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6. IL MERCATO NELL’ITALIA CAROLINGIA

6.5. SUSSISTENZA E MERCATO

Sebbene esistesse una vasta rete di mercati rurali sui territori del Regno, il carattere prevalentemente rurale dell’economia altomedievale e la sistematica diversificazione delle sue strutture produttive ci permette di affermare che i contadini dell’Italia carolingia ricorressero solo occasionalmente al mercato. Nell’alto medioevo, come del resto in tutte le società contadine, ogni gruppo familiare produceva direttamente la maggior parte degli alimenti che consumava e degli strumenti, delle suppellettili e dei vestiti di cui aveva bisogno. È interessante notare al riguardo che, nel racconto dei miracoli di Saint Hubert, il contadino a cui il santo recupera il cavallo con le sue preghiere non si era recato alla fiera per fare acquisti, ma per aumentare le sue entrate.

Un facile e diretto accesso a una vasta gamma di prodotti agricoli e silvo pastorali doveva essere garantito alla popolazione contadina dall’estrema diversificazione del paesaggio agrario.342 Ciò che colpisce nella lettura dei documenti di età carolingia è, infatti, il continuo susseguirsi nelle campagne di campi e orti a cui s’intersecano e s’integrano vigne, prati, boschi, pascoli in un articolato mosaico che coinvolge tutta l’Italia centro- settentrionale. All’interno di ogni azienda si coltivavano cereali, legumi, ortaggi; si allevavano

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136 animali da carne e da latte, oltre al pollame e alle oche e alle api per produrre miele. A volte si coltivavano anche fibre tessili, come il lino e la canapa, mentre il legname per il riscaldamento, per l’edilizia e per produrre strumenti di vario tipo era disponibile nei boschi che si trovavano intorno ai campi.

Questa estrema diversificazione della produzione agricola risultava dalla particolare organizzazione del lavoro espressa dall’azienda curtense.343

L’aspetto fondamentale del sistema curtense fu, come noto, la divisione dell’azienda agricola, la curtis, in due parti strettamente complementari: il “dominico” (pars dominica) e il “massaricio” (pars massaricia). Quest’ultima parte, gestita dal proprietario in maniera indiretta, era suddivisa a sua volta in varie aziende minori, i mansi, affidati in concessione a coltivatori dipendenti, che la conducevano in maniera pressoché autonoma sia in merito alle tecniche di coltivazione che ai modi ed ai tempi dei lavori agricoli.

Nelle campagne altomedievali, dunque, a differenza di quanto accade nel basso medioevo e nell’epoca moderna, la famiglia contadina appare coinvolta non solo nel lavoro pratico nei campi ma anche nelle scelte strategiche di base della produzione344 I contadini avevano dunque interesse a diversificare il più possibile la loro produzione al fine di soddisfare il maggior numero possibile dei loro bisogni alimentari e materiali e di limitare gli eventuali danni prodotti sulle culture da una cattiva annata.345 Questo non significa certo che non esistessero specializzazioni agrarie, che sono documentate dalle fonti soprattutto per l’olivicoltura, né che i contadini non facessero ricorso allo scambio o al mercato per procurarsi alcuni tipi di prodotti. Questo perché, anche nell’ambiente agrario più omogeneo, i contadini non hanno sempre accesso esattamente agli stessi prodotti, il che crea la necessità di uno scambio agrario di base. Inoltre non dappertutto era possibile produrre prodotti essenziali quali l’olio, estrarre ferro o ricavare sale.

Come ha mostrato Pasquali in un suo studio sul polittico di Santa Giulia di Brescia, mentre alcune curtis presentavano un bilancio positivo tra produzione e consumo e

343 In generale sull’organizzazione economica e del lavoro espressa dal sistema curtense: A

NDREOLLI (B) -

MONTANARI (M.), L’azienda curtense in Italia, 1985; Pasquali (G.), Sistemi di produzione agraria, 2008; VERHULST

(A.), The carolingian economy, 2002, pp. 31-60; WICKHAM (C.), La società nell’alto medioevo, 2009, pp. 287-331. 344 A

NDREOLLI (B)-MONTANARI (M.), L’azienda curtense in Italia, 1985, p. 16;WICKAM (C.), La società nell’alto

medioevo, 2009, pag 292.

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137 beneficiavano dunque di una certa autosufficienza, in altre la produzione non riusciva a coprire i bisogni alimentari delle famiglie e degli animali che vi risiedevano. Si doveva dunque far convogliare il grano dai notevoli surplus delle corti più produttive verso quelle meno produttive o far ricorso, anche se in misura modesta, ai mercati locali, dove era possibile la vendita di prodotti ricavati dalle attività artigianali o di quei prodotti di cui si era avuta un’eccedenza produttiva.346

La testimonianza di questi trasferimenti di prodotti da una proprietà all’altra e, al contempo, di traffici diretti verso i mercati, ci viene da un capitolare di Carlo Magno dell’806 in cui si esentano dal pagamento del teloneo coloro i quali trasportano merci a scopi non commerciali: « De teloneis placet nobis, ut antiqua et iusta telonea a negotiatoribus

exigantur, tam de pontis, quam et de navigiis seu mercatis nova vero seu iniusta, ubi vel funes tenduntur… ut non exigetur. Similiter etiam nec de his qui sine negotiandi causa substantiam sua de domo ad aliam ducunt, aut ad palatium, aut in exercitum ».347

L’organizzazione dei patrimoni fondiari appare dunque intesa a garantire l’approvvigionamento delle derrate alimentari e dei prodotti fondamentali alla vita quotidiana. La rete di curtes e di possessi organizzati in forma non curtense, derivata dalle donazioni di terre effettuati dai detentori del potere pubblico o da proprietari laici, formavano una struttura che assicurava la possibilità di disporre di merci che erano prodotte anche in zone lontane dalla sede centrale dell’ente ecclesiastico o del signore proprietario.

Comunque, sebbene sia innegabile questa tendenza all’autarchia dell’economia dell’età carolingia, carattere del resto comune a quasi tutte le economie precapitalistiche, questo non impedisce una convivenza con altre concezioni e strategie. Le ricerche degli ultimi cinquant’anni sui grandi patrimoni fondiari, soprattutto monastici, hanno infatti puntato la loro attenzione sui suoi caratteri “monetari” e commerciali, offrendoci un quadro molto più complesso e articolato di queste strutture fondamentali dell’economia

346

PASQUALI (G.), Sistemi di produzione agraria e aziende curtensi nell’Italia altomedievale, 2008, pp. 15-46. 347

138 altomedievale, con implicazioni di trasporti, mercati e scambi commerciali più ampi di quanto si pensasse.348

Studi specifici sul trasporto delle merci all’interno dei possedimenti ecclesiastici, effettuati attraverso l’analisi dei polittici, hanno ben messo in luce tali implicazioni.349 Attraverso i servizi di trasporto imposti agli affittuari i prodotti agrari e artigianali arrivavano al dominio centrale dalle differenti località appartenenti al monastero. In tutti i casi studiati la spinta primaria era quella di soddisfare le esigenze della casa centrale, ma in ogni caso le necessità dell’ente religioso non assorbivano tutta la produzione in eccedenza dell’intero complesso di proprietà. Una parte veniva dunque venduta nei mercati vicini al luogo di produzione, mentre il resto era convogliata verso altri mercati. Nel famoso caso di Saint

Germain-des-Pres, grandi quantità di vino erano trasportate a Parigi e negli altri mercati

regionali e internazionali,350 mentre nel caso del patrimonio fondiario della cattedrale di Bergamo redditi e corvée di un centinaio di coloni dipendenti, sparsi in un raggio di non più di 10 km, erano concentrati in un piccolo dominico cittadino, da dove i prodotti erano probabilmente avviati al mercato della città.351

L’esistenza di diversi canali in cui era convogliata la produzione agraria e artigianale, ricavata dal complesso dei beni monastici, è confermata dalle esenzioni regie e imperiali da pedaggi e prelievi sulle merci delle abbazie, che legano inestricabilmente provvedimenti intesi a facilitare il movimento dei beni dalla periferia verso il centro dei possedimenti fondiari con altri atti a facilitare le attività mercantili, quali le concessioni di porti e mercati. A questi provvedimenti va aggiunto il generalizzarsi, nel corso del IX secolo, della tendenza alla monetizzazione dei censi dovuti dai contadini ai grandi proprietari terrieri. Questo fenomeno implica la presenza di mercati nelle campagne dove i coloni dipendenti potevano vendere parte delle loro eccedenze produttive in cambio di moneta con cui pagare i censi in denaro.352

348

In generale su questi argomenti: TOUBERT (P.), Dalla terra ai castelli, 1997, pp. 183-245; MARAZZI (F.), “San Vincenzo al Volturno tra VIII e IX secolo”, 1996, pp. 41-92; DEVROEY (J.P.), “Un monastère dans l’economie d’échange”, 1984, pp. 570-589.

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Per l’Italia si veda: TOUBERT (P.), Dalla terra ai castelli, 1997, pp. 183-245. Un caso specifico è stato studiato da: DEVROEY (J.P.), “Un monastère dans l’economie d’échange”, 1984, pp. 570-589.

350 D

EVROEY (J.P.), “Un monastère dans l’economie d’échange”, 1984, pp. 570-589.

351

ZONCA (A.), “Un inventario altomedievale della Cattedrale di Bergamo”, 1991, pp. 11-53. 352

139 Prodotti agricoli quali cereali, vino, olio e animali d’allevamento, ma anche miele, castagne, pesci, formaggi, sale, legna, tessuti, utensili in ferro e metallo grezzo, che costituivano le rendite dovute ai padroni delle aziende agricole, confluivano dunque dai centri di produzione sparsi nelle campagne verso il centro per il consumo diretto da parte dei padroni delle terre o verso i mercati dove erano commercializzati. Con il denaro ricavato erano con ogni probabilità acquistate le derrate alimentari non presenti o insufficienti all’interno del patrimonio o le merci di lusso di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente.

In conclusione l’autosufficienza, vero mito della società altomedievale, si realizzava non tanto all’interno della singola curtis, quanto piuttosto all’interno del complesso sistema dei possessi dei singoli proprietari e mai in modo perfetto. Infatti, tanto i signori, per procurarsi le merci di lusso, che i contadini, per alcuni prodotti che non producevano, mantenevano aperto il contatto con i mercati. I primi soprattutto con i mercati urbani, punto di arrivo dei traffici interregionali e internazionali, i secondi con quelli rurali e locali.

Se la popolazione delle campagne doveva far ricorso solo occasionalmente al mercato, per procurarsi alcuni specifici prodotti o il denaro necessario al pagamento dei canoni d’affitto, la popolazione cittadina, in costante aumento in questo periodo sotto la spinta della crescita demografica, doveva farvi un affidamento maggiore avendo, evidentemente, meno possibilità di procurarsi o produrre in maniera diretta i prodotti necessari alla propria sussistenza.

Certamente una parte dei prodotti consumati dalla popolazione urbana doveva provenire dagli orti, vigne e altre aree coltivate, testimoniate dalle fonti in area urbana e suburbana. Tuttavia molti dei prodotti alimentari ed artigianali essenziali dovevano provenire dal commercio regionale e interregionale e, in modo particolare, dalla commercializzazione del surplus produttivo delle grandi aziende agricole. I grandi proprietari terrieri collegarono, infatti, nel corso dell’ XI secolo, i loro circuiti di scambio con i centri urbani attraverso modalità e strutture diverse, dai portora, come nel caso di Bobbio a Mantova353, alla semplice statio posseduta da Nonantola a Pavia354, non solo per procurarsi

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140 direttamente le merci di lusso provenienti dal commercio internazionale, ma anche per facilitare l’approvvigionamento del mercato cittadino.