di Daniela Pasquinelli d’Allegra
5. Verso una società inclusiva
Problema o risorsa? Accoglienza o respingimenti? E il ruolo dell’Eu- ropa? E le possibilità di integrazione? E il dovere di assistenza? Tutti interrogativi che possono aprire tra i ragazzi un dibattito acceso e ar- ticolato, purché sia condotto perseguendo l’obiettivo formativo con- sistente nel comprendere che occorre impegnarsi perché si trovino le strade per una integrazione che sia a favore di tutti e a scapito di nes- suno.
Un passaggio del testo di una celebre canzone degli U2, Tomorrow, recita: «Outside, somebody’s outside, somebody’s knocking at the
door». Sì, c’è qualcuno di fuori, qualcuno sta bussando alla porta: chi
ritiene, in tutta coscienza, di non doverla aprire?
5. Verso una società inclusiva
Una solida preparazione di anni di formazione a tutti i livelli può garan- tire che la società sia pronta a realizzare concretamente il principio di inclu- sione, vincendo le resistenze e le spinte che remano in senso contrario. Se si prova a rapportare alla società le fasi che hanno condotto all’inclusione sco- lastica di tutte le differenze, è inevitabile riscontrare che in molti casi si è ancora fermi alla prima fase, quella della separazione, auspicata da posi- zioni esasperate a livello nazionale, europeo e mondiale, che trovano il loro fondamento in una diffusa preoccupazione, spesso artatamente alimentata, di vedere minacciati i propri diritti.
Tuttavia molti sono i comuni, in tutta Italia, che, dopo aver assistito all’inserimento, da parte delle istituzioni nazionali, di un numero più o me- no congruo di immigrati, cominciano ad attuare forme di integrazione nel proprio tessuto socio-economico. In alcuni casi gli immigrati stanno contri- buendo a rivitalizzare piccoli comuni in zone che in passato avevano subito uno spopolamento, anche in seguito all’esodo dei giovani.
Il problema più delicato, perché si realizzi l’inclusione, consiste proprio, come avviene nella scuola, nel creare le condizioni (e questo è anche il compito dei governi dei singoli Stati, che devono adeguatamente supportare la disponibilità della popolazione) favorevoli alla costituzione di un conte- sto di vita reale e di una comunità in grado di assorbire le fragilità a qual- siasi titolo manifeste, di conservare le identità di ciascuno (compresa quella della comunità accogliente), di farle emergere e valorizzarle nel confronto e non nello scontro. Una inclusione che già sul finire degli anni Novanta Jür-
gen Habermas (1998, p. 55) individua come universalismo che comprenda e rispetti tutte le differenze.
Troppi ostacoli, pregiudizi e nazionalismi ancora si frappongono. So- stiene Gino De Vecchis (2016, p. 157): «L’uomo, ciascun uomo, abita più spazi sociali che di conseguenza dovrebbero comportare più appartenenze. Il problema più controverso, e nello stesso tempo decisivo, è costituito dal- le modalità in cui questi spazi plurimi sono vissuti. La base identitaria è rappresentata dall’appartenenza alla comunità locale che, unita per lingua (anche nelle sue espressioni dialettali), cultura e stili di vita, offre protezio- ne e sicurezza e che, infine, costituisce il riferimento fondante della condi- visione. Questa prima appartenenza, però, se non bene intesa e vissuta, po- trebbe comportare pericoli derivanti dalle possibili chiusure, dalla creazione di ritagli – o addirittura brandelli – spaziali praticati in previsione del rifiuto nei confronti degli altri».
Si dovrà inevitabilmente andare nella direzione di una convivenza tra genti di diversa etnia, lingua, religione, cultura, usanze, abitudini alimentari e quant’altro marca le differenze: ma queste differenze andranno intese come risorse e non come disuguaglianze. E la geografia potrà essere la bus- sola per orientarsi nella conoscenza dell’altro e dell’altrove: per accogliere l’altro, infatti, occorre ascoltare la sua storia, ma anche la sua geografia personale, spesso turbata e inquinata da peregrinazioni coatte.
Ancora una volta ci si rende conto di come, affrontando questi sensibili argomenti, sia facile cadere nella retorica e di quanto invece, alla prova dei fatti, alcuni ostacoli possano apparire insormontabili. Il cambio di mentali- tà, come Fernand Braudel insegna, prevede un’elaborazione di lunghissima durata. Oggi si sta assistendo alle prime fasi di una sofferta evoluzione, ma si dovrà comunque procedere verso la piena consapevolezza di dover coa- bitare in questo “villaggio globale”. La formazione e la cultura – non è mai sufficiente ribadirlo –, possono preparare a convivere in quella che Nadia Urbinati definisce “uguaglianza di cittadinanza”, ovvero una uguaglianza stabilita per diritto o per legge tra persone che sono disuguali per caratteri- stiche e doti individuali, per situazioni economiche, sociali, culturali ecc., ma alle quali deve venir riconosciuta la parità nelle decisioni che riguarda- no la collettività, anche nel potere politico primario che si sostanzia nel- l’esercizio del voto: «Ci facciamo uguali in potere politico perché vogliamo che le nostre diversità non siano e non diventino una ragione di dominio di alcuni su altri», considerando quindi «l’uguaglianza per legge come condi- zione di libertà dal dominio, tenuto conto che siamo diversi» (Urbinati, 2017, p. 42).
6. In conclusione
In estrema sintesi riepilogativa si tratta, seppure tra le mille prevedibili avversità di esperienze nuove e spesso non facili, di tenere fede a un princi- pio che può venire in soccorso nel tracciare e seguire la rotta: non abdicare mai al pieno riconoscimento di quella “persona umana” che è in ciascuno e nell’altro da sé e alla quale fa riferimento l’articolo 3 della Costituzione ita- liana.
Merita infine citare ancora una volta le Indicazioni nazionali 2012, che sempre nel documento introduttivo riportano, nella stringatezza di una frase di particolare efficacia, quanto si è fin qui illustrato: «Non basta convivere nella società, ma questa stessa società bisogna crearla continuamente insieme».
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