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Uso criteriale e uso interpretativo del concetto di laicità

2.LA LAICITÀ COME CONCETTO INTERPRETATIVO.

2.1. Uso criteriale e uso interpretativo del concetto di laicità

Escluso de plano che la laicità possa considerarsi un concetto di “tipo naturale” (quale sarebbe l’identità fissa in natura che ne indicherebbe la sostanza?), parimenti azzardata sembra l’ipotesi che riconosce al concetto di laicità una natura esclusivamente criteriale. Nel definire i concetti criteriali Dworkin afferma che “le persone condividono alcuni concetti soltanto quando sono d’accordo su una definizione – approssimativa o precisa – che fissa i criteri per l’applicazione corretta del termine o dell’espressione ad essi associati”176. L’esempio di concetto criteriale cui ricorre il filosofo americano è quello di

triangolo equilatero: tutte le persone riconoscono un triangolo equilatero perché utilizzano un medesimo test per identificarne gli esemplari, ovvero una figura con tre lati uguali. Bisogna allora chiedersi se rispetto alla laicità come concetto si dia (o possa darsi) un medesimo test. In una nota de La giustizia in toga, Dworkin sottolinea come:

Forse qualche concetto interpretativo o tutti i concetti interpretativi hanno iniziato la loro vita concettuale come concetti criteriali: probabilmente, ad esempio, le persone hanno avuto il concetto di giustizia quando hanno inteso tutte “ingiusto” per riferirsi soltanto ad atti condannati per convenzione. Ma se è così questi concetti hanno sicuramente cessato di funzionare come concetti criteriali molto tempo fa. Comunque, anche il processo inverso è un fatto comune. Un concetto criteriale impreciso diviene interpretativo, ad esempio, quando è implicato in una regola o in una direttiva o in un principio, la corretta interpretazione dei quali è rilevante177.

176R. Dworkin, Introduzione. Diritto e morale in La giustizia in toga, cit., pp. 3 – 40, p. 12. 177R. Dworkin, La giustizia in toga, cit., p. 286n.

92 Questa conclusione di Dworkin apre le porte ad un’analisi del concetto che tenga conto del contesto e dell’uso che dello stesso concetto si fa. Detto in altri termini, se un concetto è interpretativo o, meglio detto, può farsi un uso interpretativo dello stesso (come sosterrò in seguito con riguardo al concetto di laicità), non è da escludersi che del medesimo concetto possa farsi anche un uso criteriale. Si guardi all’origine e all’evoluzione del concetto di laicità.

Nel capitolo precedente si è visto come molti profili germinali della laicità abbiano contribuito a strutturare tale principio che è stato, talvolta espressamente talaltra implicitamente mediante il lavorìo costante dei Tribunali costituzionali, incorporato nelle costituzioni di quasi tutti gli Stati europei. Rispetto a tale concetto è dunque ipotizzabile un suo utilizzo criteriale se ci si sofferma su quei criteri, approssimativamente certi o, quantomeno, ampiamente condivisi, che indicano quale laico (o non laico) un determinato Stato costituzionale. Potrebbe, ad esempio, sostenersi che uno Stato in cui vige una costituzione che protegge la libertà di coscienza e di religione e l’eguaglianza è solo per ciò laico. Non mi pare, però, che nei fatti si dia una convergenza tale da offrire criteri certi d’identificazione dello stesso. Quasi tutti i Tribunali Costituzionali indicano come criteri identificativi della laicità la separazione Stato/Chiesa e la neutralità. Ma alcune divergenze rispetto a questo schema comune si danno, ad esempio, nel caso spagnolo. Accanto a questi due criteri, il Tribunale Costituzionale spagnolo ne ha indicato un terzo, quello della cooperazione tra lo Stato e i poteri pubblici da una parte e le confessioni religiose dall’altra, il quale deriva da una disposizione costituzionale precisa (art. 16.3 CE: “Nessuna confessione avrà carattere statale. I pubblici poteri terranno conto delle convinzioni religiose della società spagnola e manterranno le conseguenti relazioni di cooperazione con la Chiesa Cattolica e le altre confessioni”). Se ci si pone nell’ottica di individuare

93 criteri di identificazione comuni a livello europeo in materia di laicità, come può giustificarsi una divergenza tra il sistema spagnolo e gli altri? O, ancora, si potrebbe parlare di laicità con riferimento alla Gran Bretagna, dove addirittura è negato il principio di separazione dal riconoscimento della Chiesa anglicana quale Chiesa di Stato?

Il problema di una concezione appiattita sull’ uso criteriale del concetto di laicità è questo. Essa si dimostra incapace di indicare “normativamente” come dovrebbero essere intesi i valori posti a fondamento della laicità e, quindi, anche un accordo su tali valori si rivelerebbe fine a sé stesso: o tanto “minimo” da risultare privo di interesse pratico o eccessivamente “aperto” alle differenze contenute nelle diverse carte costituzionali da risultare inutilizzabile, ad esempio, da una Corte sovranazionale. Se, infatti, capitasse di dover utilizzare il concetto criteriale di laicità in un contesto che ne richiede un uso interpretativo, come, ad esempio, quello di un giudizio dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, esso mostrerebbe una certa inutilità in quanto privo di una teoria normativa che lo riempia di contenuto.

L’unico utilizzo criteriale del concetto di laicità che possa dimostrarsi vantaggioso è, probabilmente, quello che si basa sugli assunti secondo cui la laicità costituisce un principio giuridico-costituzionale delle democrazie occidentali ed è in qualche maniera attinente alla libertà religiosa e al principio di eguaglianza178. L’accordo in materia, mi pare,

si esaurisca su queste due asserzioni e, riprendendo la nota precedente di Dworkin, una volta stabilito criterialmente che la laicità è un principio giuridico-costituzionale delle democrazie occidentali, tale concetto criteriale impreciso si converte in un concetto

178Su questi criteri comuni d’identificazione sembra esservi, effettivamente, una certa convergenza come segnalato

dalla stessa D. Morondo Taramundi, El principio de laicidad y el principio antidiscriminatorio en la discusiónsobre la libertad

94 interpretativo la cui corretta interpretazione è in qualche senso rilevante179. È importante,

dunque, dare conto di un accordo minimo sulla giuridicità costituzionale del principio di laicità e sulla sua attinenza a norme che sono a tutti gli effetti giuridiche come la libertà di coscienza e religione e l’eguaglianza ma non si può prescindere dal passaggio successivo consistente nel proporre una teoria “normativa” (o “prescrittiva” o, in termini più forti, “morale”) rispetto a quegli assunti criteriali minimi, richiesta dall’uso interpretativo che deve farsene. Per affermare che un’interpretazione del concetto di laicità sia normativamente “corretta” sarà, dunque, necessario dar conto di un suo possibile uso in chiave interpretativa e accettare l’asserzione iniziale secondo cui “l’argomentazione giuridica è un’argomentazione tipicamente e pervasivamente morale” in quanto “i giuristi devono decidere quale insieme di principi in competizione fornisca la giustificazione migliore – moralmente più vincolante – della prassi giuridica nel suo complesso”180,

all’interno della quale si inscrive anche il principio giuridico-costituzionale di laicità.

179La combinazione di un uso criteriale e interpretativo di un medesimo concetto riflette la capacità di Dworkin di

non negare una natura comunque “convenzionale” di molti dei materiali normativi su cui si praticano poi “esercizi” di interpretazione. È indubbio, ad esempio, che nel parlare di una concezione “criteriale” del diritto Dworkin riprenda la sua decennale critica al convenzionalismo tipico di teorie “semantiche” del diritto quali il positivismo e il giusnaturalismo (il punto è ben colto da B. Pastore, Introduzione: una teoria integrata del diritto, in «Rivista di filosofia del diritto», 1/2014, pp. 7 – 18, p. 10n); ma questa critica non si spinge mai al punto di negare rilevanza al carattere “istituito” del diritto: cfr. sul punto, R. Nobles – D. Schiff, The Emperor’s New Clothes, in «The Modern Law Review», vol. 70, No.1, (Jan. 2007), pp. 139 – 160; nonché I. Lifante, La teoría de Ronald Dworkin: la reconstrucción a partir de

loscasos, in «Jueces para la democracia», 36/1999, pp. 41-46, secondo la quale, in sostanza, concezioni positiviste come

quella di Hart si sarebbero concentrate maggiormente sulla fase pre-interpretativa del diritto e la concezione di Dworkin maggiormente nella fase interpretativa e post-interpretativa.

180R. Dworkin, Il “Poscritto” di Hart e il senso della filosofia politica, cit., p. 158. Questa visione è accettata, seppur con

accenti e sfumature differenti da: M. Atienza, El Derecho como argumentación. Concepciones de la argumentación, Editorial Ariel, Barcelona, 2006 (trad. it. di Valerio Nitrato Izzo, Diritto come argomentazione. Concezioni dell’argomentazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012); R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffrè, Milano, 1998; N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, Oxford University Press, 1978. Cfr. sul punto A. Abignente,

Argomentazione giuridica, (voce) in U. Pomarici (a cura di), Atlante di filosofia del diritto. Vol. II, Giappichelli, Torino,

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