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LE OPPORTUNITÀ E LE MINACCE PER IL SETTORE BANCARIO Nel corso dell’esposizione degli argomenti trattati in precedenza, si è fatto più
4.3 I NUOVI PLAYER: QUALI RISCHI PER LE BANCHE?
4.3.1 LO SVILUPPO DEL FINTECH
Il termine deriva da Financial Technology e fa riferimento alla fornitura di servizi e prodotti finanziari attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione (ICT). Ci sono le start-up che raccolgono denaro e, via web, fanno credito alle Pmi; c’è la società in grado, sempre online, di offrire consulenza robotizzata; oppure c’è il gruppo hi-tech che costruisce sistemi di pagamento. Questo per dire che ci sono tantissime realtà del Fintech: è un mondo variegato dove la tecnologia è sfruttata per fornire servizi finanziari alternativi a quelli degli istituti tradizionali. La concorrenza che sta nascendo e che eventualmente si potrà avere riguarderà i singoli settori verticali e non il business complessivo; in particolare la banca commerciale, soprattutto retail, sopporterà più rischi rispetto all’investment banking. Ma quali sono i singoli settori verticali che sono oggetto di concorrenza?
• Sistemi di pagamento: in questo ambito si stima che fino al 30% dei ricavi da commissione potrebbe finire sotto pressione; tra i motivi vi è la futura adozione nei Paesi UE della Direttiva Psd2, ossia una norma che, da un lato, costituisce un’opportunità per gli istituti di credito intenti ad investire in innovazione, ma dall’altro, prevede diverse novità tra cui l’autorizzazione a soggetti terzi (potenzialmente non bancari) di fornire servizi di pagamento elettronici alternativi. Il cosiddetto Pisp (Payment initiation service provider) potrà offrire all’utente, ad esempio di una piattaforma di e- commerce, il suo software per il pagamento;
• Disintermediazione banca-cliente: in questo modo la transazione è gestita dal Pisp e le banche, presso cui sono presenti i conti correnti del venditore e dell’acquirente, svolgeranno solo la funzione di liquidazione e pagamento. Con riferimento agli istituti di credito questo potrebbe essere un problema: dato che il soggetto terzo diventa il “dominus” del rapporto con il cliente, può offrire servizi ulteriori e strappare il cliente alla banca, la quale, come abbiamo visto, tenta a sua volta di tenersi stretti i propri utenti mediante l’offerta di servizi non finanziari;
• Consulenza robotizzata: KPMG stima che nel 2020 a livello globale, le masse in gestione ai robo advisor raggiungeranno i 2.300 miliardi di dollari (Carlini, 2017); parte finiranno nelle piattaforme robotizzate delle banche stesse, ma le Fintech potranno giocare il loro ruolo soprattutto per i costi di gestione: gli istituti di credito, principalmente in Europa dove i tassi di mercato rasentano lo zero, hanno fatto delle commissioni da risparmio gestito un “must” per sostenere il margine di intermediazione; in questo senso, le Fintech possono inserirsi mediante soluzioni innovative che sfruttano internet e algoritmi e consentono di avere costi commissionali in media inferiori alla metà di quelli di una banca;
• Finanziamenti alternativi: essi comprendono vari business model essenzialmente online, dai crediti di privati a privati (peer-to-peer lending) fino alle piattaforme che raccolgono denaro da prestare a famiglie o imprese. In base ad un rapporto dell’Economist, le banche retail vedono
proprio nel sistema alternativo d’investimento del crowdfunding la concorrenza più temibile da parte delle nuove Fintech;
• Criptovalute: si parla di Initial coin offering (Ico). Ad esempio, una start- up presenta su internet un business plan, chiedendo fondi in criptovalute e offrendo gettoni digitali che consentono di contribuire alla realizzazione del business plan stesso. Un meccanismo del genere di sollecitazione all’investimento richiederebbe l’autorizzazione da parte delle autorità regolatorie, purtroppo le Ico sono spesso usate per superare proprio la normativa.
In tutto questo le banche, da un lato, sono arrivate a spendere circa 50 miliardi di dollari l’anno in sistemi informatici e, dall’altro, hanno loro stesse investito nel Fintech (circa 23 miliardi di dollari nel 2016); quindi tracciare una netta separazione tra nuovi soggetti ed istituti tradizionali non è così facile (Carlini, 2017).
È comunque evidente che molte società hi-tech hanno lanciato la sfida ed il pressing, grazie alla già citata digitalizzazione dell’economia e della vita quotidiana, esiste. Per questo PwC ha effettuato un sondaggio riguardante la crescente influenza delle FinTech sui servizi finanziari: la società di consulenza ha intervistato oltre 1.300 società (non solo finanziarie) in 71 Paesi del mondo, di cui 20 appartenenti all’Italia (15 banche e 3 FinTech). Quello che emerge è che, nel nostro Paese, l’82% delle banche intervistate esprime preoccupazione per l’impatto delle nuove realtà su parte del proprio business (a livello globale la percentuale sale al 93%).
Le preoccupazioni degli operatori bancari nascono principalmente dalla natura
disruptive di questi nuovi player. Le cosiddette disruptive innovation introducono
un insieme di funzionalità completamente nuove e spesso lontane da quelle richieste e valutate dal mercato attuale; innovazioni di questo tipo portano ad una ridefinizione del prodotto, servizio o modello di business proposto al cliente, nella direzione di una maggior semplificazione e democratizzazione dell’innovazione (Paraboschi, 2013).
Quali sono i soggetti che, nei prossimi cinque anni, saranno suscettibili ad essere più disruptive? Sicuramente le start up sono considerate il principale disruptor, ma molte stanno orientandosi verso modelli B2B e forniscono piattaforme per le aziende finanziarie; anche i social media stanno consolidando sempre più il loro ruolo di disruptor, sfruttando la loro capacità di raggiungere una larga base di utenti (così come gli e-retailer) per fornire nuovi canali di customer service e nuovi modelli di business; infine, le grandi aziende ICT e Tech sono viste come un importante potenziale disruptor del settore finanziario, poiché sono in grado di innovare a ritmi molto più rapidi degli operatori storici. Va da sé che chi deve essere maggiormente preoccupato dall’inserimento di questi nuovi operatori sono le aziende finanziarie tradizionali, in quanto non sono viste come forza disruptor, e gli stessi fornitori di infrastrutture finanziarie, dato che sempre più istituzioni finanziarie si rivolgono a fornitori di infrastrutture Fintech (PwC, 2017).
Mai come oggi è attuale la famosa frase pronunciata da Bill Gates negli anni ’90 “Banking is necessary, banks are not”. Questo non solo per l’avvento delle start up del Fintech, ma gli stessi big della rete, da Amazon a Facebook fino a Google, si fanno avanti. Proprio Amazon di recente ha comunicato i suoi progressi nel mondo del credito: il programma Amazon Lending, dalla sua nascita nel 2011, ha superato i 3 miliardi di dollari di erogato e nell’ultimo anno si è assestato a un miliardo in finanziamenti. D’altra parte, il gruppo gode di un vantaggio importante: ha quale oggetto sociale il commercio elettronico ed i suoi utenti sono venditori ed acquirenti di prodotti, quindi Amazon ha la possibilità di analizzare, attraverso i propri algoritmi, diverse variabili economico-contabili di chi utilizza la sua piattaforma; per questo motivo la valutazione del merito di credito del potenziale imprenditore da finanziare è agevolata.
In generale, quindi, i colossi dell’hi-tech avanzano sul fronte dei servizi finanziari ma non diventano istituti di credito, bensì portano fuori dal settore bancario i singoli servizi più coerenti con il loro business. Questa dinamica è agevolata da alcuni fattori:
- L’ampiezza del numero di utenti collegati alle loro piattaforme (Facebook ne conta più di 2 miliardi);
- La disponibilità dei dati di questi soggetti (sia persone che imprese) (Carlini, 2017).
4.3.2 I PRIMI SERVIZI FINANZIARI EROGATI DAI SOCIAL MEDIA