• Non ci sono risultati.

LA SUINICOLTURA ITALIANA

Nel documento Cronache Economiche. N.002, Anno 1986 (pagine 45-51)

Adalberto Nascimbene

1

Circa un terzo della disponibilità na-zionale di carni suine è destinato al consumo fresco, mentre il rimanente viene trasformato in prodotti elaborati dall'indu-stria salsamentaria e destinato al consumo sotto forma di prosciutti cotti o crudi, sala-mi, mortadelle e prodotti minori.

I consumi di carni suine non si presentano omogenei in tutte le aree geografiche, per quanto riguarda sia il consumo fresco sia il consumo di prodotti trasformati.

Le regioni dell'area centro-settentrionale denunciano, infatti, un consumo pro-capite decisamente superiore alla media nazionale, ed in particolare Lombardia, Trentino ed Emilia-Romagna per i salumi, e Trentino, Marche, Umbria e Sardegna per le carni fresche.

Queste disparità sono giustificate da motivi storici (è nelle aree centro-settentrionali che si è maggiormente diffuso l'allevamen-to intensivo quale attività secondaria della produzione lattiero-casearia, e di conse-guenza l'industria salumiera); da motivi socio-economici (vari prodotti della tra-sformazione industriale dei suini si collo-cano in fasce elevate di prezzi unitari al dettaglio, favorendo pertanto il consumo nelle aree di maggior reddito pro-capite); da motivi climatici (la carne suina svilup-pa un elevato volume unitario di calorie, che male si adatta al clima caldo delle aree meridionali).

Nonostante un notevole incremento avve-nuto nel livello dei consumi nazionali

pro-capite di carne suina, il nostro Paese occu-pa il terzultimo posto nella graduatoria dei paesi della CEE.

La maggior parte dei capi pronti per la macellazione passa direttamente dall'alle-vatore al macello industriale. Le macella-zioni effettuate direttamente dagli allevato-ri si sono infatti ormai drasticamente allevato- ridot-te, mentre quelle effettuate nei macelli pubblici sono inferiori al 10% del totale. Le imprese industriali acquistano i suini direttamente dai produttori, o al massimo attraverso intermediari raccoglitori, e provvedono alla sezionatura della carcassa e alla vendita delle diverse parti in funzio-ne della loro destinaziofunzio-ne.

La domanda industriale di suini da macel-lo presenta un'elevata dispersione delle unità locali. Sul territorio nazionale opera-no, infatti, circa 2700 imprese di macella-zione e lavoramacella-zione delle carni; a differen-za del settore delle carni bovine, in cui è elevata la presenza di imprese specializzate nella prima e seconda trasformazione, nel settore delle carni suine è diffusissima l'in-tegrazione dell'attività di macellazione con l'attività di produzione di salumi nelle me-desime imprese.

La dimensione di queste imprese è conse-guentemente abbastanza bassa, e ciò so-prattutto per la presenza di microaziende familiari o artigianali.

Le imprese industriali vere e proprie non dovrebbero, invece, superare le 900 unità. La distribuzione territoriale di queste

im-prese ricalca ed accentua la struttura della distribuzione dei consumi pro-capite. Le aziende con un patrimonio inferiore ai IO capi, sul totale delle aziende rilevate dall'lSTAT, si possono considerare di scarsa rilevanza economica, in quanto de-stinate ad una produzione di carattere prettamente familiare.

Notevole e crescente è la concentrazione del patrimonio suino nelle aziende di mag-giori dimensioni (più di 400 capi) che, pur essendo solo lo 0,4% del totale, allevano il 50,4% del totale dei capi.

Se a queste si aggiungono quelle di medie dimensioni (100-400 capi), si ha che I ' l , l % delle aziende alleva il 67,1% del totale del patrimonio suino.

Rispetto alla situazione rilevabile all'inizio degli anni Settanta, si osserva una crescita relativa delle aziende con meno di 10 capi o con più di 100 capi. Il nostro è l'unico paese a presentare un'evoluzione di questo tipo; tutti i partners comunitari, infatti, ve-dono diminuire la percentuale di alleva-menti con meno di 20 capi.

Nell'ambito delle maggiori imprese, si identificano aziende che svolgono attività di allevamento di riproduttori ibridi e di selezione di riproduttori puri.

Tra le prime sono presenti allevamenti ad alta tecnologia in cui la componente tecni-co-scientifica riveste un'importanza fonda-mentale. All'attività di selezione di ripro-duttori puri appartengono sia allevamenti di agricoltori, sia alcuni allevamenti di ibridi che selezionano alcuni ceppi in pu-rezza.

Tutti gli allevatori di questa categoria ri-sultano iscritti ali ANAS (Associazione Nazionale Allevatori di Suini) che conser-va l'Albo genealogico delle principali razze allevate in Italia e che, attraverso propri centri, controlla le caratteristiche genetiche e morfologiche dei capi iscritti.

Da informazioni ANAS risulta evidente la massima concentrazione di tali capi iscritti in Lombardia e in Emilia-Romagna, e più precisamente nelle province di Reggio Emilia e Mantova.

Le aziende di selezione di riproduttori puri sono spesso di dimensioni inferiori a quelle che producono ibridi. Infatti occorre che il numero di capi allevati sia tale da permet-tere lo svolgimento di tutti i controlli e re-gistrazioni sulle caratteristiche genetiche, funzionali e morfologiche di tutti i capi al-levati. Tali operazioni sono spesso più

nu-merose di quelle richieste per l'allevamen-to degli ibridi, poiché maggiore è il livello di selezione che viene svolto in questo seg-mento.

Numerosissime imprese sono attive nell'al-levamento a ciclo chiuso, a ciclo aperto e di ingrasso, con dimensioni estremamente variabili e pertanto difficilmente classifica-bili per segmento.

Il patrimonio suino è fortemente concen-trato al Nord, con il 73,7% del totale, in particolare in Emilia (25,6%) e in Lombar-dia (30,9%), dove si trova la massima con-centrazione dell'industria di trasformazio-ne. Inoltre, anche il tipo di suino richiesto dal mercato è diverso nelle diverse regioni. Il maiale grasso (fino a 160 kg), che rap-presenta circa il 60% dei capi prodotti an-nualmente in Italia, è allevato quasi esclu-sivamente in Emilia-Romagna, Lombardia e parte del Veneto e Friuli. Quello magro (fino a 120 kg), che costituisce il 40% del totale, è allevato solo in alcune regioni del Nord (Piemonte e parte del Veneto) ed è estremamente diffuso in tutto il Centro Sud.

Il patrimonio suinicolo nazionale ha mo-strato, dal 1970 in poi, una crescita note-vole, ad un tasso medio annuo pari al 3,4%.

L'espansione deriva da variazioni estrema-mente positive delle regioni settentrionali (che così accrescono ulteriormente il loro peso sul patrimonio globale del paese), contrapposte a leggeri incrementi e a dimi-nuzioni rilevate per le aree centro-meridionali.

E da sottolineare lo sviluppo registrato in Lombardia, regione che ha più che rad-doppiato la propria consistenza nell'arco di dodici anni.

Uno dei vantaggi della marcata concentra-zione nella pianura padana è rappresentato dalla vicinanza tra mangimificio e alleva-mento, che genera una riduzione del costo dei trasporti e può ridurre al minimo gli stoccaggi.

Occorre sottolineare che gravi ostacoli ad una maggiore concentrazione degli alleva-menti sono posti dalla severa legislazione anti-inquinamento e dalle crescenti prese di posizione degli amministratori locali su questa materia.

Rispetto alla consistenza complessiva a li-vello comunitario, l'Italia occupa la quinta posizione, con un 11,5% del totale.

Dal punto di vista qualitativo, tuttavia, è

da specificare come l'Italia si differenzi dai restanti paesi CEE, in quanto le nuove strutture sono prevalentemente indirizzate alla produzione del suino pesante (da indu-stria) mentre i rimanenti patrimoni sono maggiormente costituiti da suini magri. I suini all'ingrasso di peso vivo superiore ai 110 chilogrammi si aggirano infatti sul 13% del totale dei capi presenti in Italia e rappresentano circa il 70% dei «suini pe-santi» prodotti nell'intera comunità. La parte più evoluta del mercato è quella dei capi leggeri da macelleria, ma l'Italia incontra un grosso ostacolo all'espansione in questo segmento proprio nella forte con-correnza estera, soprattutto olandese.

Nel periodo 1979-1984 il prezzo dei * * suini da macello è aumentato ad un tasso medio annuo del 9%.

L'andamento dei prezzi è tuttavia caratte-rizzato da una forte variabilità mensile e annuale.

Oltre alle variazioni mensili si verificano anche importanti oscillazioni dei prezzi medi annui, dovute a crisi cicliche, ricor-renti in media ogni 4-5 anni, che provoca-no in alternanza l'espansione e la riduzio-ne del patrimonio suinicolo nazionale. A partire dal settembre 1981, le quotazioni dei suini hanno iniziato ad invertire la ten-denza negativa che aveva caratterizzato il mercato nei due anni precedenti, raggiun-gendo livelli soddisfacenti nel giro di pochi mesi.

II marcato aumento nel consumo di carne suina avvenuto negli anni Settanta è in li-nea con la tendenza emergente a livello eu-ropeo, a svantaggio del consumo di carni bovine e a favore della carne suina e del pollame.

In complesso, il consumo pro-capite fa re-gistrare un costante incremento, dovuto alla penetrazione nei mercati meridionali (soprattutto per quanto riguarda il suino

magro) e soprattutto al graduale supera-mento di prevenzioni di carattere igienico-sanitario.

Si nota, tuttora, una stagionalità piuttosto marcata, con punte massime nei mesi di dicembre e gennaio e con valori minimi nei mesi estivi e nella primavera avanzata. Circa un terzo delle carni suine viene con-sumato fresco, mentre il restante viene consumato dopo la lavorazione dell'indu-stria alimentare. La secortda quota sembra però in diminuzione, recentemente, a van-taggio della percentuale relativa al consu-mo di carne fresca.

I consumi di carne suina e di salumi si mo-dificano in parte in termini concorrenziali: l'aumento delle vendite di un alimento va a scapito dell'altro, e viceversa.

Soprattut-to negli ultimi anni, comunque, si assiste ad una rivalutazione dei salumi, in qualità di piatto pronto, rispondente alle emergen-ti esigenze di vita.

Quanto al consumo di carne suina non tra-sformata, occorre rilevare la tendenza, come del resto avviene per le altre catego-rie di carne, alla scelta da parte del consu-matore quasi esclusivamente delle parti pregiate, mettendo in difficoltà il macella-tore per la collocazione delle rimanenti parti.

Il 1983 ha segnato il momento di una delle più gravi crisi della suinicoltura italiana; mentre il costo dei mezzi di produzione è salito del 10% circa, i prezzi dei suini da macello si sono ridotti, rispetto alla media del 1982, del 3%. Le quotazioni dei

suinet-ti hanno subito un decremento pari al 9%, in virtù di una sempre più accentuata pru-denza negli acquisti da parte degli allevato-ri, in un contesto mercantile particolar-mente sfavorevole per i suini maturi. Il mercato è comunque crollato in tutta la CEE: è tuttavia l'Italia a risentirne in mag-giore misura, in parte per il diverso tasso di inflazione, ma soprattutto per i più ele-vati costi di produzione, che rendono nor-malmente esigui, per i nostri allevatori, i margini di utile.

Le cause della negativa evoluzione mer-cantile sono di diverso tipo. Innanzitutto, la suinicoltura italiana è stata colpita dalle massicce esportazioni di paesi terzi (in par-ticolare dell'Europa orientale) negli stati della Comunità, che hanno costretto dane-si e olandedane-si a dirottare una parte maggiore dei propri surplus produttivi verso l'Italia. A questo proposito, è stato applicato dalla Comunità un superprelievo sulle importa-zioni provenienti dai paesi dell'Est.

In secondo luogo la Commissione CEE, per far fronte alle crisi di mercato, concede aiuti allo stoccaggio ormai non più stagio-nali, ma continui; al termine dello stoccag-gio, il prodotto affluisce sul mercato con pesanti conseguenze sulle quotazioni. Inoltre gli ICM, nonostante il programma di progressiva riduzione, rappresentano tuttora un discreto incentivo all'esporta-zione da paesi a moneta forte verso paesi a moneta debole.

Notevole è inoltre il problema del costo dell'alimentazione che, per una serie di cause, è sensibilmente più elevato in Italia che nei paesi del Nord Europa.

L'evoluzione dei prezzi in gran parte del 1984 non ha assolutamente migliorato la situazione degli allevatori, peggiorandone anzi la crisi, dal momento che le quotazio-ni dei suiquotazio-ni maturi sono rimaste stabili in-torno alle 1800-1850 lire/kg.

Il 1984 ha sostanzialmente mostrato un andamento in linea con l'anno precedente, con prezzi di vendita unitari inferiori al li-vello dei costi. Se da un lato la pressione dell'offerta estera si è in gran parte allenta-ta, grazie alla parziale riduzione degli ICM, dall'altro nonostante 11 deteriora-mento del rapporto costi-ricavi, a livello comunitario si è sviluppata una tendenza espansiva, con mantenimento di forti sur-plus produttivi e ricorso allo stoccaggio privato CEE.

produzione nazionale ha, nel 1984, un'at-tenuazione del saggio di crescita, a causa della maggior prudenza da parte degli alle-vatori e della chiusura di un discreto nu-mero di aziende di medio-piccole dimen-sioni.

Per quanto riguarda i consumi, il 1984 ha fatto registrare livelli simili all'anno prece-dente, in quanto abitudini alimentari e pregiudizi igienico-sanitari nei confronti della carne suina sono assai radicati nel consumatore italiano e pertanto non facil-mente modificabili nel breve periodo. Nel lungo periodo, la redditività degli alle-vamenti ha mostrato un andamento sen-z'altro meno positivo rispetto agli altri set-tori zootecnici, tanto che dal '71 ad oggi, le quotazioni medie si sono incrementate di un 317%, contro un 434% per i bovini, un 475% per gli avicoli e un 576% per gli ovi-caprini.

Di fronte a tale evoluzione e alle consuete crisi cicliche di cui l'attuale rappresenta la più grave degli ultimi decenni, diverse sono le capacità di adattamento dei vari tipi di aziende.

Le imprese di selezione risentono in minor misura degli effetti negativi di questa situa-zione: è un'attività nata da poco, si trova in fase espansiva e non vi sono grossi feno-meni di concorrenzialità. D'altra parte, le aziende che vi operano puntano più sulla qualità del prodotto, promossa attraverso vaste campagne pubblicitarie, che su poli-tiche di prezzo. Ciononostante, già si sono verificate chiusure per scarsa convenienza dell'attività.

Le aziende che praticano l'ingrasso hanno possibilità relativamente ridotte di adattar-si alle variazioni dei prezzi, commisurando l'acquisto di suinetti, il peso a cui vengono acquistati e il peso a cui vengono venduti alle previsioni del mercato a breve e medio periodo.

L'allevamento a ciclo chiuso presenta an-cora maggiore rigidità di fronte a questa si-tuazione, in quanto l'unico tipo di adatta-mento possibile è la vendita dei suini a pesi inferiori rispetto a quelli richiesti dal-l'industria di trasformazione. Tale tipo di allevamento cioè, non può nel breve perio-do variare il numero di suini properio-dotti nel-l'anno senza modificare il patrimonio aziendale di scrofe riproduttrici (e quindi modificare il capitale proprio).

Una rigidità ancora maggiore verso questa situazione è presente negli allevamenti a

ciclo aperto, in cui non risulta possibile modificare né il peso a cui vengono vendu-ti i suini ingrassavendu-ti né il numero di suinetvendu-ti prodotti all'anno.

In genere, grazie anche alla crescente pre-senza di unità di produzione più grandi, i livelli produttivi sembrano essere meno di-pendenti dalle fluttuazioni del mercato, ri-spetto al passato.

L'attenuazione della concorrenza estera è c o m u n q u e la variabile chiave per lo svi-luppo di medio-lungo periodo della suini-coltura nazionale, attenuazione che potrà essere realizzata attraverso una ulteriore diffusione delle imprese a ciclo integrato e del « s u i n o m a g r o » .

L'ECU

Lucio Battistotli

I N T R O D U Z I O N E

Nella Comunità europea (originariamente composta da sei paesi, divenuti in seguito nove, poi dieci e, dall'1.1.1986, dodici) è sorta sin dall'inizio (il Trattato di Roma, che istituisce la CEE, è stato firmato il 25 marzo 1957) l'esigenza di un parametro monetario comune, che non poteva neces-sariamente essere la moneta di uno degli Stati membri.

Tale parametro monetario è l'unità di con-to necessaria alla redazione del bilancio ge-nerale della Comunità, al calcolo dei debiti e dei crediti ed alla determinazione del li-vello dei prezzi dei prodotti agricoli nel-l'ambito della politica agricola comune. La prima unità di conto (UC) usata dalla Comunità europea fu l'unità di conto del-l'unione europea dei pagamenti (UEP) isti-tuita nel 1950. Il valore dell'UC era diret-tamente legato al dollaro che a sua volta aveva una parità fissa con l'oro.

A partire dall'estate 1971 (dichiarazione di inconvertibilità del dollaro) ed in seguito al crollo del «sistema dei cambi fissi» il valo-re dell'UC (ora ECU) e del dollaro diver-gono.

Il 21 aprile 1975 la Comunità, seguendo l'esempio del FMI che aveva istituito il DSP (diritto speciale di prelievo), decise di istituire una nuova unità di conto europea (UCE), basata su un paniere formato dalle monete dei nove Stati membri, con un va-lore esterno fissato giorno per giorno. All'entrata in vigore del sistema monetario europeo (SME), il 13 marzo 1979, l'UCE divenne l'unità di conto del sistema, mu-tando il proprio nome in ECU (*).

Progressivamente l'ECU fu utilizzato da tutte le istituzioni comunitarie divenendo l'unità di conto della politica agricola co-mune, del bilancio delle Comunità euro-pee, della banca europea per gli investi-menti, della CECA e dell'EURATOM.

CHE COS'È L'ECU

L'ECU è calcolato sulla base di un paniere di monete della Comunità. Il peso di

cia-( *) Va ricordato che del meccanismo di cambio dello SME non fanno parte la sterlina inglese e la drac-ma greca.

scuna moneta nel paniere è funzione della parte di ciascuno Stato membro nel pro-dotto interno lordo (PIL) della Comunità, negli scambi intracomunitari di merci e nel meccanismo di sostegno comunitario mes-so a punto dalle Banche centrali degli Stati membri.

Il valore dell'ECU è fissato quotidiana-mente dalla Commissione per le differenti monete sulla base dei corsi di chiusura sui diversi mercati dei cambi. Il controvalore dell'ECU rispetto alle monete degli Stati membri è calcolato sulla base della quota-zione ufficiale di tali monete sul mercato dei cambi del paese considerato. La com-posizione percentuale dell'ECU dal

17.9.84 è la seguente:

LIT. 10,125%; £ 15,024%;, FB 8,128%; D K R 2,692%; FLUX 0,3%; DRA 1,306%; DM 32,013%; FF 19,002%; HFL 10,117%; £IRL 1,202%.

(Il valore dell'ECU a fine 1985 è di circa LIT. 1.500).

È necessario precisare che il cambio del-l'ECU fissato dalla Commissione in base alla composizione del paniere non coincide esattamente con le quotazioni raggiunte dall'ECU nelle borse valori dei singoli Sta-ti membri, che si formano in base al gioco della domanda e dell'offerta.

La composizione del paniere è soggetta a revisione ogni cinque anni.

L'ECU ED IL SISTEMA M O N E T A R I O EUROPEO

• L'ECU è lo strumento chiave dello SME e rappresenta il simbolo di un'area monetaria europea che mira alla stabilità. La risoluzione del Consiglio europeo del 5 dicembre 1978, in occasione dell'istituzio-ne dello SME, afferma infatti che: «cardidell'istituzio-ne dello SME è un'unità monetaria europea (ECU)», ed ancora che «lo SME dev'essere considerato come un elemento fondamen-tale di una vasta strategia avente per scopo una crescita sostenuta nella stabilità, un progressivo ritorno al pieno impiego, il riavvicinamento dei livelli di vita e la ridu-zione delle disparità regionali nella Comu-nità» ed inoltre lo SME dovrà «esercitare un effetto stabilizzatore sulle relazioni eco-nomiche e monetarie internazionali». Quanto sopra evidenzia che il ruolo

asse-gnato dal Consiglio europeo all'ECU non è limitato solo ad una funzione di parametro interno al «sistema SME» ma va ben al di là ponendo in prospettiva le basi per un contributo dell'ECU ad una accresciuta stabilità mondiale dei cambi.

Su di un piano interno all'area monetaria SME le funzioni assegnate all'ECU sono le seguenti:

— numerario per il meccanismo di cam-bio;

— base per l'indicatore di divergenza; — denominatore per le operazioni del meccanismo d'intervento;

— mezzo di regolamento fra le autorità monetarie della CEE.

• La funzione di numerario per il mecca-nismo di cambio dello SME non si esauri-sce nel semplice fatto tecnico ma stabiliesauri-sce collegamenti istituzionali fra le diverse monete partecipanti al sistema.

In tal modo ogni variazione delle parità centrali non può essere decisa indipenden-temente dalla banca centrale di un paese membro ma solo in seguito ad accordi con-sensuali dei partecipanti. Nello SME sono stabilite, per ogni moneta, delle parità cen-trali espresse in ECU; tali parità cencen-trali costituiscono una griglia o tabella di parità bilaterali fra le monete che partecipano al

Nel documento Cronache Economiche. N.002, Anno 1986 (pagine 45-51)