nell’amministrazione straordinaria: i sospetti di non conformità ai princìpi comunitari delle norme di riferimento
TIRRENIA 2 2 si 2.148 2.148 intero territorio
10 ASPETTI GESTIONALI D’IMPRESA NELL’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA
10.2 La teoria della crisi d’impresa
La diffusione dei processi di crisi nella realtà delle imprese ha segnato un rilevante mutamento d’approccio alla fenomenologia patologica. La crisi, inizialmente, era vista come una sorta di “incidente di percorso”, da addebitare in misura principa- le, se non esclusiva, all’incapacità del management oppure all’inadeguatezza del- le strategie adottate (si affrontavano come clinical case study). Tale convinzione affondava le radici nel paradigma razionalistico prevalente, in base al quale era necessario, nonché sufficiente, combinare opportunamente le risorse dell’impresa per assicurarsi il raggiungimento degli obiettivi prefissati (strategia + struttura = performance). Poi, con l’incremento del numero di crisi, quest’ultima impostazio- ne è stata sconfessata portando alla nascita di una vera e propria “teoria della crisi d’impresa”. Il mutato approccio si è tradotto in un nutrito corpus di studi a livello tanto nazionale quanto internazionale e nell’individuazione dei fenomeni di de- clino, crisi e crisis management. In un simile contesto, dunque, il concetto di crisi aziendale ha subito una graduale trasformazione distinguendo fra declino, inteso come riduzione della capacità reddituale e indebolimento della situazione finan- ziaria, crisi in senso stretto, intesa come condizione di perdite economiche forti e strutturali, unite a manifestazioni non occasionali di insolvenza e il crisis manage- ment come crisi a seguito di emergenze o eventi straordinari o imprevedibili) [Gua- tri, 1988, Guatri, 1995, p.105; Perrini, 2016, p.226].
La distinzione puntuale tra i termini indicanti situazioni di forte squilibrio e della loro definizione è stato affrontato in letteratura, come detto, solo di recente, ren- dendo difficoltosa un’analisi approfondita del fenomeno e una sua adeguata siste- mazione teorica.
Qualitativamente il dissesto è inteso come un’ipotesi d’insuccesso dell’impresa nel raggiungimento degli obiettivi aziendali. Secondo i princìpi dell’economia d’im- presa ciò significa che essa non riesce ad operare in condizioni d’economicità ge- stionale ovvero non riesce a soddisfare le attese dei propri stakeholder.
Quantitativamente, i concetti di declino e crisi possono essere efficacemente espressi avvalendosi della “teoria di creazione del valore” [Guatri, 1991], secondo la quale obiettivo principale dell’impresa è l’accrescimento del valore economico e/o di mercato del capitale (W), in quanto razionale (crescente capacità redditua- le e controllo dei rischi nel lungo periodo), largamente condivisibile (da tutti gli stakeholder assicurando la sopravvivenza aziendale nel lungo) e, appunto, misu- rabile. Dunque, ai fini del presente lavoro, l’obiettivo perseguito dall’impresa che consente di giudicare la sua performance è la creazione di nuovo valore del capitale economico nel tempo, cioè in breve il valore dell’impresa intesa come investimen- to. Pertanto, declino e crisi sono collegate ad una performance negativa in termini di ΔW, cioè alla “distruzione” di valore; e misurate nella loro intensità dall’entità di tale distruzione in un definito arco temporale (annuale, ma anche pluriennale). Inoltre, tale teoria, che per la misurazione del valore si fonda principalmente sui metodi basati sui flussi di reddito o di cassa, individua la crisi d’impresa “in una situazioni di tensione finanziaria [dove] i flussi di cassa prodotti dalla gestione operativa (operating cash flow) sono insufficienti a soddisfare i debiti correnti […] e l’impresa è costretta ad intraprendere azioni correttive” [Ross-Westerfield-Jaf- fe, 1993, p.871]. Per cui, la crisi può essere rappresentata tramite grandezze stock con riferimento essenzialmente ai debiti, ossia quando il valore facciale dei debiti è maggiore del valore delle attività (Figura 1) e il valore del patrimonio (equity) è ormai azzerato dalle perdite, se non addirittura già negativo.
Figura 1. Lo stato di crisi in termini di grandezze stock
Lo stato di “crisi” s’identifica nell’incapacità di soddisfare le condizioni d’equili- brio economico, in altre parole le attese degli stakeholder per un intervallo di tem- po non breve, con ripercussioni gravi e crescenti sul piano dei flussi finanziari, a seguito di perdite economiche (di redditività e di valore), e che si concretizza in
carenza di cassa, perdite di credito e di fiducia [151]. Il valore del capitale economico
diminuisce in maniera rilevante o totale fino a divenire negativo e mettendo a ri-
schio la possibilità di sopravvivenza dell’azienda [152].
Nella letteratura sulle crisi aziendali e i processi di turnaround viene spesso ripreso quanto Winn affermava nel 1993: “while companies facing near-bankruptcy, market
losses, or substandard performance are increasing in frequency, strategy researchers
151 La crisi può essere anche intesa come “l’epilogo di una situazione di degrado delle risorse immateriali fondamen-
tali” che innescano un circuito vizioso in assenza d’interventi di risanamento invece che virtuoso d’arricchimento del patrimonio aziendale favorendo lo sviluppo dell’impresa, che conduce al progressivo impoverimento delle conoscenze e alla perdita di fiducia all’interno e all’esterno dell’impresa [Vicari, 1992, p.135].
152 Il “declino” è invece definibile con riferimento ad una performance negativa in termini di variazione di capitale
economico, non tanto a livello di perdite economiche, quanto di riduzione dei flussi reddituali e/o finanziari (che possono rimanere positivi) in maniera sistematica e irreversibile senza interventi risanatori o di ristrutturazione. È una logica non legata ai risultati passati, ma soprattutto alle aspettative: cioè alla perdita di capacità redditua- le. Inoltre, il declino, così definito, non si collega solo alla diminuzione dei flussi attesi (di reddito e/o di cassa), ma anche ai rischi (tasso d’attualizzazione) che possono causare perdite di valore. Si tratta spesso di forme molto pericolose perché latenti e non espresse da misurazioni contabili. Vi sono poi situazioni [Guatri, 1995, p.7] defini- te di “declino controllato”, collegate a condizioni esterne, senza che siano ravvisabili sostanziali errori gestionali (aziende operanti in settori come il cambio-valuta alla vigilia della moneta unica).
have provided little help for the managers charged with turning around deteriorating performance”. Sebbene l’autore si riferisca ad altra epoca, poco sembra essere cam-
biato negli ultimi anni. Il turnaround è un problema complesso che coinvolge l’in- terazione tra il contenuto delle strategie di recupero, il contesto nel quale queste hanno luogo, e il processo attraverso il quale esse sono implementate. Per esempio, Schweizer e A. Nienhaus (2017) evidenziano come la maggior parte delle ricerche provengano da campi di studio distaccati e la loro mancanza di integrazione spes- so conduce a risultati spuri e non esaustivi. Spesso viene studiato solo l’effetto di singole azioni giuridiche, manageriali o finanziarie sui risultati di turnaround, ma Pettigrew (2012) fa notare come ciò non possa avere sufficiente forza esplicativa del fenomeno. Sarebbe invece corretto tenere conto di azioni afferenti a discipline diverse per valutare il risultato di turnaround. Non minore importanza bisogne- rebbe dare alla disciplina aziendalistica e agli aspetti gestionali, fondamentali, in particolare, per il successo dell’amministrazione straordinaria (nella liquidazione e nel fallimento non vi è un’azienda da gestire in linea di massima, mentre nel con- cordato preventivo in continuità, per esempio, non vi è discontinuità manageriale come nell’amministrazione straordinaria).
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