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Trust in paradisi fiscali, proventi tassati per cassa

Nuova norma antielusiva per i redditi versati ai residenti italiani

Antonio LongoAntonio Tomassini Il decreto fiscale introduce la tassazione dei redditi «corrisposti» ai

residenti italiani da trust o altri istituti analoghi stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata. Per comprendere la portata della modifica è necessario un breve inquadramento sistematico della tassazione reddituale dei trust esteri. Il trust è soggetto passivo d' imposta: in caso di beneficiari

«individuati» (trust trasparente), il reddito viene imputato per trasparenza a questi ultimi, qualificato come reddito di capitale (ex articolo 44, comma 1, lettera g-sexies, del Tuir che considera di capitale «i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi dell' articolo 73, comma 2, anche se non residenti») e tassato ai fini Irpef. L' imputazione del reddito prescinde quindi dall' effettiva percezione da parte del beneficiario, il quale viene tassato secondo un criterio di competenza (è irrilevante la successiva distribuzione). Perché un beneficiario sia «individuato» non è sufficiente la sua identificazione in sede negoziale, ma è richiesto che risulti titolare del diritto di pretendere dal trustee l' assegnazione del reddito (circolare 48/E/2007). Nel caso di trust senza beneficiari di reddito individuati (trust

opaco), i redditi vengono direttamente assoggettati a Ires in capo al trust. Sui trust esteri opachi «costituiti» in giurisdizioni a regime fiscale agevolato, con la circolare 61/E/2010 l' Agenzia aveva affermato che «alla tassazione ridotta in capo al trust corrisponderebbe, comunque, l' imposizione in capo al beneficiario residente secondo il regime del citato art. 44, comma 1, lettera g-sexies)». Questa tesi è da ritenersi priva di appiglio sistematico posto che la citata lettera g-sexies) fa(ceva) espresso riferimento solo ai redditi «imputati» al beneficiario di un trust anche estero, ma trasparente, e non al caso del trust estero opaco. Il decreto interviene in questo groviglio interpretativo e modifica la lettera g-sexies) facendovi ora rientrare anche i redditi corrisposti a residenti italiani da trust e istituti analoghi stabiliti in Stati che si considerano a fiscalità privilegiata ex articolo 47-bis, anche qualora i percipienti residenti non possano essere considerati beneficiari individuati. Diversamente da quanto sostenuto dall' Agenzia in

al decreto fiscale). La novella ha inteso quindi sanare questo vulnus: è stato recepito l' orientamento restrittivo dell' Agenzia, con la particolarità tuttavia di collegare il presupposto impositivo a un criterio di tassazione per cassa (il riferimento è, difatti, ai redditi «corrisposti») in capo ai beneficiari. In questo innovativo contesto al beneficiario dovrebbe essere comunque concesso di scomputare le eventuali ritenute alla fonte subite all' estero. Inoltre, anche a seguito della novella, dovrebbe comunque ritenersi che per i trust non residenti (tutti) risultano imponibili i soli redditi prodotti in Italia ex articolo 23 del Tuir, con esclusione dei redditi di fonte estera (articoli 151 e 153 del Tuir).

Per individuare i Paesi a fiscalità privilegiata (la novella rimanda all' articolo 47-bis del Tuir) non è chiaro se occorra fare riferimento alla tassazione effettiva ovvero, più correttamente, alla tassazione nominale, data l' assenza del concetto di «controllo» in capo al trust. Quanto poi alla distinzione tra le attribuzioni relative ai frutti del trust (imponibili ai fini reddituali) e quelle riferibili al fondo segregato, la questione viene risolta - sbrigativamente - con l' introduzione del comma 4-quater all' articolo 45 del Tuir secondo cui, ove tale distinzione non sia possibile, l' intero ammontare percepito costituisce reddito. Resta fermo che, in caso di trust "opachi" italiani o comunque residenti in Paesi non a fiscalità privilegiata, la tassazione continuerà ad applicarsi solo in capo al trust. In definitiva, le nuove disposizioni sembrano introdurre un autonomo presupposto impositivo per i redditi derivanti da taluni trust esteri, introducendo possibili discriminazioni e celando un intento antielusivo che pare inutilmente sovrapporsi alle regole già esistenti in tema di esterovestizione e interposizione. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

L' INTERVISTA La tecnologia è un mezzo. Può essere uno strumento d' innovazione verso un progresso benefico per l' uomo, o può trasformarsi in uno strumento nocivo, può creare diseguaglianze, ed anche essere un' arma. Oggi, nell' era dell' Intelligenza Artificiale, la duplicità di questa applicazione resta tale. A TEDCircles, format che si è tenuto giovedì a Roma e che è articolato come una tavola rotonda con esperti di differenti settori, si è parlato di Digital humanities: qui abbiamo incontrato Paolo Benanti, frate francescano, esperto di IA ed etica della tecnologia. Intelligenza Artificiale un termine ormai d' uso comune. Siamo realmente di fronte ad una forma di intelligenza?

«Negli anni 50, Norbert Wiener e Lee Shannon, costruirono un topolino meccanico che trovava la strada da solo. Da qui la provocazione: se questa macchina è in grado di fare cose da sola, dovremmo chiamarla intelligente?

Coniarono il termine intelligenza artificiale, che si è diffuso nei film di fantascienza, ed oggi nel pubblico». Cosa distingue l' IA da quella umana? «Il soggetto. Noi siamo qualcuno, la macchina è qualcosa. Poi ci sono le capacità: noi abbiamo un' intelligenza generale, dal preparare il caffè a guidare

un' auto, invece le macchine eseguono il compito per cui sono state programmate». Pe rò siamo agli inizi. In futuro potrebbero realmente compiere azioni, frutto di ragionamento, senza commettere errori, e quindi superare l' uomo? «Queste macchine possono, in alcuni casi, surrogare alcune azioni umane, e tante industrie stanno affidando dei compiti propri dell' uomo. Ma nessuna macchina è perfetta. Ci siamo accorti che quando scelgono, portano con loro delle caratteristiche molto umane: i pregiudizi. Mostrano cioè delle preferenze non giustificate dai fatti. Il problema vero è che tipo di società vogliamo creare, cosa siamo disposti ad accettare.

Accetteremmo un robot che ci fa una diagnosi al posto di un medico? » Ricorda i robot del film Terminator che riducevano gli uomini in schiavi. Le macchine potrebbero sfuggire

al nostro controllo? «Non ci sarà la fine dell' umanità, ma molto prima potremmo produrre la fine della classe media. Queste macchine possono sostituire l' uomo in alcune professioni, ben retribuite, come l' avvocato, il commercialista, in parte il medico, che lavorano sui dati. Quando si dovrà competere con la macchina, la trasformazione sociale è il primo rischio». Però ci sono tante applicazioni positive dell' IA. Per esempio nel campo delle neuroscienze, nel mondo della ricerca. «A noi colpiscono i pericoli, ma in realtà l' IA sta cambiando in meglio la vita di molte persone. Pensiamo a quei sistemi che danno maggiore autonomia ai portatori di handicap, oppure alle app che fanno diagnosi alla cornea in zone remote del mondo. La tecnologia, dalla clava in poi, ha sempre avuto un duplice fronte. Ci dava da mangiare, ma era anche un' arma come l' osso di 2001 Odissea nello spazio». Come la vede un' auto a guida autonoma in una metropoli come Roma. Rispetterebbero il codice della strada o imiterebbero il temperamento dell' uomo? «Per gestire questa trasformazione servono delle istanze che rendano compatibile una società uomo-macchina. Istanze che io chiamo algor-etica. Avremmo bisogno di macchine che capiscano le finalità dell' uomo, aiutandolo quando in difficoltà. L' uomo è un essere funzionale ed emotivo, la macchina dovrà prenderlo in considerazione, perché se guida troppo veloce io ho paura, se guida alla romana mi innervosisco, quindi dovrà adattarsi alla mia risposta emotiva». Quindi l' IA dovrebbe porsi il dubbio nella scelta. Possibile? «Si può fare matematicamente, mettendo dei parametri statistici che diano alla macchina una sorta di senso di certezza della risposta. Se noi diciamo che la parte di valore è l' uomo, non la macchina, quando avrà un' incertezza statistica deve chiedere all' uomo». Parliamo degli assistenti digitali nelle nostre case. Come valuta questi device, in grado di spiare cosa facciamo? «Prima il gps si pagava, oggi Google Maps è gratis. La filosofia che c' è dietro, è che se non si paga, noi siamo il prodotto. I dati che noi produciamo, usando quel servizio, sono il bancomat per le grandi compagnie. Li mettiamo nelle nostre stanze e diventiamo un grande esperimento sociale, ci profilano per fini commerciali. Ora stanno studiando i players di Fortnite, per comprendere come si comporta un uomo in uno scenario simulato. Il guadagno non è nella vendita del gioco, ma nei dati del bambino che ci passa ore e nutre la macchina. Domani chi progetterà negozi, potrà basarsi su questi modelli per

fare dei posti dove ci sentiamo a nostro agio per spendere». Nel campo dei social, oltre il problema della privacy, quali rischi vede? «I social sono popolati da persone e da algoritmi di profilazione che leggono l' identità dell' utente e la nutrono con cose che pensano servano all' utente. Nella storia dell' umanità, si è creata la legge per normare il comportamento delle persone. Anche gli algoritmi devono essere normati, e resi delle scatole trasparenti che possano essere controllate. I social devono essere regolati come gli altri spazi civili». Lei fa parte dei 30 esperti scelti dal Mise per elaborare la strategia nazionale sull' intelligenza artificiale. C o s a s t a t e facendo? «Tutti noi ci siamo trovati intorno ad un' idea: l' Italia è il paese del Rinascimento. Il contributo del nostro paese, non sono i miliardi, ma sviluppare l' IA secondo un modello rinascimentale, con l' uomo al centro. In inglese si dice Renaissance, che potrebbe diventare RenAIssance, questa è la nostra idea». Walter Bianco © RIPRODUZIONE RISERVATA.

In un sistema dominato da figure «professionali», il vecchio divieto di abuso di informazioni privilegiate sembra perdere significato. Resta invece il tema del singolo risparmiatore e del rapporto con i gestori

di Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo Nel diritto dei mercati finanziari vi è un piccolo, irrisolto mistero, ricco di

possibili implicazioni per la tutela dei risparmiatori. Ci riferiamo a una regola piuttosto tecnica della disciplina degli abusi di mercato, armonizzata a livello europeo da un Regolamento, che vorremmo provare a spiegare. In Europa, come in tutti gli ordinamenti avanzati, è vietato acquistare o vendere titoli, insomma operare in borsa, se si possiedono informazioni privilegiate (divieto di insider trading). Come discutemmo in queste pagine qualche mese or sono («L' Economia» del 20 maggio, ndr) la proibizione ha ragioni sia di equità che di efficienza, in quanto se si potessero sfruttare asimmetrie informative derivanti, ad esempio, dall' essere un amministratore di un emittente, i risparmiatori perderebbero fiducia nell' integrità del mercato e la liquidità ne risentirebbe. La definizione di informazione privilegiata, su cui si basa il divieto di operare, è contenuta nell' articolo 7 del Regolamento Abusi di Mercato ed è alquanto articolata. Deve trattarsi di un' informazione precisa (ossia, dalla quale si possono trarre indicazioni sull' andamento futuro dei prezzi), relativa a un emittente o i suoi titoli, non pubblica e che, se fosse resa pubblica,

avrebbe un effetto significativo sui prezzi. Questo ultimo aspetto, la cosiddetta «price sensitivity» è quello qui cruciale, essendo spesso difficile comprendere se un' informazione abbia questa caratteristica. La legge prova ad aiutare dicendo che un' informazione è significativa se l'«investitore ragionevole» ne terrebbe conto nelle proprie decisioni di investimento. Chi è, allora, l' investitore «ragionevole»? Perché le norme europee ci dicono che solo quando costui (o costei) darebbe rilievo a un' informazione, allora scattano obblighi di pubblicità, divieti di operare e di condividere l' informazione, e così via. Tutto l' impianto degli abusi di mercato si appoggia su questa nozione, che però è sfuggente. Nel linguaggio comune, siamo portati a immaginare una figura stilizzata di investitore razionale, che tiene conto di tutte le informazioni disponibili, di sofisticatezza «media» (né un super esperto, né un totale sprovveduto). Ma è corretto rifarsi a questo archetipo per comprendere se un' informazione è privilegiata? Ricerche teoriche ed empiriche, basandosi anche su teorie comportamentali, ci dicono ad esempio che gli investitori non sono razionali, e al contrario sono intrisi di pregiudizi e distorsioni cognitive, seguono condotte di «gregge», sovrastimano la loro competenza e sottostimano il rischio, faticano a

calcolare la probabilità degli eventi, e così via. D' altro lato, è ben noto che, ormai, i risparmiatori persone fisiche, i retail investors, operano sempre meno direttamente sul mercato: affidano i propri patrimoni a fondi di investimento e gestori specializzati, che impiegano non solo esperti professionali, ma anche sistemi di intelligenza artificiale e algoritmi in grado di processare migliaia di informazioni e transazioni al secondo. Il problema riguarda essenzialmente la sofisticatezza finanziaria e la capacità di utilizzare rapidamente le informazioni, traendone le giuste conseguenze: per investitore ragionevole dobbiamo intendere un soggetto «medio», né troppo bravo né troppo scarso; oppure dobbiamo guardare ai «primi della classe», a gestori di fondi con grande esperienza e importanti risorse umane e tecnologiche a disposizione? Le autorità di controllo, non sorprendentemente, tendono a spostare l' asta verso l' alto, a guardare agli investitori come soggetti di regola competenti e professionali. Ciò è comprensibile, e tendenzialmente condivisibile, anche per ampliare l' ambito di applicazione delle norme a tutela del mercato. In un mercato di investitori attenti, razionali, professionali, ampio è lo spettro di fatti cui deve annettersi importanza, che quindi sono «sensibili» sui prezzi e, che, come tali, devono essere da tutti conosciuti tempestivamente e non possono essere sfruttati dagli insider. Ne deriva però un risultato un poco paradossale:

tanto più si ritiene che sul mercato esista un ampio numero di investitori sofisticati, efficaci ed efficienti nel processare le informazioni (di modo che la figura astratta dell' investitore ragionevole può modellarsi su questi soggetti), tanto più i divieti e le tutele previste dall' insider trading potrebbero apparire superflue. Questi operatori, infatti, reagirebbero rapidissimamente a dati e notizie non pubblici, o comunque all' andamento degli scambi anche iniziati da un insider, aggiustando in un lampo i prezzi di modo che «incorporino» le informazioni (gli inglesi parlano di

«price discovery»). Tanto più il mercato è in sostanza in mano agli investitori professionali, tanto meno vi sarebbe bisogno di protezione di chi non sa cogliere tempestivamente notizie sensibili. Lo spazio per l' investitore singolo, retail, sprovveduto, si assottiglia. Il mercato è un mercato di risparmio gestito e il risparmiatore finale opera tramite investitori professionali. Non è protetto da questi? Le regole vigenti allora hanno ancora ragion d' essere o il problema è quello del rapporto tra il risparmiatore e il suo intermediario? Domande provocatorie, certo. Ma crediamo non inutili.