori e possibili significati, in certo senso posti in abisso107.

103

Celant parla, precisamente, di un “universo delle «cose»” che diviene appiglio e ancora per il suo

“viaggio nel «nuovo mondo». T.d.A. Testo originale: “Steinbach’s plunge into America’s universe of «things» is the anchor he has used for his journey in the «new world»”. G. Celant, Haim Steinbach’s wild, wild, west in “Artforum”, n.56, dicembre 1987, p.7

104

“[…]we communicate through objects just as we communicate through language”. H. Steinbach in

Haim Steinbach by P. Schwenger [intervista di P. Schwenger] in “Bomb Magazine“, n. 121, autunno

2012. Url: < http://bombmagazine.org/article/6767/haim-steinbach>.

E’ da notare inoltre, con Collins & Milazzo, come “nel mondo della pubblicità il linguaggio […] si ammanta di una solennità posticcia, adornandosi di una sorta di ‘grandeur’ hegeliana”104 messa totalmente al servizio di una possibile seduzione da far guadagnare alla merce che si vuole vendere. Collins & Milazzo, op. cit., p.45.

105

“Display #7”. New York, Artists Space, 27 novembre-22 dicembre 1979; v. Url: <http://artistsspace.org/exhibitions/haim-steinbach>.

106 G. Celant, Inespressionismo, op. cit., p.76. 107 Cfr. Ibidem.

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Riferendosi ai meccanismi del linguaggio e della strutturazione del senso, tuttavia, Steinbach precisa come la lingua parlata dall’artista segua delle leggi di complessità e solo apparente schematicità.

L’artista conduce e padroneggia, nel suo operare, quella che Celant definisce una “circolazione aperta dei segni”108. L’artista ancora, come un poeta, intende arrangiare e

giostrare a suo modo gli elementi-base tratti dalla quotidianità, giocando tra senso e non-senso, con accostamenti che esulano tanto dalla regola individuale o à la page dell’arredo e del décor domestico, quanto da quella degli allestimenti museali, sottostanti a criteri di classificazione stilistica o cronologica109 [fig. 85].

L’approccio di Steinbach è guidato – come risulta dalle sue stesse parole – dalla volontà di “interferire con l’ordine delle cose” indicandoci, in particolar modo e attraverso il loro spostamento, quelle “che ignoriamo per abitudine”110

.

Tra queste ‘cose’, a seguire l’installazione del 1979, un certo rilievo assumeranno ancora le carte da parati, entro installazioni che continueranno a esser siglate dal generico ma pregnante titolo Display, seguito da numerazione progressiva.

Le carte, adoperate in un senso che nelle intenzioni dell’artista vuole mantenersi distante dalla pratica del ready-made duchampiano, verranno utilizzate in risposta a un principio di ‘inclusione’ simile a quanto già osservato in merito ad Armleder, che coniuga pezzi provenienti da ambiti diversi (design, produzione di massa, opere d’arte e d’artigianato, naturali e artificiali), ma tutti “specifici” e evidenti in qualità di “strutture di rappresentazione, stile, forma e cultura”111

.

Steinbach non intende, dunque, a differenza di un Duchamp già lontano nel tempo e “innalzato all’onore degli altari”112, scegliere e mostrare ma semplicemente ‘presentare’

allo spettatore un accumulo di oggetti eterogenei che concorrono ad un gioco visivo e linguistico nel quale la reiterazione assume un ruolo fondamentale, nel momento stesso in cui si fa strumento di analisi dei dispositivi della visione.

Questo aspetto è stato acutamente notato dal filosofo Mario Perniola nel saggio Rituali di esibizione, imperniato sull’ipotesi di lettura di una consapevole reiterazione che ci ricorda come occorra emanciparsi “da quell’ostilità preconcetta nei confronti della

108 G. Celant, Inespressionismo, op. cit., p.14. 109

Cfr. H. Steinbach, ibidem. 110

A. Huberman, op. cit., p.102. 111 H. Steinbach, ibidem. 112 Ibidem.

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ripetizione rituale che da Plotino a Diderot, da Agostino a Lévi-Strauss, caratterizza la tradizione filosofica occidentale”113.

Infine, da ricordare ancora nel novero degli artisti emergenti negli anni Ottanta, è Peter Halley (New York, 1953), la cui opera, seppur non trascurabile, appare meno eloquente nell’ambito della presente ricerca. È tuttavia opportuno segnalare, nel suo linguaggio assestatosi sin dalla metà del decennio su modalità sospese tra minimalismo e interpretazione – in chiave visiva e cromaticamente accesa in toni day-glo – della teoria della simulazione di Jean Baudrillard e, soprattutto, della “sorveglianza” e del “Panopticon” analizzato da Foucault114

, il cadenzato ricorso alla metafora visiva della cella (della “prigione” che è al contempo struttura-base, cellula biologica o circuito elettrico115) e alla reiterazione aniconica. Questa è osservabile in un’opera quale Static wallpaper (1998)116 [fig.86] e nel successivo pannello Explosion (2008), composto non da un parato vero e proprio ma dall’associazione di ventuno, identiche, stampe digitali su tela. Il pattern idealmente derivato da esso si ripresenterà, nel 2011, in un evento collaterale alla 54. Biennale di Venezia: la collettiva “Personal Structures”117

. Peter Halley sarà presente con la disposizione a tutta parete dell’opera Judgement Day [fig. 87], a ragione definita in catalogo una “wallpaper installation” sebbene costituita da un cospicuo numero di stampe digitali su carta che, metodicamente accostate l’una all’altra, concorrono a generare un sovraccarico d’immagine innescando, conseguentemente, un senso di spaesamento di non lontano richiamo optical, virato in tonalità fluorescenti.

III.3.3 Il perturbante politico nel wallpaper di Robert Gober e affini produzioni di